1. UNA FAMIGLIA IN FRANTUMI
(Gen 37,2-11)
Meditazione di fratel Giorgio
INTRODUZIONE. Perché degli incontri sul tema della fraternità?
- Per riprendere il discorso da dove lo avevamo lasciato l’anno scorso, con Caino e Abele,
paradigma della difficoltà ad essere fratelli. Ma parlare di fraternità, di comunione è
vitale per un cristiano perché ci può aiutare a vivere meglio il nostro essere Chiesa,
comunità. La Chiesa è comunione!
- Non a caso Francesco batte sovente questo tasto, richiamandoci a «non stancarci mai di
cercare la fraternità... Non lasciamoci rubare la comunità» (EG 91.92; cf. Christus vivit 167).
Per lui sulla fraternità si gioca il nostro futuro: «La forza della fraternità è la nuova
frontiera del cristianesimo» (Humana communitas 6,13). A febbraio ad Abu Dabi ha firmato
il Documento sulla fratellanza umana con rappresentanti di altre religioni...
- Lettera Pastorale Derio... "Relazioni" è forse un modo più laico di dire "fraternità,
comunione" (due parole che compaiono nell’elenco finale). Lì Derio cita Francesco abbondantemente.
LA STORIA DI GIUSEPPE può darci parecchi spunti di riflessione e di revisione circa il nostro
cammino di fraternità, il nostro "essere fratelli". E dicendo "fraternità" intendiamo la prima forma
di fraternità che è la famiglia; poi la comunità parrocchiale; la nostra Chiesa locale che è la Diocesi
e su su fino alla grande fraternità universale.
-> Forse tornando a guardare alle nostre varie relazioni, ritroveremo ferite che sanguinano un po’ e
che forse cerchiamo sempre di tener nascoste. Guardiamole in faccia, per non tornarcene a casa da questi
incontri dicendo: "ma che bella questa storia di Giuseppe!", ma con l’impegno deciso di far crescere
la comunione con mia moglie/mio marito, tra noi, di riconciliarci con quel fratello/sorella, di giocarci di più nella Chiesa.
LA STORIA DI UNA FAMIGLIA
+ "Questa è la (2), non solo la storia di Giuseppe; è la storia
di una famiglia da cui deriverà un popolo, il popolo di Dio. Finora, raccontando la storia dei Patriarchi,
la Genesi ha parlato di persone singole: di Abramo, poi di suo figlio Isacco, poi del figlio Giacobbe.
Da qui in poi gli antenati del popolo di Israele sono nominati in blocco, "la discendenza di Giacobbe",
"i dodici figli di Giacobbe/Israele", tra cui anche Giuseppe, perché quei dodici erano una sola
famiglia/fraternità. Meglio: non lo erano, lo sono diventati! La storia di Giuseppe e dei suoi fratelli
è proprio lì a dire come si diventa fraternità: erano dodici fratelli, sono diventati una sola famiglia.
Infatti il punto di partenza non è quello della comunione, ma della divisione. Quella di Giacobbe è una
famiglia divisa; quei dodici non sono fratelli, non lo sono ancora, devono diventarlo.
DI CHI LA COLPA
Come sempre, è un po’ di tutti.
+ La colpa di Giuseppe, l’eroe di questa storia, che è in realtà il primo responsabile della divisione.
È l’adolescente saputello e presuntuoso che perciò si rende antipatico.
- "Riferisce al padre i pettegolezzi sui fratelli" (2), fa un po’ la spia.
- Fa quei sogni che rivelano i suoi evidenti desideri di supremazia sui fratelli, e persino sui genitori,
e ha pure la faccia tosta di raccontarli, non facendo così che accrescere l’antipatia nei suoi confronti.
+ Poi c’è la colpa di Giacobbe, che "amava Giuseppe più di tutti i suoi figli" (3), facendolo oggetto di
attenzioni tutte particolari, come quella "tunica dalle lunghe maniche" (3), che vuol dire il vestito bello,
della festa, il vestito di chi non lavora.
+ E naturalmente la colpa dei fratelli, che non sopportano quel ragazzino che si pavoneggia nel suo vestito
bello, nelle sue manie di grandezza, e perciò lo "odiavano" (3x: 4.5.8), "erano invidiosi di lui" (11),
"non potevano parlargli amichevolmente" [lett. in pace. Altra traduzione: "non lo salutavano più con
l’augurio ebraico shalom", cioè gli negano il saluto, il che significa la rottura di ogni rapporto] (4).
Così alla fine arrivano a decidere di uccidere il fratello, o comunque di toglierlo di mezzo.
Sono tutte piccole cose, certo, che non giustificano ciò che faranno poi i fratelli. Ma come in tutte le
"brave" famiglie o comunità, si comincia sempre dalle piccole cose che covate, rimuginate, finiscono per
portare alla morte della fraternità. Stiamo attenti…!
-> Ci sono anche nella nostra comunità queste invidie, questo odio? Forse diciamo più sommessamente che
certe persone ci sono un po’ "antipatiche" (parola che non c’è nella Bibbia), persone verso cui coviamo
qualcosa dentro, e con cui quindi non riusciamo proprio a parlare "in pace", o davanti alle quali viene
fuori la nostra aggressività (risposte brusche, la battuta che punge...): questa incapacità di parlarsi
serenamente dice già che la fraternità è rotta! Altri fratelli/sorelle fanno nascere in me sentimenti di
invidia e gelosia: sono tutto quello che io vorrei essere e che non sono (intelligenti, simpatici, sanno
parlare, sanno cantare...).
+ Sono piccole forme di "odio", certo solo psicologico, non morale, perché non è voluto. Dunque non è
sempre peccato, ma quando nel cuore serpeggia l’odio, l’invidia, quando cessa la comunicazione e non ci
si sa più parlare amichevolmente o si evita anche il saluto, è comunque il segno che non siamo ancora
abbastanza maturi per la fraternità, che dobbiamo lavorarci sopra.
I MOTIVI DELL’ODIO. Ma per capire a fondo i motivi di queste divisioni, invidie, odio, che non solo
riguardano i figli di Giacobbe, ma che si annidano in ogni famiglia, in ogni fraternità, dobbiamo
chiarire meglio quei due motivi che scatenano l’odio dei fratelli verso Giuseppe: l’amore di predilezione
di Giacobbe per Giuseppe e i sogni di Giuseppe.
+ L’AMORE DI PREDILEZIONE: "I suoi fratelli, vedendo che il padre amava lui più di tutti i suoi figli,
lo odiavano" (4). Perché Giacobbe amava Giuseppe più di tutti gli altri? Il testo dice: "perché era il
figlio avuto nella vecchiaia" (3), era l’ultimo, e come spesso accade il più coccolato. Forse anche
perché era il figlio di Rachele, la moglie prediletta da Giacobbe, che tanto aveva dovuto attendere quel
figlio. Ma la spiegazione non regge molto. In realtà l’amore di preferenza (nel fidanzamento, nell’amicizia
e anche in famiglia) è senza un motivo particolare.
Le preferenze non hanno spiegazioni, però ci sono: nelle famiglie, in ogni comunità. Dio stesso ha amato
il popolo di Israele più di ogni altro popolo senza un motivo particolare. Perché? Perché di sì!
Il fatto è che dovunque ci sono dei fratelli questi sono diversi l’uno dall’altro. Amore di predilezione
non è tanto che non si ami anche l’altro, è che lo si ama in modo diverso. Ora, chi non è capace di accettare
questa diversità, legge questa diversità come preferenza ingiusta nei confronti dell’altro (cf. l’odio di
Caino verso Abele). Quindi c’è dietro una mancata accettazione del fratello come diverso, ma soprattutto
una mancata accettazione del padre come padre, che ama me e ama il mio fratello, ma in modi diversi.
Quando ci sono invidie, gelosie, rivalità, c’è sì un problema di fratellanza, ma prima ancora un problema
di figliolanza: non sono capace di accettarmi amato così come Dio Padre mi ama.
-> Se io sono contento di come Dio mi ama, allora non mi fa problema se poi ama l’altro in un modo diverso.
Io devo essere contento di come sono, perché sono il risultato dell’amore di Dio. E allora, quando vedo
affiorare dentro di me qualche sentimento di invidia o rancore nei confronti di un fratello, invece di
pensare a tutto quello che può avermi fatto o non fatto, perché non provo a rivedere un po’ il mio rapporto
col Padre? Mi sento amato da Dio? Mi basta il suo amore?
+ Certo, una cosa suona strana: "I suoi fratelli, vedendo che il padre amava lui più di tutti i suoi figli,
lo odiavano" (4). Giuseppe è odiato dai fratelli perché il padre lo ama di un amore preferenziale. La cosa
strana è che l’amore suscita odio!!
Anche Gesù era il "prediletto dal Padre" e nella sua vita ha donato solo amore, ma ha suscitato odio e perciò
è stato crocifisso. Sì, l’amore può suscitare amore, può convertire l’odio in amore, ma per farlo deve assorbire
quell’odio su di sé. Così sarà per Giuseppe: l’odio dei fratelli dovrà scatenarsi su di lui, Giuseppe dovrà
perdonare, morire e solo allora sarà in grado di riportare tutti i fratelli all’amore. Così ha fatto Gesù:
ha preso l’odio e il peccato del mondo su di sé, l’ha fatto morire in sé e così ha potuto suscitare l’amore
nel cuore degli uomini.
-> Non illudiamoci che basta amare per suscitare subito amore anche nell’altro! (questo vale a livello
personale e di Chiesa). Eppure non abbiamo altra strada: continuare a donare amore. Ma – ci insegna la
storia di Giuseppe e di Gesù – deve essere "un amore da morire", "un amare fino a morire".
+ I SOGNI: "Lo odiarono ancora di più a causa dei suoi sogni" (8). È un elemento che ricorre spesso nella
vita di Giuseppe. Cosa sono i sogni? Non secondo la psicologia o la psicanalisi moderna, ma cos’è il sogno
per l’uomo dell’antichità, per l’uomo della Bibbia?
Gli antichi riflettevano sul fatto che nel sonno l’uomo è passivo, non fa niente, dunque non può provocare
i suoi sogni. E allora se non è l’uomo che li provoca vuol dire che vengono da Dio. Perciò per la Bibbia il
sogno non è fantasia, non è manifestazione dell’inconscio: è manifestazione di Dio, della sua volontà, del
suo piano. E dunque diventa anche un’anticipazione del futuro, una vera profezia.
-> Non pensiamo che nei nostri sogni sia certamente Dio che ci parla (anche se è accaduto nella vita di alcuni,
santi e non). Ma crediamo però che Lui parla, indica la strada da percorrere, svela il progetto che ha su di
noi: mettiamoci in ascolto! Per noi è la Parola, prima di tutto, che ha la funzione dei sogni.
+ Se anche i sogni di Giuseppe vengono da Dio, se Dio sta preannunciando come andranno le cose, è chiaro che
i fratelli non dicono: "sono tutte stupidaggini di un ragazzino che si crede chissà chi!". No, hanno ragione
di preoccuparsi, perché se le cose andranno come Dio ha rivelato in sogno a questo ragazzo, sono rovinati,
dovranno "prostrarsi" davanti a lui, essere suoi servi.
Si parla tanto in questa storia di "prostrarsi", "prostrarsi fino a terra": ciò che non sopportano i fratelli
è l’idea di doversi prostrare: "vorrai forse regnare su di noi o ci vorrai dominare?... dovremo forse venire...
a prostrarci fino a terra davanti a te?" (8.10).
-> "Prostrarsi" è uno dei verbi della fraternità: non ci potrà mai essere comunione, nel matrimonio o fuori,
se siamo dominati dal timore di doverci piegare davanti a un altro. Gesù ce lo ha detto anche con la lavanda dei piedi.
+ Il valore salvifico di quel "prostrarsi lo capiremo alla fine: i fratelli dovranno sì prostrarsi davanti
a Giuseppe, ma per convertirsi e ricevere il grano, non per essere suoi schiavi. E Giuseppe diventerà sì un
signore con tutti i fratelli ai suoi piedi, ma per sfamarli, non per dominarli; il suo potere dovrà essere
un servizio: salvare la sua gente dalla fame.
-> Il problema dell’uomo moderno davanti a Cristo è lo stesso dei fratelli davanti a Giuseppe: la paura, e
quindi il rifiuto, di "prostrarci" davanti a Lui, di prenderlo come Signore della nostra vita, perché ci
pare così di perdere la nostra libertà, e non capiamo che la Sua Signoria è quella di Uno che serve: ci
vuole prostrati davanti a Lui non per baciargli i piedi ma per darci il pane della vita!
Ma questo non è solo il problema dell’uomo moderno, ateo o agnostico, davanti a Dio. È il problema nostro,
di bravi credenti, che però abbiamo paura a consegnare tutta, proprio tutta, la nostra vita a Dio.
CONCLUSIONE.
+ In questa storia tutti sbagliano, e perciò tutti hanno bisogno di cambiare. Noi diremmo: tutti peccano,
perciò tutti hanno bisogno di convertirsi. I fratelli, certo. Ma anche Giacobbe, così attaccato al figlio
minore (prima Giuseppe e poi Beniamino): solo quando sarà disposto a perdere il minore li ritroverà tutti
quanti! E anche Giuseppe deve convertirsi; anzi, Dio parte proprio da lui e gli farà fare l’esperienza di
essere spogliato della sua bella tunica, l’esperienza della cisterna e della prigione, prima di essere
rivestito degli abiti del gran visir d’Egitto; dovrà fare l’esperienza di restare senza fratelli per
riacquistarli poco alla volta.
-> Oggi dobbiamo fissare bene il punto di partenza. Guardare con tutta sincerità in faccia alla nostra
situazione familiare, a quella della nostra Parrocchia: perché mio marito mi è così pesante? c’è qualche
fratello che mi è un po’ indigesto, che faccio fatica a sopportare? Perché?
E concludere: sono io il primo che deve convertirsi!