LE SETTE PAROLE DI GESÙ
(Mc 15,33-34)
+3. "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?". (Mc 15,33-34)
+ Spogliatosi anche della Madre e del discepolo amato, Gesù resta davvero solo.
Ma c'è una solitudine ancora più amara che lo avvolge, che è racchiusa dentro
questa quarta parola, che per Mc (e Mt) è l'unica parola pronunciata da Gesù
sulla croce. E noi la ritroviamo giusto al centro del nostro cammino con le
Sette parole, perché per certi aspetti qui si tocca un vertice, o un abisso.
CONTESTO
Siamo nel momento più acuto della sofferenza di Gesù, messo in risalto da una
notazione ambientale significativa: "quando fu mezzogiorno si fece buio su
tutta la terra sino alle tre del pomeriggio". Sono le ore più luminose del
giorno ma proprio in quel momento c'è il buio.
È il buio interiore, quello di Gesù e il nostro. Sono le tante ore in cui non
vediamo più dove siamo, dove andiamo e ci chiediamo: perché sono solo? Perché
questo dramma non si risolve? Perché…? Da questo buio noi gridiamo il nostro
bisogno di non essere abbandonati, paura che non cessa mai.
Ma la salvezza passa proprio anche attraverso quel buio. Perché non sempre nella
Bibbia, anche nel NT, le tenebre sono segno dell'assenza di Dio, anzi, ne rivelano
la misteriosa presenza (come sul Monte della Trasfigurazione). Spesso l'intervento
di Dio si fa più evidente proprio nel buio della notte.
LA PREGHIERA GRIDATA DI GESÙ.
Dentro a quel buio c'è questa parola di Gesù, certamente la più intrigante di
quelle pronunciate da Lui sulla croce. La si può interpretare in modi diversi,
e non necessariamente uno esclude l'altro:
- un lamento per il non intervento di Dio: "Mio Dio, perché mi abbandoni
in balìa dei miei nemici?"
- totale incomprensione della volontà di Dio: "Mio Dio, non ti capisco più!".
- esperienza personale di assenza di Dio: "Mio Dio, ma ci sei ancora?".
+ Gesù prega con un Salmo. Per comprenderla partiamo da una considerazione
importante: sulla croce Gesù non inventa preghiere, prega con i Salmi. In
particolare queste parole sono l'inizio del Sal 22, uno di quei Salmi del giusto
sofferente, che parte da un grido di lamento e sfocia in una gioia indicibile,
passando per una sofferenza lancinante in termini di dolore, di rifiuto, di
scherno. Un salmo che riflette la dinamica della Pasqua: dalla morte alla gioia.
Se dunque sono le parole di un Salmo, allora questa parola di Gesù non è
il grido di un disperato (il disperato non implora più), ma è prima di tutto una
vera preghiera, che è gridata perché nasce in una situazione di estrema necessità.
Il fatto che Gesù stia pregando con un Salmo che finisce in un grande sentimento
di fiducia in Dio, non toglie nulla alla reale situazione di sofferenza e di
abbandono che Lui sta patendo; per questo Mc cita quelle specifiche parole con
cui inizia il Salmo, e non anche le parole conclusive.
Ma quel grido resta una preghiera! "È un grido di angoscia assoluta e di totale
fiducia, un grido gettato nella fede, il grido di una morte nella fede" (Guillet),
una preghiera di nuda e disadorna fede in Dio. Nel credente anche l'angoscia più
profonda può coesistere con la fiducia. Abbandono e fiducia non necessariamente
si escludono. Gesù sulla croce si sente davvero abbandonato da Dio, ma non cessa
di rivolgersi a Lui nella supplica. "Ho creduto anche quando dicevo: sono
troppo infelice" (Sal 116).
"DIO MIO, DIO MIO". Che Gesù non abbia perso la sua fiducia nel Padre lo si vede
dal fatto che lo invoca come il "suo" Dio, come Colui al quale appartiene totalmente:
"Dio mio…". Nell'esperienza del dolore si può anche dubitare di Dio, protestare con
Dio, ma non si può e non si deve rompere la relazione con Dio. Come Giobbe, come
tanti giusti che troviamo pregare nei Salmi, anche Gesù vive il suo dramma, ma
restando dentro la relazione con Dio. Sente anche Dio lontano, eppure lo invoca.
Come i due rabbini ebrei in un campo di sterminio che discutevano a lungo: "Dio
non esiste. Se esistesse non potrebbe permettere quello che sta accadendo. No, Dio
non può esistere!". E dopo aver ripetuto questo più volte conclusero: "E adesso
preghiamo!".
-> Anche noi, fintanto che continuiamo a chiamarlo, anche con rabbia, crediamo
sempre che Egli sia presente. Solamente se lasciassimo cadere il totale silenzio
tra noi e Lui sarebbe la fine della relazione.
+ Ci suona strana quella preghiera sulle labbra di Gesù, ma Lui ha il coraggio
di fare quella preghiera, non ha paura di dire che si sente solo. Questo grido
di Gesù ci insegna a non avere paura se ci sentiamo soli, abbandonati e non aver
paura di gridare al Signore quello che stiamo vivendo in quel momento. Del resto
Dio non ci chiede di cantarlo gioiosamente quando egli fa silenzio, ci chiede
solo di continuare a invocarlo senza venire meno nella fede. Magari interrogandoci:
"è il mio Dio che fa silenzio, o sono io che non so ascoltare? È Lui che è muto
o sono io che sono sordo?".
"PERCHÉ?", grida Gesù a Dio. La Bibbia è piena di perché. L'uomo chiede spiegazione
a Dio per tante cose, ma la cosa più incomprensibile per l'uomo è l'esistenza del
male e della sofferenza e il fatto che Dio taccia davanti al male: "Perché,
vedendo i malvagi, taci mentre l'empio ingoia il giusto?" (Ab 1,13). Anche Gesù
chiede conto a Dio dell'assurdità del male che gli uomini riescono a compiere,
interroga la giustizia di Dio e gli chiede conto del suo silenzio. Come può
Dio permettere questo? Perché non interviene? Perché resta muto?
Ma attraversando questa tenebra, si scoprirà che Dio tace ma c'è, resta accanto
all'uomo; si scoprirà che la vera domanda da porre davanti alla sofferenza
innocente, non è: "Dov'è Dio?", ma: "Dov'è l'uomo? Adamo, dove sei? Sei ancora
un essere umano degno di questo nome?".
+ "Per-ché" in italiano è fatto da due paroline: "per che cosa?" (di solito nel
senso di "per quale motivo", come ricerca di una causa, di una spiegazione). Così
in greco: eis tì? (e già in ebraico le-mà), con una particella che però è di moto
a luogo: "a cosa, verso cosa?". Esprime dunque non tanto il cercare una spiegazione,
ma cercare una direzione: in vista di cosa mi hai abbandonato a questa situazione?
In vista della risurrezione, è la risposta. Ma c'è un tempo che sta di mezzo perché
da Dio venga quella risposta, c'è una morte da attraversare, un tempo in cui il
Padre non interviene per consolare. La risposta di Dio avviene proprio nella morte:
non è un risparmiare il Figlio dalla morte, ma far vincere il Figlio sulla morte,
con tutto quello che la morte comporta: perdita della vita e lontananza da Dio.
-> Che ci sgorghi un perché nel tempo della sofferenza è normale, che lo si gridi
anche con rabbia al Signore, è normale. Ma non sia un perché che cerca una causa,
e che dunque è rivolto al passato (dove ho sbagliato? Cosa ho fatto per trovarmi
ora così?), ma un perché che cerca uno scopo, un fine, e dunque guarda al futuro:
"Dove mi stai portando, Signore, con questo dolore?"
"PERCHÉ MI HAI ABBANDONATO?".
+ Gesù è in una situazione disperata, e il Padre dov'è? Che fa? Al Giordano, il
giorno del battesimo, il Padre gli aveva detto: "Tu sei il mio figlio, l'amato,
in te mi compiaccio" (Mc 1,11), e poi sul Tabor di nuovo: "Questi è ,
l'amato: ascoltatelo!" (Mc 9,7), ora invece tace. Tra poco sarà un altro a
dichiarare che quello è il Figlio di Dio, ma sarà un centurione romano, non il Padre.
La forza di Gesù è sempre stata la sua relazione col Padre, il sentirsi Figlio
amato, ma come fai ad andare avanti quando non ti senti più amato, quando non
senti più su di te la fiducia?
+ Gesù non chiede di essere tolto dalla croce, quasi per dare ai passanti e ai
sacerdoti proprio quella dimostrazione che essi volevano; ma chiede al Padre di
non essere lasciato solo. È la solitudine la nostra paura primordiale: ci
spaventa la sofferenza, ma ancora di più ci spaventa il soffrire da soli.
L'abbandono è certamente una delle esperienze più dolorose per una creatura
umana, specie quando ti senti abbandonato nel momento della prova. Ecco perché
Gesù ci ha invitato a chiedere al Padre: "non abbandonarci nella tentazione/prova".
Anche Gesù ha assaporato questo abbandono sino in fondo e la croce non è che il
punto di arrivo di un'esperienza di abbandono progressivo: abbandonato dai
familiari, che lo ritenevano pazzo, fuori di sé (Mc 3,21.31-35); abbandonato
dai suoi tre discepoli più intimi a cui aveva chiesto di vegliare e pregare con
Lui nel Getsemani (Mc 14,32-43), abbandonato dai Dodici nel momento della
cattura: "lo abbandonarono e fuggirono tutti" (Mc 14,50), abbandonato dalle
folle che hanno gridato "crocifiggilo!" (Mc 15,14). E ora abbandonato anche
dal Padre! Cristo ha affrontato la morte nel più grande tormento: l'abbandono,
che non consiste soltanto nella perdita integrale della vita, ma anche nella
perdita di Dio.
LA LONTANANZA DAL PADRE. In quella situazione di totale fallimento umano,
Gesù grida la sua lontananza dal Padre. Lui sa che il Padre "non lo lascia
mai solo" (cf. Gv 16,32), che è sempre con Lui, perché il Padre è la sua
stessa vita, ma ora lo sente lontano, assente.
-> Spesso ciò che noi sentiamo è diverso da ciò che noi sappiamo. Ed è qui
che si inserisce la fede: credere non è solo sapere e neppure solo sentire.
+ Sentire la lontananza dal Padre è condividere la condizione di ogni peccatore,
che ha scelto di prendere le distanze dal Padre: il peccato è lontananza da Dio.
Qui si tocca la vetta dell'incarnazione, perché il Signore Gesù condivide con
l'uomo l'abisso più profondo, sta lì, dentro la massima angoscia dell'uomo.
Qui si fa davvero solidale con i peccatori, non solo perché viene considerato
come uno di loro, crocifisso in mezzo a due di loro, ma perché fa l'esperienza
di essere "a-teo", senza Dio, separato come loro da Dio. Per dirla con Paolo
Egli "si è fatto peccato", "diventando lui stesso maledizione per noi, poiché
sta scritto: Maledetto chi è appeso al legno," (2Cor 5,21; Gal3,13) cioè lontano
da Dio, e ha vissuto questa maledizione/lontananza da Dio nel modo più chiaro
per la Bibbia, morendo appeso a una croce: "l'appeso è una maledizione di Dio" (Dt 21,23).
IL SILENZIO DI DIO. Gesù grida quella domanda terribile. E la risposta
del Padre è il silenzio!!
Al grido straziante del Figlio, dell'uomo, Dio non si fa sentire, non
interviene. E tuttavia non è un Dio assente; è un Padre che nel Figlio
del suo amore immola il proprio cuore, e in quel puro silenzio c'è la
più alta risposta, la più sofferta «com-passione».
-> La parola che accoglie l'abbandono di Gesù è il silenzio. Dovremmo
imparare un po' di più il silenzio davanti alla sofferenza degli altri,
non riempirla di teologia, di giustificazioni, di spiegazioni.
In questo grido c'è forse anche il dramma di tanti che di fronte al dolore
non amano sentire chiacchiere, né vogliono risposte scontate, non gradiscono
accanto al letto persone superficiali o facilone, o che sanno tutto (come gli
amici di Giobbe)! Meglio il silenzio di una parola vuota. Meglio il rispetto,
piuttosto di una vicinanza formale. C'è il tempo della "rabbia" che non va
mai giudicato, ma sempre e solo rispettato, con immensa pazienza e fiducia.
COMUNIONE NELL'ABBANDONO! Per quanto straziante possa essere, anche per Gesù,
l'esperienza soggettiva dell'assenza del Padre, tuttavia oggettivamente si
sta realizzando, in modo paradossale, la più grande comunione tra loro.
All'inizio della Passione Gesù, nel Getsemani, aveva detto al Padre: "Non ciò
che voglio io, ma ciò che vuoi tu" (Mc 14,36). E allora l'esperienza di Gesù
in croce è essenzialmente un'esperienza di comunione col Padre; Gesù muore
nel segno dell'obbedienza filiale più radicale al Padre: "si è fatto obbediente
sino alla morte, e alla morte in croce" (Fil 2,8). La storia della sua morte,
pur carica di sofferenza, solitudine, abbandono, è nel più profondo una
storia d'amore tra il Figlio e il Padre. Paradossalmente il grido d'abbandono
è così il culmine dell'unità tra Gesù e il suo Dio; nel momento in cui
appare derelitto Egli è più che mai obbediente, identificato con il volere
del Padre.
CONCLUSIONE. Una parola luminosa, anche questa, pur nella sua drammaticità,
che ci dice che «in Gesù Dio è andato proprio lì dove Dio non c'è più; il suo
Amore va sino al punto che fa sua l'assenza di Dio fra gli uomini. È impensabile
una pazzia d'amore più grande di quella di sperimentare e condividere la
lontananza di Dio per amore di coloro che gli sono lontani - fosse anche
per colpa loro...
Quando noi sperimentiamo il dolore, in noi e fuori di noi, il buio di Dio,
in noi o attorno a noi, quando non capiamo più Dio e lo sentiamo estraneo,
proprio lì possiamo incontrare il Cristo che, nel Suo abbandono, è sceso a
condividere il nostro. E paradossalmente proprio lì, nella massima lontananza
da Dio, possiamo fare l'esperienza più alta e abissale di Dio (oggettivamente,
anche se soggettivamente ci pare il contrario): vicinissimi a Dio e vicinissimi
a tutti i lontani da Dio» (cf. K. Hemmerle).
-> Come vivo le mie ore di buio, le mie piccole o grandi croci, i miei momenti di abbandono?