LETTERA
ENCICLICA |
INTRODUZIONE
1.
Il Vangelo della vita sta al cuore del messaggio di Gesù. Accolto dalla Chiesa
ogni giorno con amore, esso va annunciato con coraggiosa fedeltà come buona
novella agli uomini di ogni epoca e cultura.
All'aurora
della salvezza, è la nascita di un bambino che viene proclamata come lieta
notizia: « Vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi
è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore » (Lc
2, 10-11). A sprigionare questa « grande gioia » è certamente la nascita
del Salvatore; ma nel Natale è svelato anche il senso pieno di ogni nascita
umana, e la gioia messianica appare così fondamento e compimento della gioia
per ogni bimbo che nasce (cf. Gv 16,
21).
Presentando
il nucleo centrale della sua missione redentrice, Gesù dice: « Io sono venuto
perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza » (Gv
10, 10). In verità, Egli si riferisce a quella vita « nuova » ed «
eterna », che consiste nella comunione con il Padre, a cui ogni uomo è
gratuitamente chiamato nel Figlio per opera dello Spirito Santificatore. Ma
proprio in tale « vita » acquistano pieno significato tutti gli aspetti e i
momenti della vita dell'uomo.
Il valore incomparabile della persona umana
2.
L'uomo è chiamato a una pienezza di vita che va ben oltre le dimensioni della
sua esistenza terrena, poiché consiste nella partecipazione alla vita stessa di
Dio.
L'altezza
di questa vocazione soprannaturale rivela la
grandezza e la preziosità della
vita umana anche nella sua fase temporale. La vita nel tempo, infatti, è
condizione basilare, momento iniziale e parte integrante dell'intero e unitario
processo dell'esistenza umana. Un processo che, inaspettatamente e
immeritatamente, viene illuminato dalla promessa e rinnovato dal dono della vita
divina, che raggiungerà il suo pieno compimento nell'eternità (cf. 1
Gv 3, 1-2). Nello stesso tempo, proprio questa chiamata soprannaturale
sottolinea la relatività della vita
terrena dell'uomo e della donna. Essa, in verità, non è realtà « ultima »,
ma « penultima »; è comunque realtà
sacra che ci viene affidata perché la custodiamo con senso di responsabilità
e la portiamo a perfezione nell'amore e nel dono di noi stessi a Dio e ai
fratelli.
La
Chiesa sa che questo Vangelo della vita, consegnatole dal suo Signore,1 ha un'eco
profonda e persuasiva nel cuore di ogni persona, credente e anche non credente,
perché esso, mentre ne supera infinitamente le attese, vi corrisponde in modo
sorprendente. Pur tra difficoltà e incertezze, ogni uomo sinceramente aperto
alla verità e al bene, con la luce della ragione e non senza il segreto
influsso della grazia, può arrivare a riconoscere nella legge naturale scritta
nel cuore (cf. Rm 2, 14-15) il valore
sacro della vita umana dal primo inizio fino al suo termine, e ad affermare il
diritto di ogni essere umano a vedere sommamente rispettato questo suo bene
primario. Sul riconoscimento di tale diritto si fonda l'umana convivenza e la
stessa comunità politica.
Questo
diritto devono, in modo particolare, difendere e promuovere i credenti in
Cristo, consapevoli della meravigliosa verità ricordata dal Concilio Vaticano
II: « Con l'incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni
uomo ».2 In questo evento di salvezza, infatti, si rivela all'umanità non solo
l'amore sconfinato di Dio che « ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio
unigenito » (Gv 3, 16), ma anche il valore
incomparabile di ogni persona umana.
E
la Chiesa, scrutando assiduamente il mistero della Redenzione, coglie questo
valore con sempre rinnovato stupore 3 e si sente chiamata ad annunciare agli
uomini di tutti i tempi questo « vangelo », fonte di speranza invincibile e di
gioia vera per ogni epoca della storia. Il
Vangelo dell'amore di Dio per l'uomo, il Vangelo della dignità della persona e
il Vangelo della vita sono un unico e indivisibile Vangelo.
È
per questo che l'uomo, l'uomo vivente, costituisce la prima e fondamentale via
della Chiesa.4
Le nuove minacce alla vita umana
3.
Ciascun uomo, proprio a motivo del mistero del Verbo di Dio che si è fatto
carne (cf. Gv 1, 14), è affidato alla sollecitudine materna della Chiesa.
Perciò ogni minaccia alla dignità e alla vita dell'uomo non può non
ripercuotersi nel cuore stesso della Chiesa, non può non toccarla al centro
della propria fede nell'incarnazione redentrice del Figlio di Dio, non può non
coinvolgerla nella sua missione di annunciare il Vangelo
della vita in tutto il mondo e ad ogni creatura (cf. Mc 16, 15).
Oggi
questo annuncio si fa particolarmente urgente per l'impressionante moltiplicarsi
ed acutizzarsi delle minacce alla vita delle persone e dei popoli, soprattutto
quando essa è debole e indifesa. Alle antiche dolorose piaghe della miseria,
della fame, delle malattie endemiche, della violenza e delle guerre, se ne
aggiungono altre, dalle modalità inedite e dalle dimensioni inquietanti.
Già
il Concilio Vaticano II, in una pagina di drammatica attualità, ha deplorato
con forza molteplici delitti e attentati contro la vita umana. A trent'anni di
distanza, facendo mie le parole dell'assise conciliare, ancora una volta e con
identica forza li deploro a nome della Chiesa intera, con la certezza di
interpretare il sentimento autentico di ogni coscienza retta: « Tutto ciò che
è contro la vita stessa, come ogni specie di omicidio, il genocidio, l'aborto,
l'eutanasia e lo stesso suicidio volontario; tutto ciò che viola l'integrità
della persona umana, come le mutilazioni, le torture inflitte al corpo e alla
mente, gli sforzi per violentare l'intimo dello spirito; tutto ciò che offende
la dignità umana, come le condizioni infraumane di vita, le incarcerazioni
arbitrarie, le deportazioni, la schiavitù, la prostituzione, il mercato delle
donne e dei giovani, o ancora le ignominiose condizioni di lavoro con le quali i
lavoratori sono trattati come semplici strumenti di guadagno, e non come persone
libere e responsabili; tutte queste cose, e altre simili, sono certamente
vergognose e, mentre guastano la civiltà umana, inquinano coloro che così si
comportano ancor più che non quelli che le subiscono; e ledono grandemente
l'onore del Creatore ».5
4.
Purtroppo, questo inquietante panorama, lungi dal restringersi, si va piuttosto
dilatando: con le nuove prospettive aperte dal progresso scientifico e
tecnologico nascono nuove forme di attentati alla dignità dell'essere umano,
mentre si delinea e consolida una nuova situazione culturale, che dà ai delitti
contro la vita un aspetto inedito e — se possibile — ancora più iniquo suscitando
ulteriori gravi preoccupazioni: larghi strati dell'opinione pubblica
giustificano alcuni delitti contro la vita in nome dei diritti della libertà
individuale e, su tale presupposto, ne pretendono non solo l'impunità, ma
persino l'autorizzazione da parte dello Stato, al fine di praticarli in assoluta
libertà ed anzi con l'intervento gratuito delle strutture sanitarie.
Ora,
tutto questo provoca un cambiamento profondo nel modo di considerare la vita e
le relazioni tra gli uomini. Il fatto che le legislazioni di molti Paesi, magari
allontanandosi dagli stessi principi basilari delle loro Costituzioni, abbiano
acconsentito a non punire o addirittura a riconoscere la piena legittimità di
tali pratiche contro la vita è insieme sintomo preoccupante e causa non
marginale di un grave crollo morale: scelte un tempo unanimemente considerate
come delittuose e rifiutate dal comune senso morale, diventano a poco a poco
socialmente rispettabili. La stessa medicina, che per sua vocazione è ordinata
alla difesa e alla cura della vita umana, in alcuni suoi settori si presta
sempre più largamente a realizzare questi atti contro la persona e in tal modo
deforma il suo volto, contraddice sé stessa e avvilisce la dignità di quanti
la esercitano. In un simile contesto culturale e legale, anche i gravi problemi
demografici, sociali o familiari, che pesano su numerosi popoli del mondo ed
esigono un'attenzione responsabile ed operosa delle comunità nazionali e di
quelle internazionali, si trovano esposti a soluzioni false e illusorie, in
contrasto con la verità e il bene delle persone e delle Nazioni.
L'esito
al quale si perviene è drammatico: se è quanto mai grave e inquietante il
fenomeno dell'eliminazione di tante vite umane nascenti o sulla via del
tramonto, non meno grave e inquietante è il fatto che la stessa coscienza,
quasi ottenebrata da così vasti condizionamenti, fatica sempre più a percepire
la distinzione tra il bene e il male in ciò che tocca lo stesso fondamentale
valore della vita umana.
In comunione con tutti i Vescovi del mondo
5.
Al problema delle minacce alla vita umana nel nostro tempo è stato dedicato il Concistoro
straordinario dei Cardinali, svoltosi a Roma dal 4 al 7 aprile 1991. Dopo
un'ampia e approfondita discussione del problema e delle sfide poste all'intera
famiglia umana e, in particolare, alla comunità cristiana, i Cardinali, con
voto unanime, mi hanno chiesto di riaffermare con l'autorità del Successore di
Pietro il valore della vita umana e la sua inviolabilità, in riferimento alle
attuali circostanze ed agli attentati che oggi la minacciano.
Accogliendo
tale richiesta, ho scritto nella Pentecoste del 1991 una lettera
personale a ciascun Confratello perché, nello spirito della collegialità
episcopale, mi offrisse la sua collaborazione in vista della stesura di uno
specifico documento.6 Sono profondamente grato a tutti i Vescovi che hanno
risposto, fornendomi preziose informazioni, suggerimenti e proposte. Essi hanno
testimoniato anche così la loro unanime e convinta partecipazione alla missione
dottrinale e pastorale della Chiesa circa il Vangelo
della vita.
Nella
medesima lettera, a pochi giorni dalla celebrazione del centenario
dell'Enciclica Rerum novarum, attiravo
l'attenzione di tutti su questa singolare analogia: « Come un secolo fa ad
essere oppressa nei suoi fondamentali diritti era la classe operaia, e la Chiesa
con grande coraggio ne prese le difese, proclamando i sacrosanti diritti della
persona del lavoratore, così ora, quando un'altra categoria di persone è
oppressa nel diritto fondamentale alla vita, la Chiesa sente di dover dare voce
con immutato coraggio a chi non ha voce. Il suo è sempre il grido evangelico in
difesa dei poveri del mondo, di quanti sono minacciati, disprezzati e oppressi
nei loro diritti umani ».7
Ad
essere calpestata nel diritto fondamentale alla vita è oggi una grande
moltitudine di esseri umani deboli e indifesi, come sono, in particolare, i
bambini non ancora nati. Se alla Chiesa, sul finire del secolo scorso, non era
consentito tacere davanti alle ingiustizie allora operanti, meno ancora essa può
tacere oggi, quando alle ingiustizie sociali del passato, purtroppo non ancora
superate, in tante parti del mondo si aggiungono ingiustizie ed oppressioni
anche più gravi, magari scambiate per elementi di progresso in vista
dell'organizzazione di un nuovo ordine mondiale.
La
presente Enciclica, frutto della collaborazione dell'Episcopato di ogni Paese
del mondo, vuole essere dunque una
riaffermazione precisa e ferma del valore della vita umana e della sua
inviolabilità, ed insieme un appassionato appello rivolto a tutti e a
ciascuno, in nome di Dio: rispetta, difendi, ama e servi la vita, ogni vita umana! Solo su
questa strada troverai giustizia, sviluppo, libertà vera, pace e felicità!
Giungano
queste parole a tutti i figli e le figlie della Chiesa! Giungano a tutte le
persone di buona volontà, sollecite del bene di ogni uomo e donna e del destino
dell'intera società!
6.
In profonda comunione con ogni fratello e sorella nella fede e animato da
sincera amicizia per tutti, voglio rimeditare
e annunciare il Vangelo della vita, splendore di verità che illumina le
coscienze, limpida luce che risana lo sguardo ottenebrato, fonte inesauribile di
costanza e coraggio per affrontare le sempre nuove sfide che incontriamo sul
nostro cammino.
E
mentre ripenso alla ricca esperienza vissuta durante l'Anno della Famiglia,
quasi completando idealmente la Lettera da
me indirizzata « ad ogni famiglia concreta di qualunque regione della terra »,8
guardo con rinnovata fiducia a tutte le comunità domestiche ed auspico che
rinasca o si rafforzi ad ogni livello l'impegno di tutti a sostenere la
famiglia, perché anche oggi — pur in mezzo a numerose difficoltà e a pesanti
minacce — essa si conservi sempre, secondo il disegno di Dio, come «
santuario della vita ».9
A
tutti i membri della Chiesa, popolo della
vita e per la vita, rivolgo il più pressante invito perché, insieme,
possiamo dare a questo nostro mondo nuovi segni di speranza, operando affinché
crescano giustizia e solidarietà e si affermi una nuova cultura della vita
umana, per l'edificazione di un'autentica civiltà della verità e dell'amore.
CAPITOLO I
LA VOCE DEL SANGUE DI TUO FRATELLO GRIDA A ME DAL SUOLO
«
Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise »
(Gn
4, 8): alla radice della violenza contro la vita.
7.
« Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti
ha creato tutto per l'esistenza... Sì, Dio
ha creato l'uomo per l'incorruttibilità; lo fece a immagine della propria
natura. Ma la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo; e ne fanno
esperienza coloro che gli appartengono » (Sap
1, 13-14; 2, 23-24).
Il
Vangelo della vita, risuonato al
principio con la creazione dell'uomo a immagine di Dio per un destino di vita
piena e perfetta (cf. Gn 2, 7; Sap 9, 2-3),
viene contraddetto dall'esperienza lacerante della morte che entra nel mondo e getta l'ombra del non senso sull'intera
esistenza dell'uomo.
La
morte vi entra a causa dell'invidia del diavolo (cf. Gn
3, 1.4-5) e del peccato dei progenitori (cf. Gn
2, 17; 3, 17-19). E vi entra in modo violento, attraverso
l'uccisione di Abele da parte del fratello Caino: « Mentre erano in
campagna, Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise » (Gn
4, 8).
Questa
prima uccisione è presentata con una singolare eloquenza in una pagina
paradigmatica del libro della Genesi: una pagina ritrascritta ogni giorno, senza
sosta e con avvilente ripetizione, nel libro della storia dei popoli.
Vogliamo
rileggere insieme questa pagina biblica, che, pur nella sua arcaicità ed
estrema semplicità, si presenta quanto mai ricca di insegnamenti.
«
Abele era pastore di greggi e Caino lavoratore del suolo. Dopo un certo tempo,
Caino offrì frutti del suolo in sacrificio al Signore; anche Abele offrì
primogeniti del suo gregge e il loro grasso. Il Signore gradì Abele e la sua
offerta, ma non gradì Caino e la sua offerta.
Caino
ne fu molto irritato e il suo volto era abbattuto. Il Signore disse allora a
Caino: "Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? Se agisci
bene, non dovrai forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è
accovacciato alla tua porta; verso di te è la sua bramosia, ma tu
dominala".
Caino
disse al fratello Abele: "Andiamo in campagna!". Mentre erano in
campagna, Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise.
Allora
il Signore disse a Caino: "Dov'è Abele, tuo fratello?". Egli rispose:
"Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?". Riprese:
"Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!
Ora sii maledetto lungi da quel suolo che per opera della tua mano ha bevuto il
sangue di tuo fratello. Quando lavorerai il suolo, esso non ti darà più i suoi
prodotti: ramingo e fuggiasco sarai sulla terra".
Disse
Caino al Signore: "Troppo grande è la mia colpa per sopportarla! Ecco, tu
mi scacci oggi da questo suolo e io mi dovrò nascondere lontano da te; io sarò
ramingo e fuggiasco sulla terra e chiunque mi incontrerà mi potrà
uccidere".
Ma
il Signore gli disse: "Però chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta
sette volte!". Il Signore impose a Caino un segno, perché non lo colpisse
chiunque l'avesse incontrato. Caino si allontanò dal Signore e abitò nel paese
di Nod, ad oriente di Eden » (Gn 4,
2-16).
8.
Caino è « molto irritato » e ha il volto « abbattuto » perché « il
Signore gradì Abele e la sua offerta » (Gn
4, 4). Il testo biblico non rivela il motivo per cui Dio preferisce il
sacrificio di Abele a quello di Caino; indica però con chiarezza che, pur
preferendo il dono di Abele, non interrompe il suo dialogo con Caino. Lo ammonisce ricordandogli
la sua libertà di fronte al male: l'uomo non è per nulla un predestinato
al male. Certo, come già Adamo, egli è tentato dalla potenza malefica del
peccato che, come bestia feroce, è appostata alla porta del suo cuore, in
attesa di avventarsi sulla preda. Ma Caino rimane libero di fronte al peccato.
Lo può e lo deve dominare: « Verso di te è la sua bramosia, ma tu dominala!
» (Gn 4, 7).
Sull'ammonimento
del Signore hanno il sopravvento la
gelosia e l'ira, e così Caino s'avventa sul proprio fratello e lo uccide.
Come leggiamo nel Catechismo della Chiesa
Cattolica, « la Scrittura, nel racconto dell'uccisione di Abele da parte
del fratello Caino, rivela, fin dagli inizi della storia umana, la presenza
nell'uomo della collera e della cupidigia, conseguenze del peccato originale.
L'uomo è diventato il nemico del suo simile ».10
Il
fratello uccide il fratello. Come nel primo fratricidio, in ogni omicidio
viene violata la parentela « spirituale », che accomuna gli uomini in un'unica
grande famiglia,11 essendo tutti partecipi dello stesso bene fondamentale:
l'uguale dignità personale. Non poche volte viene violata anche la parentela
« della carne e del sangue », ad esempio quando le minacce alla vita si
sviluppano nel rapporto tra genitori e figli, come avviene con l'aborto o
quando, nel più vasto contesto familiare o parentale, viene favorita o
procurata l'eutanasia.
Alla
radice di ogni violenza contro il prossimo c'è un
cedimento alla « logica » del maligno, cioè di colui che « è stato
omicida fin da principio » (Gv 8,
44), come ci ricorda l'apostolo Giovanni: « Poiché questo è il messaggio che
avete udito fin da principio: che ci amiamo gli uni gli altri. Non come Caino,
che era dal maligno e uccise il suo fratello » (1
Gv 3, 11-12). Così l'uccisione del fratello, fin dagli albori della storia,
è la triste testimonianza di come il male progredisca con rapidità
impressionante: alla rivolta dell'uomo contro Dio nel paradiso terrestre si
accompagna la lotta mortale dell'uomo contro l'uomo.
Dopo
il delitto, Dio interviene a vendicare l'ucciso. Di fronte a Dio, che lo
interroga sulla sorte di Abele, Caino, anziché mostrarsi impacciato e scusarsi,
elude la domanda con arroganza: « Non lo so. Sono forse il guardiano di mio
fratello? » (Gn 4, 9). « Non
lo so »: con la menzogna Caino cerca di coprire il delitto. Così è spesso
avvenuto e avviene quando le più diverse ideologie servono a giustificare e a
mascherare i più atroci delitti verso la persona. « Sono
forse io il guardiano di mio fratello? »: Caino non vuole pensare al
fratello e rifiuta di vivere quella responsabilità che ogni uomo ha verso
l'altro. Viene spontaneo pensare alle odierne tendenze di deresponsabilizzazione
dell'uomo verso il suo simile, di cui sono sintomi, tra l'altro, il venir meno
della solidarietà verso i membri più deboli della società — quali gli
anziani, gli ammalati, gli immigrati, i bambini — e l'indifferenza che spesso
si registra nei rapporti tra i popoli anche quando sono in gioco valori
fondamentali come la sussistenza, la libertà e la pace.
9.
Ma Dio non può lasciare impunito il
delitto: dal suolo su cui è stato versato, il sangue dell'ucciso esige che
Egli faccia giustizia (cf. Gn 37, 26; Is 26, 21; Ez
24, 7-8). Da questo testo la Chiesa ha ricavato la denominazione di «
peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio » e vi ha incluso, anzitutto,
l'omicidio volontario.12 Per gli ebrei, come per molti popoli dell'antichità,
il sangue è la sede della vita, anzi « il sangue è la vita » (Dt
12, 23) e la vita, specie quella umana, appartiene solo a Dio: per questo chi
attenta alla vita dell'uomo, in qualche modo attenta a Dio stesso.
Caino
è maledetto da Dio e anche dalla terra, che gli rifiuterà i suoi frutti (cf.
Gn 4, 11-12). Ed èpunito:
abiterà nella steppa e nel deserto. La violenza omicida cambia
profondamente l'ambiente di vita dell'uomo. La terra da « giardino di Eden » (Gn 2, 15), luogo di abbondanza, di serene relazioni interpersonali e
di amicizia con Dio, diventa « paese di Nod » (Gn 4, 16), luogo della « miseria », della solitudine e della
lontananza da Dio. Caino sarà « ramingo e fuggiasco sulla terra » (Gn
4, 14): incertezza e instabilità lo accompagneranno sempre.
Dio,
tuttavia, sempre misericordioso anche quando punisce, «
impose a Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque l'avesse
incontrato » (Gn 4, 15): gli dà,
dunque, un contrassegno, che ha lo scopo non di condannarlo all'esecrazione
degli altri uomini, ma di proteggerlo e difenderlo da quanti vorranno ucciderlo
fosse anche per vendicare la morte di Abele. Neppure
l'omicida perde la sua dignità personale e Dio stesso se ne fa garante. Ed
è proprio qui che si manifesta il paradossale
mistero della misericordiosa giustizia di Dio, come scrive sant'Ambrogio: «
Poiché era stato commesso un fratricidio, cioè il più grande dei crimini, nel
momento in cui si introdusse il peccato, subito dovette essere estesa la legge
della misericordia divina; perché, se il castigo avesse colpito immediatamente
il colpevole, non accadesse che gli uomini, nel punire, non usassero alcuna
tolleranza né mitezza, ma consegnassero immediatamente al castigo i colpevoli.
(...) Dio respinse Caino dal suo cospetto e, rinnegato dai suoi genitori, lo
relegò come nell'esilio di una abitazione separata, per il fatto che era
passato dall'umana mitezza alla ferocia belluina. Tuttavia Dio non volle punire
l'omicida con un omicidio, poiché vuole il pentimento del peccatore più che la
sua morte ».13
«
Che hai fatto? »
(Gn
4, 10): l'eclissi del valore della
vita
10.
Il Signore disse a Caino: « Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello
grida a me dal suolo! » (Gn 4, 10). La voce del sangue versato dagli uomini non cessa di gridare, di
generazione in generazione, assumendo toni e accenti diversi e sempre nuovi.
La
domanda del Signore « Che hai fatto? », alla quale Caino non può sfuggire, è
rivolta anche all'uomo contemporaneo perché prenda coscienza dell'ampiezza e
della gravità degli attentati alla vita da cui continua ad essere segnata la
storia dell'umanità; vada alla ricerca delle molteplici cause che li generano e
li alimentano; rifletta con estrema serietà sulle conseguenze che derivano da
questi stessi attentati per l'esistenza delle persone e dei popoli.
Alcune
minacce provengono dalla natura stessa, ma sono aggravate dall'incuria colpevole
e dalla negligenza degli uomini che non raramente potrebbero porvi rimedio;
altre invece sono il frutto di situazioni di violenza, di odi, di contrapposti
interessi, che inducono gli uomini ad aggredire altri uomini con omicidi,
guerre, stragi, genocidi.
E
come non pensare alla violenza che si fa alla vita di milioni di esseri umani,
specialmente bambini, costretti alla miseria, alla sottonutrizione e alla fame,
a causa di una iniqua distribuzione delle ricchezze tra i popoli e le classi
sociali? o alla violenza insita, prima ancora che nelle guerre, in uno
scandaloso commercio delle armi, che favorisce la spirale dei tanti conflitti
armati che insanguinano il mondo? o alla seminagione di morte che si opera con
l'inconsulto dissesto degli equilibri ecologici, con la criminale diffusione
della droga o col favorire modelli di esercizio della sessualità che, oltre ad
essere moralmente inaccettabili, sono anche forieri di gravi rischi per la vita?
È impossibile registrare in modo completo la vasta gamma delle minacce alla
vita umana, tante sono le forme, aperte o subdole, che esse rivestono nel nostro
tempo!
11.
Ma la nostra attenzione intende concentrarsi, in particolare, su un
altro genere di attentati, concernenti la vita nascente e terminale, che
presentano caratteri nuovi rispetto al
passato e sollevano problemi di singolare gravità per il fatto che tendono
a perdere, nella coscienza collettiva, il carattere di « delitto » e ad
assumere paradossalmente quello del « diritto », al punto che se ne pretende
un vero e proprio riconoscimento legale da
parte dello Stato e la successiva esecuzione mediante l'intervento gratuito
degli stessi operatori sanitari. Tali attentati colpiscono la vita umana in
situazioni di massima precarietà, quando è priva di ogni capacità di difesa.
Ancora più grave è il fatto che essi, in larga parte, sono consumati proprio
all'interno e ad opera di quella famiglia che costitutivamente è invece
chiamata ad essere « santuario della vita ».
Come
s'è potuta determinare una simile situazione? Occorre prendere in
considerazione molteplici fattori. Sullo sfondo c'è una profonda crisi della
cultura, che ingenera scetticismo sui fondamenti stessi del sapere e dell'etica
e rende sempre più difficile cogliere con chiarezza il senso dell'uomo, dei
suoi diritti e dei suoi doveri. A ciò si aggiungono le più diverse difficoltà
esistenziali e relazionali, aggravate dalla realtà di una società complessa,
in cui le persone, le coppie, le famiglie rimangono spesso sole con i loro
problemi. Non mancano situazioni di particolare povertà, angustia o
esasperazione, in cui la fatica della sopravvivenza, il dolore ai limiti della
sopportabilità, le violenze subite, specialmente quelle che investono le donne,
rendono le scelte di difesa e di promozione della vita esigenti a volte fino
all'eroismo.
Tutto
ciò spiega, almeno in parte, come il valore della vita possa oggi subire una
specie di « eclissi », per quanto la coscienza non cessi di additarlo quale
valore sacro e intangibile, come dimostra il fatto stesso che si tende a coprire
alcuni delitti contro la vita nascente o terminale con locuzioni di tipo
sanitario, che distolgono lo sguardo dal fatto che è in gioco il diritto
all'esistenza di una concreta persona umana.
12.
In realtà, se molti e gravi aspetti dell'odierna problematica sociale possono
in qualche modo spiegare il clima di diffusa incertezza morale e talvolta
attenuare nei singoli la responsabilità soggettiva, non è meno vero che siamo
di fronte a una realtà più vasta, che si può considerare come una vera e
propria struttura di peccato, caratterizzata
dall'imporsi di una cultura anti-solidaristica, che si configura in molti casi
come vera « cultura di morte ». Essa è attivamente promossa da forti correnti
culturali, economiche e politiche, portatrici di una concezione efficientistica
della società.
Guardando
le cose da tale punto di vista, si può, in certo senso, parlare di una guerra
dei potenti contro i deboli: la vita che richiederebbe più accoglienza,
amore e cura è ritenuta inutile, o è considerata come un peso insopportabile
e, quindi, è rifiutata in molte maniere. Chi, con la sua malattia, con il suo
handicap o, molto più semplicemente, con la stessa sua presenza mette in
discussione il benessere o le abitudini di vita di quanti sono più
avvantaggiati, tende ad essere visto come un nemico da cui difendersi o da
eliminare. Si scatena così una specie di « congiura
contro la vita ». Essa non coinvolge solo le singole persone nei loro
rapporti individuali, familiari o di gruppo, ma va ben oltre, sino ad intaccare
e stravolgere, a livello mondiale, i rapporti tra i popoli e gli Stati.
13.
Per facilitare la diffusione dell'aborto, si
sono investite e si continuano ad investire somme ingenti destinate alla messa a
punto di preparati farmaceutici, che rendono possibile l'uccisione del feto nel
grembo materno, senza la necessità di ricorrere all'aiuto del medico. La stessa
ricerca scientifica, su questo punto, sembra quasi esclusivamente preoccupata di
ottenere prodotti sempre più semplici ed efficaci contro la vita e, nello
stesso tempo, tali da sottrarre l'aborto ad ogni forma di controllo e
responsabilità sociale.
Si
afferma frequentemente che la contraccezione,
resa sicura e accessibile a tutti, è il rimedio più efficace contro
l'aborto. Si accusa poi la Chiesa cattolica di favorire di fatto l'aborto perché
continua ostinatamente a insegnare l'illiceità morale della contraccezione.
L'obiezione,
a ben guardare, si rivela speciosa. Può essere, infatti, che molti ricorrano ai
contraccettivi anche nell'intento di evitare successivamente la tentazione
dell'aborto. Ma i disvalori insiti nella « mentalità contraccettiva » — ben
diversa dall'esercizio responsabile della paternità e maternità, attuato nel
rispetto della piena verità dell'atto coniugale — sono tali da rendere più
forte proprio questa tentazione, di fronte all'eventuale concepimento di una
vita non desiderata. Di fatto la cultura abortista è particolarmente sviluppata
proprio in ambienti che rifiutano l'insegnamento della Chiesa sulla
contraccezione. Certo, contraccezione ed aborto, dal punto di vista morale, sono
mali specificamente diversi: l'una contraddice all'integra verità
dell'atto sessuale come espressione propria dell'amore coniugale, l'altro
distrugge la vita di un essere umano; la prima si oppone alla virtù della
castità matrimoniale, il secondo si oppone alla virtù della giustizia e viola
direttamente il precetto divino « non uccidere ».
Ma
pur con questa diversa natura e peso morale, essi sono molto spesso in intima
relazione, come frutti di una medesima pianta. È vero che non mancano casi in
cui alla contraccezione e allo stesso aborto si giunge sotto la spinta di
molteplici difficoltà esistenziali, che tuttavia non possono mai esonerare
dallo sforzo di osservare pienamente la Legge di Dio. Ma in moltissimi altri
casi tali pratiche affondano le radici in una mentalità edonistica e
deresponsabilizzante nei confronti della sessualità e suppongono un concetto
egoistico di libertà che vede nella procreazione un ostacolo al dispiegarsi
della propria personalità. La vita che potrebbe scaturire dall'incontro
sessuale diventa così il nemico da evitare assolutamente e l'aborto l'unica
possibile risposta risolutiva di fronte ad una contraccezione fallita.
Purtroppo
la stretta connessione che, a livello di mentalità, intercorre tra la pratica
della contraccezione e quella dell'aborto emerge sempre di più e lo dimostra in
modo allarmante anche la messa a punto di preparati chimici, di dispositivi
intrauterini e di vaccini che, distribuiti con la stessa facilità dei
contraccettivi, agiscono in realtà come abortivi nei primissimi stadi di
sviluppo della vita del nuovo essere umano.
14.
Anche le varie tecniche di riproduzione artificiale, che sembrerebbero porsi a
servizio della vita e che sono praticate non poche volte con questa intenzione,
in realtà aprono la porta a nuovi attentati contro la vita. Al di là del fatto
che esse sono moralmente inaccettabili, dal momento che dissociano la
procreazione dal contesto integralmente umano dell'atto coniugale,14 queste
tecniche registrano alte percentuali di insuccesso: esso riguarda non tanto la
fecondazione, quanto il successivo sviluppo dell'embrione, esposto al rischio di
morte entro tempi in genere brevissimi. Inoltre, vengono prodotti talvolta
embrioni in numero superiore a quello necessario per l'impianto nel grembo della
donna e questi cosiddetti « embrioni soprannumerari » vengono poi soppressi o
utilizzati per ricerche che, con il pretesto del progresso scientifico o medico,
in realtà riducono la vita umana a semplice « materiale biologico » di cui
poter liberamente disporre.
Le
diagnosi pre-natali, che non
presentano difficoltà morali se fatte per individuare eventuali cure necessarie
al bambino non ancora nato, diventano troppo spesso occasione per proporre e
procurare l'aborto. È l'aborto eugenetico, la cui legittimazione nell'opinione
pubblica nasce da una mentalità — a torto ritenuta coerente con le esigenze
della « terapeuticità » — che accoglie la vita solo a certe condizioni e
che rifiuta il limite, l'handicap, l'infermità.
Seguendo
questa stessa logica, si è giunti a negare le cure ordinarie più elementari, e
perfino l'alimentazione, a bambini nati con gravi handicap o malattie. Lo
scenario contemporaneo, inoltre, si fa ancora più sconcertante a motivo delle
proposte, avanzate qua e là, di legittimare, nella stessa linea del diritto
all'aborto, persino l'infanticidio, ritornando
così ad uno stadio di barbarie che si sperava di aver superato per sempre.
15.
Minacce non meno gravi incombono pure sui malati
inguaribili e sui morenti, in un
contesto sociale e culturale che, rendendo più difficile affrontare e
sopportare la sofferenza, acuisce la tentazione
di risolvere il problema del soffrire eliminandolo alla radice con
l'anticipare la morte al momento ritenuto più opportuno.
In
tale scelta confluiscono spesso elementi di diverso segno, purtroppo convergenti
a questo terribile esito. Può essere decisivo, nel soggetto malato, il senso di
angoscia, di esasperazione, persino di disperazione, provocato da un'esperienza
di dolore intenso e prolungato. Ciò mette a dura prova gli equilibri a volte già
instabili della vita personale e familiare, sicché, da una parte, il malato,
nonostante gli aiuti sempre più efficaci dell'assistenza medica e sociale,
rischia di sentirsi schiacciato dalla propria fragilità; dall'altra, in coloro
che gli sono effettivamente legati, può operare un senso di comprensibile anche
se malintesa pietà. Tutto ciò è aggravato da un'atmosfera culturale che non
coglie nella sofferenza alcun significato o valore, anzi la considera il male
per eccellenza, da eliminare ad ogni costo; il che avviene specialmente quando
non si ha una visione religiosa che aiuti a decifrare positivamente il mistero
del dolore.
Ma
nell'orizzonte culturale complessivo non manca di incidere anche una sorta di
atteggiamento prometeico dell'uomo che, in tal modo, si illude di potersi
impadronire della vita e della morte perché decide di esse, mentre in realtà
viene sconfitto e schiacciato da una morte irrimediabilmente chiusa ad ogni
prospettiva di senso e ad ogni speranza. Riscontriamo una tragica espressione di
tutto ciò nella diffusione dell'eutanasia, mascherata e strisciante o attuata apertamente e persino
legalizzata. Essa, oltre che per una presunta pietà di fronte al dolore del
paziente, viene talora giustificata con una ragione utilitaristica, volta ad
evitare spese improduttive troppo gravose per la società. Si propone così la
soppressione dei neonati malformati, degli handicappati gravi, degli inabili,
degli anziani, soprattutto se non autosufficienti, e dei malati terminali. Né
ci è lecito tacere di fronte ad altre forme più subdole, ma non meno gravi e
reali, di eutanasia. Esse, ad esempio, potrebbero verificarsi quando, per
aumentare la disponibilità di organi da trapiantare, si procedesse all'espianto
degli stessi organi senza rispettare i criteri oggettivi ed adeguati di
accertamento della morte del donatore.
16.
Un altro fenomeno attuale, al quale si accompagnano frequentemente minacce e
attentati alla vita, è quello
demografico. Esso si presenta in modo differente nelle diverse parti del
mondo: nei Paesi ricchi e sviluppati si registra un preoccupante calo o crollo
delle nascite; i Paesi poveri, invece, presentano in genere un tasso elevato di
aumento della popolazione, difficilmente sopportabile in un contesto di minore
sviluppo economico e sociale, o addirittura di grave sottosviluppo. Di fronte
alla sovrapopolazione dei Paesi poveri mancano, a livello internazionale,
interventi globali — serie politiche familiari e sociali, programmi di
crescita culturale e di giusta produzione e distribuzione delle risorse —
mentre si continua a mettere in atto politiche antinataliste.
Contraccezione,
sterilizzazione e aborto vanno certamente annoverati tra le cause che
contribuiscono a determinare le situazioni di forte denatalità. Può essere
facile la tentazione di ricorrere agli stessi metodi e attentati contro la vita
anche nelle situazioni di « esplosione demografica ».
L'antico
faraone, sentendo come un incubo la presenza e il moltiplicarsi dei figli di
Israele, li sottopose ad ogni forma di oppressione e ordinò che venisse fatto
morire ogni neonato maschio delle donne ebree (cf. Es
1, 7-22). Allo stesso modo si comportano oggi non pochi potenti della terra.
Essi
pure avvertono come un incubo lo sviluppo demografico in atto e temono che i
popoli più prolifici e più poveri rappresentino una minaccia per il benessere
e la tranquillità dei loro Paesi. Di conseguenza, piuttosto che voler
affrontare e risolvere questi gravi problemi nel rispetto della dignità delle
persone e delle famiglie e dell'inviolabile diritto alla vita di ogni uomo,
preferiscono promuovere e imporre con qualsiasi mezzo una massiccia
pianificazione delle nascite. Gli stessi aiuti economici, che sarebbero disposti
a dare, vengono ingiustamente condizionati all'accettazione di una politica
antinatalista.
17.
L'umanità di oggi ci offre uno spettacolo davvero allarmante, se pensiamo non
solo ai diversi ambiti nei quali si sviluppano gli attentati alla vita, ma anche
alla loro singolare proporzione numerica, nonché al molteplice e potente
sostegno che viene loro dato dall'ampio consenso sociale, dal frequente
riconoscimento legale, dal coinvolgimento di parte del personale sanitario.
Come
ebbi a dire con forza a Denver, in occasione dell'VIII Giornata Mondiale della
Gioventù, « con il tempo, le minacce contro la vita non vengono meno. Esse, al
contrario, assumono dimensioni enormi. Non si tratta soltanto di minacce
provenienti dall'esterno, di forze della natura o dei "Caino" che
assassinano gli "Abele"; no, si tratta di minacce
programmate in maniera scientifica e sistematica. Il ventesimo secolo verrà
considerato un'epoca di attacchi massicci contro la vita, un'interminabile serie
di guerre e un massacro permanente di vite umane innocenti. I falsi profeti e i
falsi maestri hanno conosciuto il maggior successo possibile ».15 Al di là
delle intenzioni, che possono essere varie e magari assumere forme suadenti
persino in nome della solidarietà, siamo in realtà di fronte a una oggettiva «
congiura contro la vita » che vede implicate anche Istituzioni
internazionali, impegnate a incoraggiare e programmare vere e proprie campagne
per diffondere la contraccezione, la sterilizzazione e l'aborto. Non si può,
infine, negare che i mass media sono spesso complici di questa congiura,
accreditando nell'opinione pubblica quella cultura che presenta il ricorso alla
contraccezione, alla sterilizzazione, all'aborto e alla stessa eutanasia come
segno di progresso e conquista di libertà, mentre dipinge come nemiche della
libertà e del progresso le posizioni incondizionatamente a favore della vita.
«
Sono forse il guardiano di mio fratello? »
(Gn
4, 9): un'idea perversa di libertà
18.
Il panorama descritto chiede di essere conosciuto non soltanto nei fenomeni di
morte che lo caratterizzano, ma anche nelle molteplici
cause che lo determinano. La domanda del Signore « Che hai fatto? » (Gn 4, 10) sembra essere quasi un invito rivolto a Caino ad andare
oltre la materialità del suo gesto omicida, per coglierne tutta la gravità
nelle motivazioni che ne sono
all'origine e nelle conseguenze che ne
derivano.
Le
scelte contro la vita nascono, talvolta, da situazioni difficili o addirittura
drammatiche di profonda sofferenza, di solitudine, di totale mancanza di
prospettive economiche, di depressione e di angoscia per il futuro. Tali
circostanze possono attenuare anche notevolmente la responsabilità soggettiva e
la conseguente colpevolezza di quanti compiono queste scelte in sé criminose.
Tuttavia oggi il problema va ben al di là del pur doveroso riconoscimento di
queste situazioni personali. Esso si pone anche sul piano culturale, sociale e
politico, dove presenta il suo aspetto più sovversivo e conturbante nella
tendenza, sempre più largamente condivisa, a interpretare i menzionati delitti
contro la vita come legittime espressioni della libertà individuale, da riconoscere e
proteggere come veri e propri diritti.
In
questo modo giunge ad una svolta dalle tragiche conseguenze un lungo processo
storico, che dopo aver scoperto l'idea dei « diritti umani » — come diritti
inerenti a ogni persona e precedenti ogni Costituzione e legislazione degli
Stati — incorre oggi in una sorprendente
contraddizione: proprio in un'epoca in cui si proclamano solennemente i
diritti inviolabili della persona e si afferma pubblicamente il valore della
vita, lo stesso diritto alla vita viene praticamente negato e conculcato, in
particolare nei momenti più emblematici dell'esistenza, quali sono il nascere e
il morire.
Da
un lato, le varie dichiarazioni dei diritti dell'uomo e le molteplici iniziative
che ad esse si ispirano dicono l'affermarsi a livello mondiale di una sensibilità
morale più attenta a riconoscere il valore e la dignità di ogni essere umano
in quanto tale, senza alcuna distinzione di razza, nazionalità, religione,
opinione politica, ceto sociale.
Dall'altro
lato, a queste nobili proclamazioni si contrappone purtroppo, nei fatti, una
loro tragica negazione. Questa è ancora più sconcertante, anzi più
scandalosa, proprio perché si realizza in una società che fa dell'affermazione
e della tutela dei diritti umani il suo obiettivo principale e insieme il suo
vanto. Come mettere d'accordo queste ripetute affermazioni di principio con il
continuo moltiplicarsi e la diffusa legittimazione degli attentati alla vita
umana? Come conciliare queste dichiarazioni col rifiuto del più debole, del più
bisognoso, dell'anziano, dell'appena concepito? Questi attentati vanno in
direzione esattamente contraria al rispetto della vita e rappresentano una minaccia frontale a tutta la cultura dei diritti dell'uomo. È una
minaccia capace, al limite, di mettere a repentaglio lo stesso significato della
convivenza democratica: da società di «
con- viventi », le nostre città rischiano di diventare società di esclusi, di
emarginati, di rimossi e soppressi. Se poi lo sguardo si allarga ad un orizzonte
planetario, come non pensare che la stessa affermazione dei diritti delle
persone e dei popoli, quale avviene in alti consessi internazionali, si riduce a
sterile esercizio retorico, se non si smaschera l'egoismo dei Paesi ricchi che
chiudono l'accesso allo sviluppo dei Paesi poveri o lo condizionano ad assurdi
divieti di procreazione, contrapponendo lo sviluppo all'uomo? Non occorre forse
mettere in discussione gli stessi modelli economici, adottati sovente dagli
Stati anche per spinte e condizionamenti di carattere internazionale, che
generano ed alimentano situazioni di ingiustizia e violenza nelle quali la vita
umana di intere popolazioni viene avvilita e conculcata?
19.
Dove stanno le radici di una contraddizione tanto paradossale?
Le
possiamo riscontrare in complessive valutazioni di ordine culturale e morale, a
iniziare da quella mentalità che,
esasperando e persino deformando il concetto di soggettività, riconosce
come titolare di diritti solo chi si presenta con piena o almeno incipiente
autonomia ed esce da condizioni di totale dipendenza dagli altri. Ma come
conciliare tale impostazione con l'esaltazione
dell'uomo quale essere « indisponibile »? La teoria dei diritti umani si
fonda proprio sulla considerazione del fatto che l'uomo, diversamente dagli
animali e dalle cose, non può essere sottomesso al dominio di nessuno. Si deve
pure accennare a quella logica che tende a identificare
la dignità personale con la capacità di comunicazione verbale ed esplicita e,
in ogni caso, sperimentabile. È chiaro che, con tali presupposti, non c'è
spazio nel mondo per chi, come il nascituro o il morente, è un soggetto
strutturalmente debole, sembra totalmente assoggettato alla mercé di altre
persone e da loro radicalmente dipendente e sa comunicare solo mediante il muto
linguaggio di una profonda simbiosi di affetti. È, quindi, la forza a farsi
criterio di scelta e di azione nei rapporti interpersonali e nella convivenza
sociale. Ma questo è l'esatto contrario di quanto ha voluto storicamente
affermare lo Stato di diritto, come comunità nella quale alle « ragioni della
forza » si sostituisce la « forza della ragione ».
Ad
un altro livello, le radici della contraddizione che intercorre tra la solenne
affermazione dei diritti dell'uomo e la loro tragica negazione nella pratica
risiedono in una concezione della libertà che esalta in modo assoluto il singolo
individuo, e non lo dispone alla solidarietà, alla piena accoglienza e al
servizio dell'altro. Se è vero che talvolta la soppressione della vita nascente
o terminale si colora anche di un malinteso senso di altruismo e di umana pietà,
non si può negare che una tale cultura di morte, nel suo insieme, tradisce una
concezione della libertà del tutto individualistica che finisce per essere la
libertà dei « più forti » contro i deboli destinati a soccombere.
Proprio
in questo senso si può interpretare la risposta di Caino alla domanda del
Signore « Dov'è Abele, tuo fratello? »: « Non lo so. Sono
forse il guardiano di mio fratello? » (Gn
4, 9). Sì, ogni uomo è « guardiano di suo fratello », perché Dio affida
l'uomo all'uomo. Ed è anche in vista di tale affidamento che Dio dona a ogni
uomo la libertà, che possiede un'essenziale
dimensione relazionale. Essa è grande dono del Creatore, posta com'è al
servizio della persona e della sua realizzazione mediante il dono di sé e
l'accoglienza dell'altro; quando invece viene assolutizzata in chiave
individualistica, la libertà è svuotata del suo contenuto originario ed è
contraddetta nella sua stessa vocazione e dignità.
C'è
un aspetto ancora più profondo da sottolineare: la libertà rinnega sé stessa,
si autodistrugge e si dispone all'eliminazione dell'altro quando non riconosce e
non rispetta più il suo costitutivo
legame con la verità. Ogni volta che la libertà, volendo emanciparsi da
qualsiasi tradizione e autorità, si chiude persino alle evidenze primarie di
una verità oggettiva e comune, fondamento della vita personale e sociale, la
persona finisce con l'assumere come unico e indiscutibile riferimento per le
proprie scelte non più la verità sul bene e sul male, ma solo la sua
soggettiva e mutevole opinione o, addirittura, il suo egoistico interesse e il
suo capriccio.
20.
In questa concezione della libertà, la
convivenza sociale viene profondamente deformata. Se la promozione del
proprio io è intesa in termini di autonomia assoluta, inevitabilmente si giunge
alla negazione dell'altro, sentito come un nemico da cui difendersi. In questo
modo la società diventa un insieme di individui posti l'uno accanto all'altro,
ma senza legami reciproci: ciascuno vuole affermarsi indipendentemente
dall'altro, anzi vuol far prevalere i suoi interessi. Tuttavia, di fronte ad
analoghi interessi dell'altro, ci si deve arrendere a cercare qualche forma di
compromesso, se si vuole che nella società sia garantito a ciascuno il massimo
di libertà possibile. Viene meno così ogni riferimento a valori comuni e a una
verità assoluta per tutti: la vita sociale si avventura nelle sabbie mobili di
un relativismo totale. Allora tutto è convenzionabile, tutto è negoziabile: anche il primo dei
diritti fondamentali, quello alla vita.
È
quanto di fatto accade anche in ambito più propriamente politico e statale:
l'originario e inalienabile diritto alla vita è messo in discussione o negato
sulla base di un voto parlamentare o della volontà di una parte — sia pure
maggioritaria — della popolazione. È l'esito nefasto di un relativismo che
regna incontrastato: il « diritto » cessa di essere tale, perché non è più
solidamente fondato sull'inviolabile dignità della persona, ma viene
assoggettato alla volontà del più forte. In questo modo la democrazia, ad onta
delle sue regole, cammina sulla strada di un sostanziale totalitarismo. Lo Stato
non è più la « casa comune » dove tutti possono vivere secondo principi di
uguaglianza sostanziale, ma si trasforma in Stato
tiranno, che presume di poter disporre della vita dei più deboli e
indifesi, dal bambino non ancora nato al vecchio, in nome di una utilità
pubblica che non è altro, in realtà, che l'interesse di alcuni.
Tutto
sembra avvenire nel più saldo rispetto della legalità, almeno quando le leggi
che permettono l'aborto o l'eutanasia vengono votate secondo le cosiddette
regole democratiche. In verità, siamo di fronte solo a una tragica parvenza di
legalità e l'ideale democratico, che è davvero tale quando riconosce e tutela
la dignità di ogni persona umana, è
tradito nelle sue stesse basi: « Come è possibile parlare ancora di dignità
di ogni persona umana, quando si permette che si uccida la più debole e la più
innocente? In nome di quale giustizia si opera fra le persone la più ingiusta
delle discriminazioni, dichiarandone alcune degne di essere difese, mentre ad
altre questa dignità è negata? ».16 Quando si verificano queste condizioni si
sono già innescati quei dinamismi che portano alla dissoluzione di un'autentica
convivenza umana e alla disgregazione della stessa realtà statuale.
Rivendicare
il diritto all'aborto, all'infanticidio, all'eutanasia e riconoscerlo
legalmente, equivale ad attribuire alla libertà umana un significato
perverso e iniquo: quello di un potere
assoluto sugli altri e contro gli altri. Ma questa è la morte della vera
libertà: « In verità, in verità vi dico: chiunque commette il peccato è
schiavo del peccato » (Gv 8, 34).
«
Mi dovrò nascondere lontano da te » (Gn
4,
14): l'eclissi del senso di Dio e
dell'uomo
21.
Nel ricercare le radici più profonde della lotta tra la « cultura della vita
» e la « cultura della morte », non ci si può fermare all'idea perversa di
libertà sopra ricordata. Occorre giungere al cuore del dramma vissuto dall'uomo
contemporaneo:l'eclissi del senso di Dio e dell'uomo, tipica del contesto sociale
e culturale dominato dal secolarismo, che coi suoi tentacoli pervasivi non manca
talvolta di mettere alla prova le stesse comunità cristiane. Chi si lascia
contagiare da questa atmosfera, entra facilmente nel vortice di un terribile
circolo vizioso: smarrendo il senso di Dio, si tende a smarrire
anche il senso dell'uomo, della sua dignità e della sua vita; a sua volta,
la sistematica violazione della legge morale, specie nella grave materia del
rispetto della vita umana e della sua dignità, produce una sorta di progressivo
oscuramento della capacità di percepire la presenza vivificante e salvante di
Dio.
Ancora
una volta possiamo ispirarci al racconto dell'uccisione di Abele da parte del
fratello. Dopo la maledizione inflittagli da Dio, Caino così si rivolge al
Signore: « Troppo grande è la mia colpa per sopportarla! Ecco, tu mi scacci
oggi da questo suolo e io mi dovrò
nascondere lontano da te; io sarò ramingo e fuggiasco sulla terra e
chiunque mi incontrerà mi potrà uccidere » (Gn
4, 13-14).
Caino
ritiene che il suo peccato non potrà ottenere perdono dal Signore e che il suo
destino inevitabile sarà di doversi « nascondere lontano » da lui. Se Caino
riesce a confessare che la sua colpa è « troppo grande », è perché egli sa
di trovarsi di fronte a Dio e al suo giusto giudizio. In realtà, solo davanti
al Signore l'uomo può riconoscere il suo peccato e percepirne tutta la gravità.
È questa l'esperienza di Davide, che dopo « aver fatto male agli occhi del
Signore », rimproverato dal profeta Natan (cf. 2
Sam 11-12), esclama: « Riconosco la mia colpa, il mio peccato mi sta sempre
dinanzi. Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi
occhi, io l'ho fatto » (Sal 511,
5-6).
22.
Per questo, quando viene meno il senso di Dio, anche il senso dell'uomo viene
minacciato e inquinato, come lapidariamente afferma il Concilio Vaticano II: «
La creatura senza il Creatore svanisce... Anzi, l'oblio di Dio priva di luce la
creatura stessa ».17 L'uomo non riesce più a percepirsi come «
misteriosamente altro » rispetto alle diverse creature terrene; egli si
considera come uno dei tanti esseri viventi, come un organismo che, tutt'al più,
ha raggiunto uno stadio molto elevato di perfezione. Chiuso nel ristretto
orizzonte della sua fisicità, si riduce in qualche modo a « una cosa » e non
coglie più il carattere « trascendente » del suo « esistere come uomo ».
Non considera più la vita come uno splendido dono di Dio, una realtà « sacra
» affidata alla sua responsabilità e quindi alla sua amorevole custodia, alla
sua « venerazione ». Essa diventa semplicemente « una cosa », che egli
rivendica come sua esclusiva proprietà, totalmente dominabile e manipolabile.
Così,
di fronte alla vita che nasce e alla vita che muore, non è più capace di
lasciarsi interrogare sul senso più autentico della sua esistenza, assumendo
con vera libertà questi momenti cruciali del proprio « essere ». Egli si
preoccupa solo del « fare » e, ricorrendo ad ogni forma di tecnologia, si
affanna a programmare, controllare e dominare la nascita e la morte. Queste, da
esperienze originarie che chiedono di essere « vissute », diventano cose che
si pretende semplicemente di « possedere » o di « rifiutare ».
Del
resto, una volta escluso il riferimento a Dio, non sorprende che il senso di
tutte le cose ne esca profondamente deformato, e la stessa natura, non più «
mater », sia ridotta a « materiale » aperto a tutte le manipolazioni. A ciò
sembra condurre una certa razionalità tecnico-scientifica, dominante nella
cultura contemporanea, che nega l'idea stessa di una verità del creato da
riconoscere o di un disegno di Dio sulla vita da rispettare. E ciò non è meno
vero, quando l'angoscia per gli esiti di tale « libertà senza legge » induce
alcuni all'opposta istanza di una « legge senza libertà », come avviene, ad
esempio, in ideologie che contestano la legittimità di qualunque intervento
sulla natura, quasi in nome di una sua « divinizzazione », che ancora una
volta ne misconosce la dipendenza dal disegno del Creatore. In realtà, vivendo
« come se Dio non esistesse », l'uomo smarrisce non solo il mistero di Dio, ma
anche quello del mondo e il mistero del suo stesso essere.
23.
L'eclissi del senso di Dio e dell'uomo conduce inevitabilmente al materialismo
pratico, nel quale proliferano l'individualismo, l'utilitarismo e
l'edonismo. Si manifesta anche qui la perenne validità di quanto scrive
l'Apostolo: « Poiché hanno disprezzato la conoscenza di Dio, Dio li ha
abbandonati in balìa d'una intelligenza depravata, sicché commettono ciò che
è indegno » (Rm 1, 28). Così i
valori dell'essere sono sostituiti da
quelli dell'avere.
L'unico
fine che conta è il perseguimento del proprio benessere materiale. La
cosiddetta « qualità della vita » è interpretata in modo prevalente o
esclusivo come efficienza economica, consumismo disordinato, bellezza e
godibilità della vita fisica, dimenticando le dimensioni più profonde —
relazionali, spirituali e religiose — dell'esistenza.
In
un simile contesto la sofferenza, inevitabile
peso dell'esistenza umana ma anche fattore di possibile crescita personale,
viene « censurata », respinta come inutile, anzi combattuta come male da
evitare sempre e comunque. Quando non la si può superare e la prospettiva di un
benessere almeno futuro svanisce, allora pare che la vita abbia perso ogni
significato e cresce nell'uomo la tentazione di rivendicare il diritto alla sua
soppressione.
Sempre
nel medesimo orizzonte culturale, il corpo
non viene più percepito come realtà tipicamente personale, segno e luogo
della relazione con gli altri, con Dio e con il mondo. Esso è ridotto a pura
materialità: è semplice complesso di organi, funzioni ed energie da usare
secondo criteri di mera godibilità ed efficienza. Conseguentemente, anche la sessualità
è depersonalizzata e strumentalizzata: da segno, luogo e linguaggio
dell'amore, ossia del dono di sé e dell'accoglienza dell'altro secondo l'intera
ricchezza della persona, diventa sempre più occasione e strumento di
affermazione del proprio io e di soddisfazione egoistica dei propri desideri e
istinti. Così si deforma e falsifica il contenuto originario della sessualità
umana e i due significati, unitivo e procreativo, insiti nella natura stessa
dell'atto coniugale, vengono artificialmente separati: in questo modo l'unione
è tradita e la fecondità è sottomessa all'arbitrio dell'uomo e della donna.
La procreazione allora diventa il «
nemico » da evitare nell'esercizio della sessualità: se viene accettata, è
solo perché esprime il proprio desiderio, o addirittura la propria volontà, di
avere il figlio « ad ogni costo » e non, invece, perché dice totale
accoglienza dell'altro e, quindi, apertura alla ricchezza di vita di cui il
figlio è portatore.
Nella
prospettiva materialistica fin qui descritta, le
relazioni interpersonali conoscono un grave impoverimento. I primi a subirne
i danni sono la donna, il bambino, il malato o sofferente, l'anziano. Il
criterio proprio della dignità personale — quello cioè del rispetto, della
gratuità e del servizio — viene sostituito dal criterio dell'efficienza,
della funzionalità e dell'utilità: l'altro è apprezzato non per quello che «
è », ma per quello che « ha, fa e rende ». È la supremazia del più forte
sul più debole.
24.
È nell'intimo della coscienza morale che
l'eclissi del senso di Dio e dell'uomo, con tutte le sue molteplici e funeste
conseguenze sulla vita, si consuma. È in questione, anzitutto, la coscienza di ciascuna
persona, che nella sua unicità e irripetibilità si trova sola di fronte a
Dio.18 Ma è pure in questione, in un certo senso, la « coscienza morale » della
società: essa è in qualche modo responsabile non solo perché tollera o
favorisce comportamenti contrari alla vita, ma anche perché alimenta la «
cultura della morte », giungendo a creare e a consolidare vere e proprie «
strutture di peccato » contro la vita. La coscienza morale, sia individuale che
sociale, è oggi sottoposta, anche per l'influsso invadente di molti strumenti
della comunicazione sociale, a un pericolo
gravissimo e mortale: quello della confusione
tra il bene e il male in riferimento allo stesso fondamentale diritto alla
vita. Tanta parte dell'attuale società si rivela tristemente simile a
quell'umanità che Paolo descrive nella Lettera ai Romani. È fatta « di uomini
che soffocano la verità nell'ingiustizia » (1, 18): avendo rinnegato Dio e
credendo di poter costruire la città terrena senza di lui, « hanno vaneggiato
nei loro ragionamenti » sicché « si è ottenebrata la loro mente ottusa »
(1, 21); « mentre si dichiaravano sapienti sono diventati stolti » (1, 22),
sono diventati autori di opere degne di morte e « non solo continuano a farle,
ma anche approvano chi le fa » (1, 32). Quando la coscienza, questo luminoso
occhio dell'anima (cf. Mt 6, 22-23),
chiama « bene il male e male il bene » (Is
5, 20), è ormai sulla strada della sua degenerazione più inquietante e
della più tenebrosa cecità morale.
Eppure
tutti i condizionamenti e gli sforzi per imporre il silenzio non riescono a
soffocare la voce del Signore che risuona nella coscienza di ogni uomo: è
sempre da questo intimo sacrario della coscienza che può ripartire un nuovo
cammino di amore, di accoglienza e di servizio alla vita umana.
«
Vi siete accostati al sangue dell'aspersione »
(cf.
Eb 12, 22.24): segni
di speranza e invito all'impegno
25.
« La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo! » (Gn
4, 10). Non è solo la voce del sangue di Abele, il primo innocente ucciso,
a gridare verso Dio, sorgente e difensore della vita. Anche il sangue di ogni
altro uomo ucciso dopo Abele è voce che si leva al Signore. In una forma
assolutamente unica, grida a Dio la voce
del sangue di Cristo, di cui Abele nella sua innocenza è figura profetica,
come ci ricorda l'autore della Lettera agli Ebrei: « Voi vi siete invece
accostati al monte Sion e alla città del Dio vivente... al Mediatore della
Nuova Alleanza e al sangue dell'aspersione dalla voce più eloquente di quello
di Abele » (12, 22.24).
È
il sangue dell'aspersione. Ne era
stato simbolo e segno anticipatore il sangue dei sacrifici dell'Antica Alleanza,
con i quali Dio esprimeva la volontà di comunicare la sua vita agli uomini,
purificandoli e consacrandoli (cf. Es 24,
8; Lv 17, 11). Ora, tutto questo in Cristo si compie e si avvera: il
suo è il sangue dell'aspersione che redime, purifica e salva; è il sangue del
Mediatore della Nuova Alleanza « versato per molti, in remissione dei peccati
» (Mt 26, 28). Questo sangue, che
fluisce dal fianco trafitto di Cristo sulla croce (cf. Gv 19, 34), ha la « voce più eloquente » del sangue di Abele;
esso infatti esprime ed esige una più profonda « giustizia », ma soprattutto
implora misericordia,19 si fa presso il Padre intercessione per i fratelli (cf. Eb
7, 25), è fonte di redenzione perfetta e dono di vita nuova.
Il
sangue di Cristo, mentre rivela la grandezza dell'amore del Padre, manifesta
come l'uomo sia prezioso agli occhi di Dio e come sia inestimabile il valore
della sua vita. Ce lo ricorda l'apostolo Pietro: « Voi sapete che non a
prezzo di cose corruttibili, come l'argento e l'oro, foste liberati dalla vostra
vuota condotta ereditata dai vostri padri, ma con il sangue prezioso di Cristo,
come di agnello senza difetti e senza macchia » (1 Pt 1, 18-19). Proprio contemplando il sangue prezioso di Cristo,
segno della sua donazione d'amore (cf. Gv 13,
1), il credente impara a riconoscere e ad apprezzare la dignità quasi divina di
ogni uomo e può esclamare con sempre rinnovato e grato stupore: « Quale valore
deve avere l'uomo davanti agli occhi del Creatore se "ha meritato di avere
un tanto nobile e grande Redentore" (Exultet
della Veglia pasquale), se "Dio ha dato il suo Figlio", affinché
egli, l'uomo, "non muoia, ma abbia la vita eterna" (cf. Gv
3, 16)! ».20
Il
sangue di Cristo, inoltre, rivela all'uomo che la sua grandezza, e quindi la sua
vocazione, consiste nel dono sincero di sé.
Proprio perché viene versato come dono di vita, il sangue di Gesù non è
più segno di morte, di separazione definitiva dai fratelli, ma strumento di una
comunione che è ricchezza di vita per tutti. Chi nel sacramento dell'Eucaristia
beve questo sangue e dimora in Gesù (cf. Gv
6, 56) è coinvolto nel suo stesso dinamismo di amore e di donazione di
vita, per portare a pienezza l'originaria vocazione all'amore che è propria di
ogni uomo (cf. Gn 1, 27; 2, 18-24).
È
ancora nel sangue di Cristo che tutti gli uomini attingono
la forza per impegnarsi a favore della vita. Proprio questo sangue è il
motivo più forte di speranza, anzi è il
fondamento dell'assoluta certezza che secondo il disegno di Dio la vittoria sarà
della vita. « Non ci sarà più la morte », esclama la voce potente che
esce dal trono di Dio nella Gerusalemme celeste (Ap
21, 4). E san Paolo ci assicura che la vittoria attuale sul peccato è segno e
anticipazione della vittoria definitiva sulla morte, quando « si compirà la
parola della Scrittura: "La morte è stata ingoiata per la vittoria. Dov'è,
o morte, la tua vittoria? Dov'è, o morte, il tuo pungiglione?" » (1
Cor 15, 54-55).
26.
In realtà, segni anticipatori di questa vittoria non mancano nelle nostre
società e culture, pur così fortemente segnate dalla « cultura della morte ».
Si darebbe dunque un'immagine unilaterale, che potrebbe indurre a uno sterile
scoraggiamento, se alla denuncia delle minacce alla vita non si accompagnasse la
presentazione dei segni positivi operanti
nell'attuale situazione dell'umanità.
Purtroppo
tali segni positivi faticano spesso a manifestarsi e ad essere riconosciuti,
forse anche perché non trovano adeguata attenzione nei mezzi della
comunicazione sociale. Ma quante iniziative di aiuto e di sostegno alle persone
più deboli e indifese sono sorte e continuano a sorgere, nella comunità
cristiana e nella società civile, a livello locale, nazionale e internazionale,
ad opera di singoli, gruppi, movimenti ed organizzazioni di vario genere!
Sono
ancora molti gli sposi che, con generosa responsabilità, sanno accogliere i figli
come « il preziosissimo dono del matrimonio ».21 Né mancano famiglie
che, al di là del loro quotidiano servizio alla vita, sanno aprirsi
all'accoglienza di bambini abbandonati, di ragazzi e giovani in difficoltà, di
persone portatrici di handicap, di anziani rimasti soli. Non pochi centri di aiuto alla vita, o istituzioni analoghe, sono promossi da
persone e gruppi che, con ammirevole dedizione e sacrificio, offrono un sostegno
morale e materiale a mamme in difficoltà, tentate di ricorrere all'aborto.
Sorgono pure e si diffondono gruppi di
volontari impegnati a dare ospitalità a chi è senza famiglia, si trova in
condizioni di particolare disagio o ha bisogno di ritrovare un ambiente
educativo che lo aiuti a superare abitudini distruttive e a ricuperare il senso
della vita.
La
medicina, promossa con grande impegno
da ricercatori e professionisti, prosegue nel suo sforzo per trovare rimedi
sempre più efficaci: risultati un tempo del tutto impensabili e tali da aprire
promettenti prospettive sono oggi ottenuti a favore della vita nascente, delle
persone sofferenti e dei malati in fase acuta o terminale. Enti e organizzazioni
varie si mobilitano per portare, anche nei Paesi più colpiti dalla miseria e da
malattie endemiche, i benefici della medicina più avanzata. Così pure
associazioni nazionali e internazionali di medici si attivano tempestivamente
per recare soccorso alle popolazioni provate da calamità naturali, da epidemie
o da guerre. Anche se una vera giustizia internazionale nella ripartizione delle
risorse mediche è ancora lontana dalla sua piena realizzazione, come non
riconoscere nei passi sinora compiuti il segno di una crescente solidarietà tra
i popoli, di un'apprezzabile sensibilità umana e morale e di un maggiore
rispetto per la vita?
27.
Di fronte a legislazioni che hanno permesso l'aborto e a tentativi, qua e là
riusciti, di legalizzare l'eutanasia, sono sorti in tutto il mondo movimenti
e iniziative di sensibilizzazione sociale in favore della vita. Quando, in
conformità alla loro ispirazione autentica, agiscono con determinata fermezza
ma senza ricorrere alla violenza, tali movimenti favoriscono una più diffusa
presa di coscienza del valore della vita e sollecitano e realizzano un più
deciso impegno per la sua difesa.
Come
non ricordare, inoltre, tutti quei gesti
quotidiani di accoglienza, di sacrificio, di cura disinteressata che un
numero incalcolabile di persone compie con amore nelle famiglie, negli ospedali,
negli orfanotrofi, nelle case di riposo per anziani e in altri centri o comunità
a difesa della vita? Lasciandosi guidare dall'esempio di Gesù « buon
samaritano » (cf. Lc 10, 29-37) e
sostenuta dalla sua forza, la Chiesa è sempre stata in prima linea su queste
frontiere della carità: tanti suoi figli e figlie, specialmente religiose e
religiosi, in forme antiche e sempre nuove, hanno consacrato e continuano a
consacrare la loro vita a Dio donandola per amore del prossimo più debole e
bisognoso.
Questi
gesti costruiscono nel profondo quella « civiltà dell'amore e della vita »,
senza la quale l'esistenza delle persone e della società smarrisce il suo
significato più autenticamente umano. Anche se nessuno li notasse e rimanessero
nascosti ai più, la fede assicura che il Padre, « che vede nel segreto » (Mt
6, 4), non solo saprà ricompensarli, ma già fin d'ora li rende fecondi di
frutti duraturi per tutti.
Tra
i segni di speranza va pure annoverata la crescita, in molti strati
dell'opinione pubblica, di una nuova sensibilità sempre più contraria alla guerra come
strumento di soluzione dei conflitti tra i popoli e sempre più orientata alla
ricerca di strumenti efficaci ma « non violenti » per bloccare l'aggressore
armato. Nel medesimo orizzonte si pone altresì la sempre più diffusa avversione dell'opinione pubblica alla pena di morte
anche solo come strumento di « legittima difesa » sociale, in considerazione
delle possibilità di cui dispone una moderna società di reprimere
efficacemente il crimine in modi che, mentre rendono inoffensivo colui che l'ha
commesso, non gli tolgono definitivamente la possibilità di redimersi.
È
da salutare con favore anche l'accresciuta attenzione allaqualità
della vita e all'ecologia, che si
registra soprattutto nelle società a sviluppo avanzato, nelle quali le attese
delle persone non sono più concentrate tanto sui problemi della sopravvivenza
quanto piuttosto sulla ricerca di un miglioramento globale delle condizioni di
vita. Particolarmente significativo è il risveglio di una riflessione etica
attorno alla vita: con la nascita e lo sviluppo sempre più diffuso della bioetica vengono favoriti la riflessione e il dialogo — tra
credenti e non credenti, come pure tra credenti di diverse religioni — su
problemi etici, anche fondamentali, che interessano la vita dell'uomo.
28.
Questo orizzonte di luci ed ombre deve renderci tutti pienamente consapevoli che
ci troviamo di fronte ad uno scontro immane e drammatico tra il male e il bene,
la morte e la vita, la « cultura della morte » e la « cultura della vita ».
Ci troviamo non solo « di fronte », ma necessariamente « in mezzo » a tale
conflitto: tutti siamo coinvolti e partecipi, con l'ineludibile responsabilità
di scegliere incondizionatamente a favore della vita.
Anche
per noi risuona chiaro e forte l'invito di Mosè: « Vedi, io pongo oggi davanti
a te la vita e il bene, la morte e il male...; io ti ho posto davanti la vita e
la morte, la benedizione e la maledizione; scegli
dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza » (Dt
30, 15.19). È un invito che ben si addice anche a noi, chiamati ogni giorno
a dover decidere tra la « cultura della vita » e la « cultura della morte ».
Ma l'appello del Deuteronomio è ancora più profondo, perché ci sollecita ad
una scelta propriamente religiosa e morale. Si tratta di dare alla propria
esistenza un orientamento fondamentale e di vivere in fedeltà e coerenza con la
legge del Signore: « Io oggi ti comando di amare
il Signore tuo Dio, di camminare per
le sue vie, di osservare i suoi
comandi, le sue leggi e le sue norme...; scegli dunque la vita, perché viva
tu e la tua discendenza, amando il Signore tuo Dio, obbedendo alla sua voce e
tenendoti unito a lui, poiché è lui la
tua vita e la tua longevità » (30, 16.19-20).
La
scelta incondizionata a favore della vita raggiunge in pienezza il suo
significato religioso e morale quando scaturisce, viene plasmata ed è
alimentata dalla fede in Cristo. Nulla
aiuta ad affrontare positivamente il conflitto tra la morte e la vita, nel quale
siamo immersi, come la fede nel Figlio di Dio che si è fatto uomo ed è venuto
tra gli uomini « perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza » (Gv
10, 10): è la fede nel Risorto, che
ha vinto la morte; è la fede nel sangue di Cristo « dalla voce più
eloquente di quello di Abele » (Eb 12,
24).
Con
la luce e la forza di tale fede, quindi, di fronte alle sfide dell'attuale
situazione, la Chiesa prende più viva coscienza della grazia e della
responsabilità che le vengono dal suo Signore per annunciare, celebrare e
servire il Vangelo della vita.
CAPITOLO II
SONO VENUTO PERCHÈ ABBIANO LA VITA
«
La vita si è fatta visibile, noi l'abbiamo veduta »
(1
Gv 1, 2): lo sguardo rivolto a Cristo, « il Verbo della vita »
29.
Di fronte alle innumerevoli e gravi minacce alla vita presenti nel mondo
contemporaneo, si potrebbe rimanere come sopraffatti dal senso di un'impotenza
insuperabile: il bene non potrà mai avere la forza di vincere il male!
È
questo il momento nel quale il Popolo di Dio, e in esso ciascun credente, è
chiamato a professare, con umiltà e coraggio, la propria fede in Gesù Cristo
« il Verbo della vita » (1 Gv 1, 1).
Il Vangelo della vita non è una semplice riflessione, anche se
originale e profonda, sulla vita umana; neppure è soltanto un comandamento
destinato a sensibilizzare la coscienza e a provocare significativi cambiamenti
nella società; tanto meno è un'illusoria promessa di un futuro migliore. Il Vangelo
della vita è una realtà concreta e personale, perché consiste
nell'annuncio della persona stessa di Gesù. All'apostolo Tommaso, e in lui a ogni uomo,
Gesù si presenta con queste parole: « Io sono la via, la verità e la vita »
(Gv 14, 6). È la stessa identità
indicata a Marta, la sorella di Lazzaro: « Io sono la risurrezione e la vita;
chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà
in eterno » (Gv 11, 25-26). Gesù è
il Figlio che dall'eternità riceve la vita dal Padre (cf. Gv 5, 26) ed è venuto tra gli uomini per farli partecipi di questo
dono: « Io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza » (Gv
10, 10).
È
allora dalla parola, dall'azione, dalla persona stessa di Gesù che all'uomo è
data la possibilità di « conoscere » la
verità intera circa il valore della vita umana; è da quella « fonte »
che gli viene, in particolare, la capacità di « fare » perfettamente tale
verità (cf. Gv 3, 21), ossia di
assumere e realizzare in pienezza la responsabilità di amare e servire, di
difendere e promuovere la vita umana.
In
Cristo, infatti, è annunciato definitivamente ed è pienamente donato quel Vangelo
della vita che, offerto già nella Rivelazione dell'Antico Testamento, ed
anzi scritto in qualche modo nel cuore stesso di ogni uomo e donna, risuona in
ogni coscienza « dal principio », ossia dalla creazione stessa, così che,
nonostante i condizionamenti negativi del peccato, può essere conosciuto nei suoi tratti essenziali anche dalla ragione
umana. Come scrive il Concilio Vaticano II, Cristo « con tutta la sua
presenza e con la manifestazione di sé, con le parole e con le opere, con i
segni e con i miracoli, e specialmente con la sua morte e la gloriosa
risurrezione di tra i morti, e infine con l'invio dello Spirito di verità,
compie e completa la rivelazione e la corrobora con la testimonianza divina, che
cioè Dio è con noi per liberarci dalle tenebre del peccato e della morte e
risuscitarci per la vita eterna ».22
30.
È dunque con lo sguardo fisso al Signore Gesù che intendiamo riascoltare da
lui « le parole di Dio » (Gv 3, 34)
e rimeditare il Vangelo della vita. Il
senso più profondo e originale di questa meditazione sul messaggio rivelato
circa la vita umana è stato colto dall'apostolo Giovanni, quando scrive,
all'inizio della sua Prima Lettera: « Ciò che era fin da principio, ciò che
noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi
abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo
della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l'abbiamo veduta e di ciò
rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e
si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo
anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi » (1, 1-3).
In
Gesù, « Verbo della vita », viene quindi annunciata e comunicata la vita
divina ed eterna. Grazie a tale annuncio e a tale dono, la vita fisica e
spirituale dell'uomo, anche nella sua fase terrena, acquista pienezza di valore
e di significato: la vita divina ed eterna, infatti, è il fine a cui l'uomo che
vive in questo mondo è orientato e chiamato. Il Vangelo
della vita racchiude così quanto la stessa esperienza e ragione umana
dicono circa il valore della vita, lo accoglie, lo eleva e lo porta a
compimento.
«
Mia forza e mio canto è il Signore, egli mi ha salvato »
(Es
15, 2): la vita è sempre un bene
31.
In verità, la pienezza evangelica dell'annuncio sulla vita è preparata già
nell'Antico Testamento. È soprattutto nella vicenda dell'Esodo, fulcro
dell'esperienza di fede dell'Antico Testamento, che Israele scopre quanto la sua
vita sia preziosa agli occhi di Dio. Quando sembra ormai votato allo sterminio,
perché su tutti i suoi neonati maschi incombe la minaccia di morte (cf. Es
1, 15-22), il Signore gli si rivela come salvatore, capace di assicurare un
futuro a chi è senza speranza. Nasce così in Israele una precisa
consapevolezza: la sua vita non si
trova alla mercé di un faraone che può usarne con dispotico arbitrio; al
contrario, essa è l'oggetto di un tenero
e forte amore da parte di Dio.
La
liberazione dalla schiavitù è il dono di una identità, il riconoscimento di
una dignità indelebile e l'inizio di una
storia nuova, in cui la scoperta di Dio e la scoperta di sé vanno di pari
passo. È una esperienza, quella dell'Esodo, fondante ed esemplare. Israele vi
apprende che, ogni volta in cui è minacciato nella sua esistenza, non ha che da
ricorrere a Dio con rinnovata fiducia per trovare in lui efficace assistenza: «
Io ti ho formato, mio servo sei tu; Israele, non sarai dimenticato da me » (Is 44, 21).
Così,
mentre riconosce il valore della propria esistenza come popolo, Israele
progredisce anche nella percezione del
senso e del valore della vita in quanto tale. È una riflessione che si
sviluppa in modo particolare nei libri sapienziali, muovendo dalla quotidiana
esperienza della precarietà della
vita e dalla consapevolezza delle minacce che la insidiano. Di fronte alle
contraddizioni dell'esistenza, la fede è provocata ad offrire una risposta.
È
soprattutto il problema del dolore ad incalzare la fede e a metterla alla prova.
Come non cogliere il gemito universale dell'uomo nella meditazione del libro di
Giobbe? L'innocente schiacciato dalla sofferenza è, comprensibilmente, portato
a chiedersi: « Perché dare la luce ad un infelice e la vita a chi ha
l'amarezza nel cuore, a quelli che aspettano la morte e non viene, che la
cercano più di un tesoro? » (3, 20-21). Ma anche nella più fitta oscurità la
fede orienta al riconoscimento fiducioso e adorante del « mistero »: «
Comprendo che puoi tutto e che nessuna cosa è impossibile per te » (Gb
42, 2).
Progressivamente
la Rivelazione fa cogliere con sempre maggiore chiarezza il germe di vita
immortale posto dal Creatore nel cuore degli uomini: « Egli ha fatto bella ogni
cosa a suo tempo, ma egli ha messo la nozione dell'eternità nel loro cuore » (Qo 3, 11). Questo germe di
totalità e di pienezza attende di manifestarsi nell'amore e di compiersi,
per dono gratuito di Dio, nella partecipazione alla sua vita eterna.
«
Il nome di Gesù ha dato vigore a questo uomo »
(At
3, 16): nella precarietà dell'esistenza umana Gesù porta a compimento il
senso della vita
32.
L'esperienza del popolo dell'Alleanza si rinnova in quella di tutti i « poveri
» che incontrano Gesù di Nazaret. Come già il Dio « amante della vita » (Sap
11, 26) aveva rassicurato Israele in mezzo ai pericoli, così ora il Figlio
di Dio, a quanti si sentono minacciati e impediti nella loro esistenza, annuncia
che anche la loro vita è un bene, al quale l'amore del Padre dà senso e
valore.
«
I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono sanati,
i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunziata la buona novella »
(Lc 7, 22). Con queste parole del
profeta Isaia (35, 5-6; 61, 1), Gesù presenta il significato della propria
missione: così quanti soffrono per un'esistenza in qualche modo « diminuita »,
ascoltano da lui la buona novella dell'interesse di Dio nei loro confronti ed hanno la
conferma che anche la loro vita è un dono gelosamente custodito nelle mani del
Padre (cf. Mt 6, 25-34).
Sono
i « poveri » ad essere interpellati particolarmente dalla predicazione e
dall'azione di Gesù. Le folle di malati e di emarginati, che lo seguono e lo
cercano (cf. Mt 4, 23-25), trovano nella sua parola e nei suoi gesti la
rivelazione di quale grande valore abbia la loro vita e di come siano fondate le
loro attese di salvezza.
Non
diversamente accade nella missione della Chiesa, fin dalle sue origini. Essa,
che annuncia Gesù come colui che « passò beneficando e risanando tutti coloro
che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui » (At
10, 38), sa di essere portatrice di un messaggio di salvezza che risuona in
tutta la sua novità proprio nelle situazioni di miseria e di povertà della
vita dell'uomo. Così fa Pietro con la guarigione dello storpio, posto ogni
giorno presso la porta « Bella » del tempio di Gerusalemme a chiedere
l'elemosina: « Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel
nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina! » (At
3, 6). Nella fede in Gesù, « autore della vita » (At
3, 15), la vita che giace abbandonata e implorante ritrova consapevolezza di
sé e dignità piena.
La
parola e i gesti di Gesù e della sua Chiesa non riguardano solo chi è nella
malattia, nella sofferenza o nelle varie forme di emarginazione sociale. Più
profondamente toccano il senso stesso della vita di ogni uomo nelle sue dimensioni morali e
spirituali. Solo chi riconosce che la propria vita è segnata dalla malattia
del peccato, nell'incontro con Gesù Salvatore può ritrovare la verità e
l'autenticità della propria esistenza, secondo le sue stesse parole: « Non
sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a
chiamare i giusti, ma i peccatori a convertirsi » (Lc
5, 31-32).
Chi,
invece, come il ricco agricoltore della parabola evangelica, pensa di poter
assicurare la propria vita mediante il possesso dei soli beni materiali, in
realtà si illude: essa gli sta sfuggendo, ed egli ne resterà ben presto privo,
senza essere arrivato a percepirne il vero significato: « Stolto, questa notte
stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà?
» (Lc 12, 20).
33.
È nella vita stessa di Gesù, dall'inizio alla fine, che si ritrova questa
singolare « dialettica » tra l'esperienza della precarietà della vita umana e
l'affermazione del suo valore. Infatti, la precarietà segna la vita di Gesù
fin dalla sua nascita. Egli trova certamente l'accoglienza
dei giusti, che si uniscono al « sì » pronto e gioioso di Maria (cf. Lc 1, 38). Ma c'è anche, da subito, il rifiuto di un mondo che si fa ostile e cerca il bambino « per
ucciderlo » (Mt 2, 13), oppure resta
indifferente e disattento al compiersi del mistero di questa vita che entra nel
mondo: « non c'era posto per loro nell'albergo » (Lc 2, 7). Proprio dal contrasto tra le minacce e le insicurezze da
una parte e la potenza del dono di Dio dall'altra, risplende con maggior forza
la gloria che si sprigiona dalla casa di Nazaret e dalla mangiatoia di Betlemme:
questa vita che nasce è salvezza per l'intera umanità (cf. Lc
2, 11).
Contraddizioni
e rischi della vita vengono assunti pienamente da Gesù: « da ricco che era, si
è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua
povertà » (2 Cor 8, 9). La povertà,
di cui parla Paolo, non è solo spogliamento dei privilegi divini, ma anche
condivisione delle condizioni più umili e precarie della vita umana (cf. Fil
2, 6-7). Gesù vive questa povertà lungo tutto il corso della sua vita,
fino al momento culminante della Croce: « umiliò se stesso facendosi
obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l'ha esaltato e
gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome » (Fil
2, 8-9). È proprio nella sua morte che
Gesù rivela tutta la grandezza e il valore della vita, in quanto il
suo donarsi in croce diventa fonte di vita nuova per tutti gli uomini (cf. Gv
12, 32). In questo peregrinare nelle contraddizioni e nella stessa perdita
della vita, Gesù è guidato dalla certezza che essa è nelle mani del Padre.
Per questo sulla Croce può dirgli: « Padre nelle tue mani consegno il mio
spirito » (Lc 23, 46), cioè la mia
vita. Davvero grande è il valore della vita umana se il Figlio di Dio l'ha
assunta e l'ha resa luogo nel quale la salvezza si attua per l'intera umanità!
«
Chiamati... ad essere conformi all'immagine del Figlio suo »
(Rm
8, 28-29): la gloria di Dio risplende
sul volto dell'uomo
34.
La vita è sempre un bene. È, questa, una intuizione o addirittura un dato di
esperienza, di cui l'uomo è chiamato a cogliere la ragione profonda.
Perché
la vita è un bene? L'interrogativo attraversa tutta la Bibbia e fin dalle
sue prime pagine trova una risposta efficace e mirabile. La vita che Dio dona
all'uomo è diversa e originale di fronte a quella di ogni altra creatura
vivente, in quanto egli, pur imparentato con la polvere della terra (cf. Gn
2, 7; 3, 19; Gb 34, 15; Sal
103/102, 14; 104/103, 29), è nel
mondo manifestazione di Dio, segno della sua presenza, orma della sua gloria (cf.
Gn 1, 26-27; Sal 8, 6). È
quanto ha voluto sottolineare anche sant'Ireneo di Lione con la sua celebre
definizione: « l'uomo che vive è la gloria di Dio ».23 All'uomo è donata un'altissima
dignità, che ha le sue radici nell'intimo legame che lo unisce al suo
Creatore: nell'uomo risplende un riflesso della stessa realtà di Dio. Lo afferma il libro della Genesi nel primo racconto delle origini, ponendo l'uomo al vertice dell'attività creatrice di Dio, come suo coronamento, al termine di un processo che dall'indistinto caos porta alla creatura più perfetta. Tutto nel creato è ordinato all'uomo e tutto è a lui sottomesso: « Riempite la terra; soggiogatela e dominate... su ogni essere vivente » (1, 28), comanda Dio all'uomo e alla donna. Un messaggio simile viene anche dall'altro racconto delle origini: « Il Signore Dio prese l'uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse » (Gn 2, 15). Si riafferma così il primato dell'uomo sulle cose: esse sono finalizzate a lui e affidate alla sua responsabilità, mentre per nessuna ragione egli può essere asservito ai suoi simili e quasi ridotto al rango di cosa.
Nella
narrazione biblica la distinzione dell'uomo dalle altre creature è evidenziata
soprattutto dal fatto che solo la sua creazione è presentata come frutto di una
speciale decisione da parte di Dio, di una deliberazione che consiste nello
stabilire un legame particolare e specifico con il Creatore: « Facciamo
l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza » (Gn 1, 26). La vita che Dio
offre all'uomo è un dono con cui Dio
partecipa qualcosa di sé alla sua creatura.
Israele
si interrogherà a lungo sul senso di questo legame particolare e specifico
dell'uomo con Dio. Anche il libro del Siracide riconosce che Dio nel creare gli
uomini « secondo la sua natura li rivestì di forza, e a sua immagine li formò
» (17, 3). A ciò l'autore sacro riconduce non solo il loro dominio sul mondo,
ma anche le facoltà spirituali più proprie dell'uomo, come la ragione, il
discernimento del bene e del male, la volontà libera: « Li riempì di dottrina
e d'intelligenza, e indicò loro anche il bene e il male » (Sir 17, 6). La capacità di
attingere la verità e la libertà sono prerogative dell'uomo in quanto
creato ad immagine del suo Creatore, il Dio vero e giusto (cf.
Dt 32, 4). Soltanto l'uomo, fra tutte le creature visibili, è « capa- ce
di conoscere e di amare il proprio Creatore ».24 La vita che Dio dona all'uomo
è ben più di un esistere nel tempo. È tensione verso una pienezza di vita; è
germe di una esistenza che va oltre i
limiti stessi del tempo: « Sì, Dio ha creato l'uomo per l'incorruttibilità;
lo fece a immagine della propria natura » (Sap
2, 23).
35.
Anche il racconto jahvista delle origini esprime la stessa convinzione. L'antica
narrazione, infatti, parla di un soffio
divino che viene inalato nell'uomo perché questi entri nella vita: « Il
Signore Dio plasmò l'uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un
alito di vita e l'uomo divenne un essere vivente » (Gn 2, 7).
L'origine
divina di questo spirito di vita spiega la perenne insoddisfazione che
accompagna l'uomo nei suoi giorni. Fatto da Dio, portando in sé una traccia
indelebile di Dio, l'uomo tende naturalmente a lui. Quando ascolta l'aspirazione
profonda del suo cuore, ogni uomo non può non fare propria la parola di verità
espressa da sant'Agostino: « Tu ci hai fatti per te, o Signore, e il nostro
cuore è inquieto sino a quando non riposa in Te ».25
Quanto
mai eloquente è l'insoddisfazione di cui è preda la vita dell'uomo nell'Eden
fin quando il suo unico riferimento rimane il mondo vegetale e animale (cf. Gn
2, 20). Solo l'apparizione della donna, di un essere cioè che è carne
dalla sua carne e osso dalle sue ossa (cf. Gn
2, 23), e in cui ugualmente vive lo spirito di Dio Creatore, può soddisfare
l'esigenza di dialogo inter-personale che è così vitale per l'esistenza umana.
Nell'altro, uomo o donna, si riflette Dio stesso, approdo definitivo e appagante
di ogni persona.
«
Che cosa è l'uomo perché te ne ricordi, il figlio dell'uomo perché te ne
curi? », si chiede il Salmista (Sal 8,
5). Di fronte all'immensità dell'universo, egli è ben piccola cosa; ma proprio
questo contrasto fa emergere la sua grandezza: « Lo hai fatto poco meno degli
angeli (ma si potrebbe tradurre anche: « poco meno di Dio »), di gloria e di
onore lo hai coronato » (Sal 8, 6). La gloria di Dio risplende sul volto dell'uomo. In lui il Creatore
trova il suo riposo, come commenta stupito e commosso sant'Ambrogio: « È
finito il sesto giorno e si è conclusa la creazione del mondo con la formazione
di quel capolavoro che è l'uomo, il quale esercita il dominio su tutti gli
esseri viventi ed è come il culmine dell'universo e la suprema bellezza di ogni
essere creato. Veramente dovremmo mantenere un reverente silenzio, poiché il
Signore si riposò da ogni opera del mondo. Si riposò poi nell'intimo
dell'uomo, si riposò nella sua mente e nel suo pensiero; infatti aveva creato
l'uomo dotato di ragione, capace d'imitarlo, emulo delle sue virtù, bramoso
delle grazie celesti. In queste sue doti riposa Iddio che ha detto: "O su
chi riposerò, se non su chi è umile, tranquillo e teme le mie parole?" (Is
66, 1-2). Ringrazio il Signore Dio nostro che ha creato un'opera così
meravigliosa nella quale trovare il suo riposo ».26
36.
Purtroppo lo stupendo progetto di Dio viene offuscato dalla irruzione del
peccato nella storia. Con il peccato l'uomo si ribella al Creatore, finendo con l'idolatrare
le creature: « Hanno venerato e adorato la creatura al posto del Creatore
» (Rm 1, 25). In questo modo l'essere
umano non solo deturpa in se stesso l'immagine di Dio, ma è tentato di
offenderla anche negli altri, sostituendo ai rapporti di comunione atteggiamenti
di diffidenza, di indifferenza, di inimicizia, fino all'odio omicida. Quando non
si riconosce Dio come Dio, si tradisce
il senso profondo dell'uomo e si pregiudica la comunione tra gli uomini.
Nella
vita dell'uomo, l'immagine di Dio torna a risplendere e si manifesta in tutta la
sua pienezza con la venuta nella carne umana del Figlio di Dio: « Egli è
immagine del Dio invisibile » (Col 1,
15), « irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza » (Eb
1, 3). Egli è l'immagine perfetta del Padre.
Il
progetto di vita consegnato al primo Adamo trova finalmente in Cristo il suo
compimento. Mentre la disobbedienza di Adamo rovina e deturpa il disegno di Dio
sulla vita dell'uomo e introduce la morte nel mondo, l'obbedienza redentrice di
Cristo è fonte di grazia che si riversa sugli uomini spalancando a tutti le
porte del regno della vita (cf. Rm 5,
12-21). Afferma l'apostolo Paolo: « Il primo uomo, Adamo, divenne un essere
vivente, ma l'ultimo Adamo divenne spirito datore di vita » (1
Cor 15, 45).
A
quanti accettano di porsi alla sequela di Cristo viene donata la pienezza della
vita: in loro l'immagine divina viene restaurata, rinnovata e condotta alla
perfezione. Questo è il disegno di Dio sugli esseri umani: che divengano «
conformi all'immagine del Figlio suo » (Rm
8, 29). Solo così, nello splendore di questa immagine, l'uomo può essere
liberato dalla schiavitù dell'idolatria, può ricostruire la fraternità
dispersa e ritrovare la sua identità.
«
Chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno »
(Gv
11, 26): il dono della vita eterna
37.
La vita che il Figlio di Dio è venuto a donare agli uomini non si riduce alla
sola esistenza nel tempo. La vita, che da sempre è « in lui » e costituisce
« la luce degli uomini » (Gv 1, 4), consiste nell'essere generati da Dio e nel partecipare alla pienezza del
suo amore: « A quanti l'hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli
di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere
di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati » (Gv
1, 12-13).
A
volte Gesù chiama questa vita, che egli è venuto a donare, semplicemente così:
« la vita »; e presenta la generazione da Dio come una condizione necessaria
per poter raggiungere il fine per cui Dio ha creato l'uomo: « Se uno non
rinasce dall'alto, non può vedere il regno di Dio » (Gv
3, 3). Il dono di questa vita costituisce l'oggetto proprio della missione
di Gesù: egli « è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo » (Gv
6, 33), così che può affermare con piena verità: « Chi segue me... avrà la
luce della vita » (Gv 8, 12).
Altre
volte Gesù parla di « vita eterna », dove l'aggettivo non richiama soltanto
una prospettiva sovratemporale. « Eterna » è la vita che Gesù promette e
dona, perché è pienezza di partecipazione alla vita dell' « Eterno ».
Chiunque crede in Gesù ed entra in comunione con lui ha la vita eterna (cf. Gv
3, 15; 6, 40), perché da lui ascolta le uniche parole che rivelano e
infondono pienezza di vita alla sua esistenza; sono le « parole di vita eterna
» che Pietro riconosce nella sua confessione di fede: « Signore, da chi
andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu
sei il Santo di Dio » (Gv 6, 68-69).
In che cosa consista poi la vita eterna, lo dichiara Gesù stesso rivolgendosi
al Padre nella grande preghiera sacerdotale: « Questa è la vita eterna: che
conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo » (Gv 17, 3). Conoscere Dio e il suo Figlio è accogliere il mistero
della comunione d'amore del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo nella
propria vita, che si apre già fin d'ora alla
vita eterna nella partecipazione alla vita
divina.
38.
La vita eterna è, dunque, la vita stessa di Dio ed insieme la vita
dei figli di Dio. Stupore sempre nuovo e gratitudine senza limiti non
possono non prendere il credente di fronte a questa inattesa e ineffabile verità
che ci viene da Dio in Cristo. Il credente fa sue le parole dell'apostolo
Giovanni: « Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di
Dio, e lo siamo realmente!... Carissimi, noi fin d'ora siamo figli di Dio, ma ciò
che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà
manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è » (1
Gv 3, 1-2).
Così
giunge al suo culmine la verità cristiana
sulla vita. La dignità di questa non è legata solo alle sue origini, al
suo venire da Dio, ma anche al suo fine, al suo destino di comunione con Dio
nella conoscenza e nell'amore di Lui. È alla luce di questa verità che
sant'Ireneo precisa e completa la sua esaltazione dell'uomo: « gloria di Dio »
è, sì, « l'uomo che vive », ma « la vita dell'uomo consiste nella visione
di Dio ».27
Nascono
da qui immediate conseguenze per la vita umana nella sua stessa condizione
terrena, nella quale è già germogliata ed è in crescita la vita eterna.
Se l'uomo ama istintivamente la vita perché è un bene, tale amore trova
ulteriore motivazione e forza, nuova ampiezza e profondità nelle dimensioni
divine di questo bene. In simile prospettiva, l'amore che ogni essere umano ha
per la vita non si riduce alla semplice ricerca di uno spazio in cui esprimere
se stesso ed entrare in relazione con gli altri, ma si sviluppa nella gioiosa
consapevolezza di poter fare della propria esistenza il « luogo » della
manifestazione di Dio, dell'incontro e della comunione con Lui. La vita che Gesù
ci dona non svaluta la nostra esistenza nel tempo, ma la assume e la conduce al
suo ultimo destino: « Io sono la risurrezione e la vita...; chiunque vive e
crede in me, non morrà in eterno » (Gv
11, 25.26).
«
Domanderò conto ... a ognuno di suo fratello »
(Gn
9, 5): venerazione e amore per la vita di tutti
39.
La vita dell'uomo proviene da Dio, è suo dono, sua immagine e impronta,
partecipazione del suo soffio vitale. Di
questa vita, pertanto, Dio è l'unico
signore: l'uomo non può disporne. Dio stesso lo ribadisce a Noè dopo il
diluvio: « Domanderò conto della vita dell'uomo all'uomo, a ognuno di suo
fratello » (Gn 9, 5). E il testo biblico si preoccupa di sottolineare come la
sacralità della vita abbia il suo fondamento in Dio e nella sua azione
creatrice: « Perché ad immagine di Dio Egli ha fatto l'uomo » (Gn
9, 6).
La
vita e la morte dell'uomo sono, dunque, nelle mani di Dio, in suo potere: «
Egli ha in mano l'anima di ogni vivente e il soffio d'ogni carne umana »,
esclama Giobbe (12, 10). « Il Signore fa morire e fa vivere, scendere agli
inferi e risalire » (1 Sam 2, 6). Egli solo può dire: « Sono io che do la morte e
faccio vivere » (Dt 32, 39).
Ma
questo potere Dio non lo esercita come arbitrio minaccioso, bensì come cura
e sollecitudine amorosa nei riguardi delle sue creature. Se è vero che la
vita dell'uomo è nelle mani di Dio, non è men vero che queste sono mani
amorevoli come quelle di una madre che accoglie, nutre e si prende cura del suo
bambino: « Io sono tranquillo e sereno come bimbo svezzato in braccio a sua
madre, come un bimbo svezzato è l'anima mia » (Sal 131/130, 2; cf. Is 49,
15; 66, 12-13; Os 11, 4). Così nelle
vicende dei popoli e nella sorte degli individui Israele non vede il frutto di
una pura casualità o di un destino cieco, ma l'esito di un disegno d'amore con
il quale Dio raccoglie tutte le potenzialità di vita e contrasta le forze di
morte, che nascono dal peccato: « Dio non ha creato la morte e non gode per la
rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutto per l'esistenza » (Sap
1, 13-14).
40.
Dalla sacralità della vita scaturisce la sua
inviolabilità, inscritta fin dalle origini nel cuore dell'uomo, nella sua
coscienza. La domanda « Che hai fatto? » (Gn
4, 10), con cui Dio si rivolge a Caino dopo che questi ha ucciso il fratello
Abele, traduce l'esperienza di ogni uomo: nel profondo della sua coscienza, egli
viene sempre richiamato alla inviolabilità della vita — della sua vita e di
quella degli altri —, come realtà che non gli appartiene, perché proprietà
e dono di Dio Creatore e Padre.
Il
comandamento relativo all'inviolabilità della vita umana risuona al
centro delle « dieci parole » nell'Alleanza del Sinai (cf. Es 34, 28). Esso proibisce, anzitutto, l'omicidio: « Non uccidere
» (Es 20, 13); « Non far morire
l'innocente e il giusto » (Es 23, 7);
ma proibisce anche — come viene esplicitato nell'ulteriore legislazione di
Israele — ogni lesione inflitta all'altro (cf. Es 21, 12-27). Certo, bisogna riconoscere che nell'Antico Testamento
questa sensibilità per il valore della vita, pur già così marcata, non
raggiunge ancora la finezza del Discorso della Montagna, come emerge da alcuni
aspetti della legislazione allora vigente, che prevedeva pene corporali non
lievi e persino la pena di morte. Ma il messaggio complessivo, che spetterà al
Nuovo Testamento di portare alla perfezione, è un forte appello al rispetto
dell'inviolabilità della vita fisica e dell'integrità personale, ed ha il suo
vertice nel comandamento positivo che obbliga a farsi carico del prossimo come
di se stessi: « Amerai il tuo prossimo come te stesso » (Lv 19, 18).
41.
Il comandamento del « non uccidere », incluso e approfondito in quello
positivo dell'amore del prossimo, viene
ribadito in tutta la sua validità dal Signore Gesù. Al giovane ricco che
gli chiede: « Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?
», risponde: « Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti » (Mt
19, 16.17). E cita, come primo, il « non uccidere » (v. 18). Nel Discorso
della Montagna, Gesù esige dai discepoli una giustizia
superiore a quella degli scribi e dei farisei anche nel campo del rispetto
della vita: « Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà
ucciso sarà sottoposto a giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il
proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio » (Mt
5, 21-22).
Con
la sua parola e i suoi gesti Gesù esplicita ulteriormente le esigenze positive
del comandamento circa l'inviolabilità della vita. Esse erano già presenti
nell'Antico Testamento, dove la legislazione si preoccupava di garantire e
salvaguardare le situazioni di vita debole e minacciata: il forestiero, la
vedova, l'orfano, il malato, il povero in genere, la stessa vita prima della
nascita (cf. Es 21, 22; 22, 20-26).
Con Gesù queste esigenze positive acquistano vigore e slancio nuovi e si
manifestano in tutta la loro ampiezza e profondità: vanno dal prendersi cura
della vita del fratello (familiare,
appartenente allo stesso popolo, straniero che abita nella terra di Israele), al
farsi carico dell'estraneo, fino
all'amare il nemico.
L'estraneo
non è più tale per chi deve farsi
prossimo di chiunque è nel bisogno fino ad assumersi la responsabilità
della sua vita, come insegna in modo eloquente e incisivo la parabola del buon
samaritano (cf. Lc 10, 25-37). Anche il nemico cessa di essere tale per chi è
tenuto ad amarlo (cf. Mt 5, 38-48; Lc
6, 27-35) e a « fargli del bene » (cf. Lc
6, 27.33.35), venendo incontro alle necessità della sua vita con prontezza
e senso di gratuità (cf. Lc 6,
34-35). Vertice di questo amore è la preghiera per il nemico, mediante la quale
ci si pone in sintonia con l'amore provvidente di Dio: « Ma io vi dico: amate i
vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre
vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa
piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti » (Mt
5, 44-45; cf. Lc 6, 28.35).
Così
il comandamento di Dio a salvaguardia della vita dell'uomo ha il suo aspetto più
profondo nell'esigenza di venerazione e di amore nei confronti di ogni persona e
della sua vita. È questo l'insegnamento che l'apostolo Paolo, facendo eco alla
parola di Gesù (cf. Mt 19, 17-18),
rivolge ai cristiani di Roma: « Il precetto: Non commettere adulterio, non
uccidere, non rubare, non desiderare e qualsiasi altro comandamento, si riassume
in queste parole: Amerai il prossimo tuo
come te stesso. L'amore non fa nessun male al prossimo: pieno compimento
della legge è l'amore » (Rm 13,
9-10).
«
Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela »
(Gn
1, 28): le responsabilità dell'uomo verso la vita
42.
Difendere e promuovere, venerare e amare la vita è un compito che Dio affida a
ogni uomo, chiamandolo, come sua palpitante immagine, a partecipare alla
signoria che Egli ha sul mondo: « Dio li benedisse e disse loro: "Siate
fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci
del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla
terra" » (Gn 1, 28).
Il
testo biblico mette in luce l'ampiezza e la profondità della signoria che Dio
dona all'uomo. Si tratta, anzitutto, del dominio
sulla terra e su ogni essere vivente, come ricorda il libro della Sapienza:
« Dio dei padri e Signore di misericordia... con la tua sapienza hai formato
l'uomo, perché domini sulle creature che tu hai fatto, e governi il mondo con
santità e giustizia » (9, 1.2-3). Anche il Salmista esalta il dominio
dell'uomo come segno della gloria e dell'onore ricevuti dal Creatore: « Gli hai
dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi;
tutti i greggi e gli armenti, tutte le bestie della campagna; gli uccelli del
cielo e i pesci del mare, che percorrono le vie del mare » (Sal
8, 7-9).
Chiamato
a coltivare e custodire il giardino del mondo (cf. Gn
2, 15), l'uomo ha una specifica responsabilità sull'ambiente
di vita, ossia sul creato che Dio ha posto al servizio della sua dignità
personale, della sua vita: in rapporto non solo al presente, ma anche alle
generazioni future. È la questione
ecologica — dalla preservazione degli « habitat » naturali delle diverse
specie animali e delle varie forme di vita, alla « ecologia umana »
propriamente detta 28 — che trova nella pagina biblica una luminosa e forte
indicazione etica per una soluzione rispettosa del grande bene della vita, di
ogni vita. In realtà, « il dominio accordato dal Creatore all'uomo non è un
potere assoluto, né si può parlare di libertà di "usare e abusare",
o di disporre delle cose come meglio aggrada. La limitazione imposta dallo
stesso Creatore fin dal principio, ed espressa simbolicamente con la proibizione
di "mangiare il frutto dell'albero" (cf. Gn 2, 16-17), mostra con sufficiente chiarezza che, nei confronti
della natura visibile, siamo sottomessi a leggi non solo biologiche, ma anche
morali, che non si possono impunemente trasgredire ».29
43.
Una certa partecipazione dell'uomo alla signoria di Dio si manifesta anche nella
specifica responsabilità che gli
viene affidata nei confronti della vita
propriamente umana. È responsabilità che tocca il suo vertice nella
donazione della vita mediante la
generazione da parte dell'uomo e della donna nel matrimonio, come ci ricorda
il Concilio Vaticano II: « Lo stesso Dio che disse: "non è bene che
l'uomo sia solo" (Gn 2, 18) e che
"creò all'inizio l'uomo maschio e femmina" (Mt
19, 4), volendo comunicare all'uomo una certa speciale partecipazione nella
sua opera creatrice, benedisse l'uomo e la donna, dicendo loro: "crescete e
moltiplicatevi" (Gn 1, 28) ».30
Parlando
di « una certa speciale partecipazione » dell'uomo e della donna all'« opera
creatrice » di Dio, il Concilio intende rilevare come la generazione del figlio
sia un evento profondamente umano e altamente religioso, in quanto coinvolge i
coniugi che formano « una sola carne » (Gn
2, 24) ed insieme Dio stesso che si fa presente. Come ho scritto nella Lettera
alle Famiglie, « quando dall'unione coniugale dei due nasce un nuovo uomo,
questi porta con sé al mondo una particolare immagine e somiglianza di Dio
stesso: nella biologia della generazione è inscritta la genealogia della
persona. Affermando che i coniugi, come genitori, sono collaboratori di Dio
Creatore nel concepimento e nella generazione di un nuovo essere umano non ci
riferiamo solo alle leggi della biologia; intendiamo sottolineare piuttosto che nella
paternità e maternità umane Dio stesso è presente in modo diverso da come
avviene in ogni altra generazione "sulla terra". Infatti soltanto da
Dio può provenire quella "immagine e somiglianza" che è propria
dell'essere umano, così come è avvenuto nella creazione. La generazione è la
continuazione della creazione ».31
È
quanto insegna, con linguaggio immediato ed eloquente, il testo sacro riportando
il grido gioioso della prima donna, « la madre di tutti i viventi » (Gn
3, 20). Consapevole dell'intervento di Dio, Eva esclama: « Ho acquistato un
uomo dal Signore » (Gn 4, 1). Nella
generazione dunque, mediante la comunicazione della vita dai genitori al figlio,
si trasmette, grazie alla creazione dell'anima immortale,32 l'immagine e la
somiglianza di Dio stesso. In questo senso si esprime l'inizio del « libro
della genealogia di Adamo »: « Quando Dio creò l'uomo, lo fece a somiglianza
di Dio; maschio e femmina li creò, li benedisse e li chiamò uomini quando
furono creati. Adamo aveva centotrenta anni quando generò a sua immagine, a sua
somiglianza, un figlio e lo chiamò Set » (Gn
5, 1-3). Proprio in questo loro ruolo di collaboratori di Dio, che
trasmette la sua immagine alla nuova creatura, sta la grandezza dei coniugi
disposti « a cooperare con l'amore del Creatore e del Salvatore, che attraverso
di loro continuamente dilata e arricchisce la Sua famiglia ».33 In questa luce
il Vescovo Anfilochio esaltava il « matrimonio santo, eletto ed elevato al di
sopra di tutti i doni terreni » come « generatore dell'umanità, artefice di
immagini di Dio ».34
Così
l'uomo e la donna uniti in matrimonio sono associati ad un'opera divina:
mediante l'atto della generazione, il dono di Dio viene accolto e una nuova vita
si apre al futuro.
Ma,
al di là della missione specifica dei genitori, il
compito di accogliere e servire la vita riguarda tutti e deve manifestarsi
soprattutto verso la vita nelle condizioni di maggior debolezza. È Cristo
stesso che ce lo ricorda, chiedendo di essere amato e servito nei fratelli
provati da qualsiasi tipo di sofferenza: affamati, assetati, forestieri, nudi,
malati, carcerati... Quanto è fatto a ciascuno di loro è fatto a Cristo stesso
(cf. Mt 25, 31-46).
«
Sei tu che hai creato le mie viscere »
(Sal
139/138, 13): la dignità del bambino non ancora nato
44.
La vita umana viene a trovarsi in situazione di grande precarietà quando entra
nel mondo e quando esce dal tempo per approdare all'eternità. Sono ben presenti
nella Parola di Dio — soprattutto nei riguardi dell'esistenza insidiata dalla
malattia e dalla vecchiaia — gli inviti alla cura e al rispetto. Se mancano
inviti diretti ed espliciti a salvaguardare la vita umana alle sue origini, in
specie la vita non ancora nata, come anche quella vicina alla sua fine, ciò si
spiega facilmente per il fatto che anche la sola possibilità di offendere,
aggredire o addirittura negare la vita in queste condizioni esula dall'orizzonte
religioso e culturale del popolo di Dio.
Nell'Antico
Testamento la sterilità è temuta come una maledizione, mentre la prole
numerosa è sentita come una benedizione: « Dono del Signore sono i figli, è
sua grazia il frutto del grembo » (Sal
127/126, 3; cf. Sal 128/127, 3-4). Gioca in questa convinzione anche la
consapevolezza di Israele di essere il popolo dell'Alleanza, chiamato a
moltiplicarsi secondo la promessa fatta ad Abramo: « Guarda il cielo e conta le
stelle, se riesci a contarle... tale sarà la tua discendenza » (Gn
15, 5). Ma è soprattutto operante la certezza che la vita trasmessa dai
genitori ha la sua origine in Dio, come attestano le tante pagine bibliche che
con rispetto e amore parlano del concepimento, del plasmarsi della vita nel
grembo materno, della nascita e dello stretto legame che v'è tra il momento
iniziale dell'esistenza e l'agire di Dio Creatore.
«
Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo, prima che tu uscissi alla
luce, ti avevo consacrato » (Ger 1,
5):l'esistenza di ogni individuo, fin dalle sue origini, è nel disegno di
Dio. Giobbe, dal fondo del suo dolore, si ferma a contemplare l'opera di Dio
nel miracoloso formarsi del suo corpo nel grembo della madre, traendone motivo
di fiducia ed esprimendo la certezza dell'esistenza di un progetto divino sulla
sua vita: « Le tue mani mi hanno plasmato e mi hanno fatto integro in ogni
parte; vorresti ora distruggermi? Ricordati che come argilla mi hai plasmato e
in polvere mi farai tornare. Non m'hai colato forse come latte e fatto
accagliare come cacio? Di pelle e di carne mi hai rivestito, d'ossa e di nervi
mi hai intessuto. Vita e benevolenza tu mi hai concesso e la tua premura ha
custodito il mio spirito » (10, 8-12). Accenti di adorante stupore per
l'intervento di Dio sulla vita in formazione nel grembo materno risuonano anche
nei Salmi.35
Come
pensare che anche un solo momento di questo meraviglioso processo dello sgorgare
della vita possa essere sottratto all'opera sapiente e amorosa del Creatore e
lasciato in balìa dell'arbitrio dell'uomo? Non lo pensa certo la madre dei
sette fratelli, che professa la sua fede in Dio, principio e garanzia della vita
fin dal suo concepimento, e al tempo stesso fondamento della speranza della
nuova vita oltre la morte: « Non so come siate apparsi nel mio seno; non io vi
ho dato lo spirito e la vita, né io ho dato forma alle membra di ciascuno di
voi. Senza dubbio il Creatore del mondo, che ha plasmato all'origine l'uomo e ha
provveduto alla generazione di tutti, per la sua misericordia vi restituirà di
nuovo lo spirito e la vita, come voi ora per le sue leggi non vi curate di voi
stessi » (2 Mac 7, 22-23).
45.
La rivelazione del Nuovo Testamento conferma l'indiscusso
riconoscimento del valore della vita fin dai suoi inizi. L'esaltazione della
fecondità e l'attesa premurosa della vita risuonano nelle parole con cui
Elisabetta gioisce per la sua gravidanza: « Il Signore... si è degnato di
togliere la mia vergogna » (Lc 1,
25). Ma ancor più il valore della persona fin dal suo concepimento è celebrato
nell'incontro tra la Vergine Maria ed Elisabetta, e tra i due fanciulli che esse
portano in grembo. Sono proprio loro, i bambini, a rivelare l'avvento dell'era
messianica: nel loro incontro inizia ad operare la forza redentrice della
presenza del Figlio di Dio tra gli uomini. « Subito — scrive sant'Ambrogio
— si fanno sentire i benefici della venuta di Maria e della presenza del
Signore... Elisabetta udì per prima la voce, ma Giovanni percepì per primo la
grazia; essa udì secondo l'ordine della natura, egli esultò in virtù del
mistero; essa sentì l'arrivo di Maria, egli del Signore; la donna l'arrivo
della donna, il bambino l'arrivo del Bambino. Esse parlano delle grazie
ricevute, essi nel seno delle loro madri realizzano la grazia e il mistero della
misericordia a profitto delle madri stesse: e queste per un duplice miracolo
profetizzano sotto l'ispirazione dei figli che portano. Del figlio si dice che
esultò, della madre che fu ricolma di Spirito Santo. Non fu prima la madre a
essere ricolma dello Spirito, ma fu il figlio, ripieno di Spirito Santo, a
ricolmare anche la madre ».36
«
Ho creduto anche quando dicevo: "Sono troppo infelice" »
(Sal
116/115, 10): la vita nella vecchiaia e
nella sofferenza
46.
Anche per quanto riguarda gli ultimi istanti dell'esistenza, sarebbe
anacronistico attendersi dalla rivelazione biblica un espresso riferimento
all'attuale problematica del rispetto delle persone anziane e malate e
un'esplicita condanna dei tentativi di anticiparne violentemente la fine: siamo
infatti in un contesto culturale e religioso che non è intaccato da simile
tentazione, e che anzi, per quanto riguarda l'anziano, riconosce nella sua
saggezza ed esperienza una insostituibile ricchezza per la famiglia e la società.
La
vecchiaia è segnata da prestigio e circondata da venerazione (cf. 2
Mac 6, 23). E il giusto non chiede di essere privato della vecchiaia e del
suo peso; al contrario così egli prega: « Sei tu, Signore, la mia speranza, la
mia fiducia fin dalla mia giovinezza... E ora, nella vecchiaia e nella canizie,
Dio, non abbandonarmi, finché io annunzi la tua potenza, a tutte le generazioni
le tue meraviglie » (Sal 71/70,
5.18). L'ideale del tempo messianico è proposto come quello in cui « non ci
sarà più... un vecchio che non giunga alla pienezza dei suoi giorni » (Is
65, 20).
Ma,
nella vecchiaia, come affrontare il declino inevitabile della vita? Come
atteggiarsi di fronte alla morte? Il credente sa che la sua vita sta nelle mani
di Dio: « Signore, nelle tue mani è la mia vita » (cf. Sal 16/15, 5), e da lui accetta anche il morire: « Questo è il
decreto del Signore per ogni uomo; perché ribellarsi al volere dell'Altissimo?
» (Sir 41, 4). Come della vita, così
della morte l'uomo non è padrone; nella sua vita come nella sua morte, egli
deve affidarsi totalmente al « volere dell'Altissimo », al suo disegno di
amore.
Anche
nel momento della malattia, l'uomo è chiamato a vivere lo stesso affidamento al
Signore e a rinnovare la sua fondamentale fiducia in lui che « guarisce tutte
le malattie » (cf. Sal 103/102, 3).
Quando ogni orizzonte di salute sembra chiudersi di fronte all'uomo — tanto da
indurlo a gridare: « I miei giorni sono come ombra che declina, e io come erba
inaridisco » (Sal 102/101, 12) —,
anche allora il credente è animato dalla fede incrollabile nella potenza
vivificante di Dio. La malattia non lo spinge alla disperazione e alla ricerca
della morte, ma all'invocazione piena di speranza: « Ho creduto anche quando
dicevo: "Sono troppo infelice" (Sal
116/115, 10); « Signore Dio mio, a te ho gridato e mi hai guarito. Signore,
mi hai fatto risalire dagli inferi, mi hai dato vita perché non scendessi nella
tomba » (Sal 30/29, 3-4).
47.
La missione di Gesù, con le numerose guarigioni operate, indica quanto
Dio abbia a cuore anche la vita corporale dell'uomo. « Medico della carne e
dello spirito »,37 Gesù è mandato dal Padre ad annunciare la buona novella ai
poveri e a sanare i cuori affranti (cf. Lc
4, 18; Is 61, 1). Inviando poi i
suoi discepoli nel mondo, egli affida loro una missione, nella quale la
guarigione dei malati si accompagna all'annuncio del Vangelo: « E strada
facendo, predicate che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi,
risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni » (Mt
10, 7-8; cf. Mc 6, 13; 16, 18).
Certo,
la vita del corpo nella sua condizione
terrena non è un assoluto per il credente, tanto che gli può essere
richiesto di abbandonarla per un bene superiore; come dice Gesù, « chi vorrà
salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa
mia e del Vangelo, la salverà » (Mc 8,
35). Diverse sono, a questo proposito, le testimonianze del Nuovo Testamento.
Gesù non esita a sacrificare sé stesso e, liberamente, fa della sua vita una
offerta al Padre (cf. Gv 10, 17) e ai
suoi (cf. Gv 10, 15). Anche la morte
di Giovanni il Battista, precursore del Salvatore, attesta che l'esistenza
terrena non è il bene assoluto: è più importante la fedeltà alla parola del
Signore anche se essa può mettere in gioco la vita (cf. Mc
6, 17-29). E Stefano, mentre viene privato della vita nel tempo, perché
testimone fedele della risurrezione del Signore, segue le orme del Maestro e va
incontro ai suoi lapidatori con le parole del perdono (cf. At 7, 59-60), aprendo la strada all'innumerevole schiera di martiri,
venerati dalla Chiesa fin dall'inizio.
Nessun
uomo, tuttavia, può scegliere arbitrariamente di vivere o di morire; di tale
scelta, infatti, è padrone assoluto soltanto il Creatore, colui nel quale «
viviamo, ci muoviamo ed esistiamo » (At 17,
28).
«
Quanti si attengono ad essa avranno la vita »
(Bar
4, 1): dalla Legge del Sinai al dono dello Spirito
48.
La vita porta indelebilmente inscritta in sé una
sua verità. L'uomo, accogliendo il dono di Dio, deve impegnarsi amantenere la vita in questa verità, che le è essenziale.
Distaccarsene equivale a condannare se stessi all'insignificanza e all'infelicità,
con la conseguenza di poter diventare anche una minaccia per l'esistenza altrui,
essendo stati rotti gli argini che garantiscono il rispetto e la difesa della
vita, in ogni situazione.
La
verità della vita è rivelata dal comandamento di Dio. La parola del
Signore indica concretamente quale indirizzo la vita debba seguire per poter
rispettare la propria verità e salvaguardare la propria dignità. Non è
soltanto lo specifico comandamento « non uccidere » (Es
20, 13; Dt 5, 17) ad assicurare la protezione della vita: tutta
intera la Legge del Signore è a servizio di tale protezione, perché rivela
quella verità nella quale la vita trova il suo pieno significato.
Non
meraviglia, dunque, che l'Alleanza di Dio con il suo popolo sia così fortemente
legata alla prospettiva della vita, anche nella sua dimensione corporea. Il comandamento
è in essa offerto come via della
vita: « Io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male;
poiché io oggi ti comando di amare il Signore tuo Dio, di camminare per le sue
vie, di osservare i suoi comandi, le sue leggi e le sue norme, perché tu viva e
ti moltiplichi e il Signore tuo Dio ti benedica nel paese che tu stai per
entrare a prendere in possesso » (Dt 30,
15-16). È in questione non soltanto la terra di Canaan e l'esistenza del popolo
di Israele, ma il mondo di oggi e del futuro e l'esistenza di tutta l'umanità.
Infatti, non è assolutamente possibile che la vita resti autentica e piena
distaccandosi dal bene; e il bene, a sua volta, è essenzialmente legato ai
comandamenti del Signore, cioè alla « legge della vita » (Sir
17, 9). Il bene da compiere non si sovrappone alla vita come un peso che
grava su di essa, perché la ragione stessa della vita è precisamente il bene e
la vita è costruita solo mediante il compimento del bene.
È
dunque il complesso della Legge a
salvaguardare pienamente la vita dell'uomo. Ciò spiega come sia difficile
mantenersi fedeli al « non uccidere » quando non vengono osservate le altre «
parole di vita » (At 7, 38), alle quali questo comandamento è connesso. Al di fuori
di questo orizzonte, il comandamento finisce per diventare un semplice obbligo
estrinseco, di cui ben presto si vorranno vedere i limiti e si cercheranno le
attenuazioni o le eccezioni. Solo se ci si apre alla pienezza della verità su
Dio, sull'uomo e sulla storia, la parola « non uccidere » torna a risplendere
come bene per l'uomo in tutte le sue dimensioni e relazioni. In questa
prospettiva possiamo cogliere la pienezza di verità contenuta nel passo del
libro del Deuteronomio, ripreso da Gesù nella risposta alla prima tentazione:
« L'uomo non vive soltanto di pane, ma... di quanto esce dalla bocca del
Signore » (8, 3; cf. Mt 4, 4). È
ascoltando la parola del Signore che l'uomo può vivere secondo dignità e
giustizia; è osservando la Legge di Dio che l'uomo può portare frutti di vita
e di felicità: « quanti si attengono ad essa avranno la vita, quanti
l'abbandonano moriranno » (Bar 4, 1).
49.
La storia di Israele mostra quanto sia difficile
mantenere la fedeltà alla legge della vita, che Dio ha inscritto nel cuore
degli uomini e ha consegnato sul Sinai al popolo dell'Alleanza. Di fronte alla
ricerca di progetti di vita alternativi al piano di Dio, sono in particolare i
Profeti a richiamare con forza che solo il Signore è l'autentica fonte della
vita. Così Geremia scrive: « Il mio popolo ha commesso due iniquità: essi
hanno abbandonato me, sorgente di acqua viva, per scavarsi cisterne, cisterne
screpolate, che non tengono l'acqua » (2, 13). I Profeti puntano il dito
accusatore su quanti disprezzano la vita e violano i diritti delle persone: «
Calpestano come la polvere della terra la testa dei poveri » (Am
2, 7); « Essi hanno riempito questo luogo di sangue innocente » (Ger
19, 4). E tra essi il profeta Ezechiele più volte stigmatizza la città di
Gerusalemme, chiamandola « la città sanguinaria » (22, 2; 24, 6.9), la «
città che sparge il sangue in mezzo a se stessa » (22, 3).
Ma
mentre denunciano le offese alla vita, i Profeti si preoccupano soprattutto di
suscitare l'attesa di un nuovo principio di vita, capace di fondare un
rinnovato rapporto con Dio e con i fratelli, dischiudendo possibilità inedite e
straordinarie per comprendere e attuare tutte le esigenze insite nel Vangelo
della vita . Ciò sarà possibile unicamente grazie al dono di Dio, che
purifica e rinnova: « Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi
purificherò da tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri idoli; vi darò un
cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo » (Ez
36, 25-26; cf. Ger 31, 31-34).
Grazie a questo « cuore nuovo » si può comprendere e realizzare il senso più
vero e profondo della vita: quello di essere un
dono che si compie nel donarsi. È il messaggio luminoso che sul valore
della vita ci viene dalla figura del Servo del Signore: « Quan- do offrirà se
stesso in espiazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo... Dopo il suo
intimo tormento vedrà la luce » (Is 53,
10.11).
È
nella vicenda di Gesù di Nazaret che la Legge si compie e il cuore nuovo viene
donato mediante il suo Spirito. Gesù, infatti, non rinnega la Legge, ma la
porta a compimento (cf. Mt 5, 17):
Legge e Profeti si riassumono nella regola d'oro dell'amore reciproco (cf. Mt 7, 12). In Lui la Legge diventa definitivamente « vangelo »,
buona notizia della signoria di Dio sul mondo, che riporta tutta l'esistenza
alle sue radici e alle sue prospettive originarie. È la Legge Nuova, « la legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù
» (Rm 8, 2), la cui espressione
fondamentale, a imitazione del Signore che dà la vita per i propri amici (cf.
Gv 15, 13), è il dono di sé nell'amore ai fratelli: « Noi sappiamo di essere
passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli » (1 Gv 3, 14). È legge di libertà, di gioia e di beatitudine.
«
Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto »
(Gv
19, 37): sull'albero della Croce si compie il Vangelo della vita
50.
Al termine di questo capitolo, nel quale abbiamo meditato il messaggio cristiano
sulla vita, vorrei fermarmi con ciascuno di voi a contemplare
Colui che hanno trafitto e che attira tutti a sé (cf. Gv 19, 37; 12, 32). Guardando « lo spettacolo » della Croce (cf. Lc
23, 48), potremo scoprire in questo albero glorioso il compimento e la
rivelazione piena di tutto il Vangelo
della vita.
Nelle
prime ore del pomeriggio del venerdì santo, « il sole si eclissò e si fece
buio su tutta la terra... Il velo del tempio si squarciò nel mezzo » (Lc
23, 44.45). È il simbolo di un grande sconvolgimento cosmico e di una
immane lotta tra le forze del bene e le forze del male, tra la vita e la morte.
Noi pure, oggi, ci troviamo nel mezzo di una lotta drammatica tra la « cultura
della morte » e la « cultura della vita ». Ma da questa oscurità lo
splendore della Croce non viene sommerso; essa, anzi, si staglia ancora più
nitida e luminosa e si rivela come il centro, il senso e il fine di tutta la
storia e di ogni vita umana.
Gesù
è inchiodato sulla Croce e viene innalzato da terra. Vive il momento della sua
massima « impotenza » e la sua vita sembra totalmente consegnata agli scherni
dei suoi avversari e alle mani dei suoi uccisori: viene beffeggiato, deriso,
oltraggiato (cf. Mc 15, 24-36).
Eppure, proprio di fronte a tutto ciò e « vistolo spirare in quel modo », il
centurione romano esclama: « Veramente quest'uomo era Figlio di Dio! » (Mc 15, 39). Si rivela così, nel momento della sua estrema
debolezza, l'identità del Figlio di Dio: sulla
Croce si manifesta la sua gloria!
Con
la sua morte, Gesù illumina il senso della vita e della morte di ogni essere
umano. Prima di morire, Gesù prega il Padre invocando il perdono per i suoi
persecutori (cf. Lc 23, 34) e al malfattore, che gli chiede di ricordarsi di lui nel
suo regno, risponde: « In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso » (Lc
23, 43). Dopo la sua morte « i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi
morti risuscitarono » (Mt 27, 52). La
salvezza operata da Gesù è donazione di vita e di risurrezione. Lungo la sua
esistenza, Gesù aveva donato salvezza anche sanando e beneficando tutti (cf. At 10, 38). Ma i miracoli, le guarigioni e le stesse risuscitazioni
erano segno di un'altra salvezza, consistente nel perdono dei peccati, ossia
nella liberazione dell'uomo dalla malattia più profonda, e nella sua elevazione
alla vita stessa di Dio.
Sulla
Croce si rinnova e si realizza nella sua piena e definitiva perfezione il
prodigio del serpente innalzato da Mosè nel deserto (cf. Gv
3, 14-15; Nm 21, 8-9). Anche oggi,
volgendo lo sguardo a Colui che è stato trafitto, ogni uomo minacciato nella
sua esistenza incontra la sicura speranza di trovare liberazione e redenzione.
51.
Ma c'è ancora un altro avvenimento preciso che attira il mio sguardo e suscita
la mia commossa meditazione: « Dopo aver ricevuto l'aceto, Gesù disse: 'Tutto
è compiuto!'. E, chinato il capo, rese lo spirito » (Gv
19, 30). E il soldato romano « gli colpì il costato con la lancia e subito
ne uscì sangue e acqua » (Gv 19,
34).
Tutto
ormai è giunto al suo pieno compimento. Il « rendere lo spirito » descrive la
morte di Gesù, simile a quella di ogni altro essere umano, ma sembra alludere
anche al « dono dello Spirito », col quale Egli ci riscatta dalla morte e ci
apre a una vita nuova.
È
la vita stessa di Dio che viene partecipata all'uomo. È la vita che, mediante i
sacramenti della Chiesa — di cui il sangue e l'acqua sgorgati dal fianco di
Cristo sono simbolo — viene continuamente comunicata ai figli di Dio,
costituiti così come popolo della Nuova Alleanza. Dalla
Croce, fonte di vita, nasce e si diffonde il « popolo della vita ».
La
contemplazione della Croce ci porta così alle radici più profonde di quanto è
accaduto. Gesù, che entrando nel mondo aveva detto: « Ecco, io vengo per fare,
o Dio, la tua volontà » (cf.Eb 10,
9), si rese in tutto obbediente al Padre e, avendo « amato i suoi che erano nel
mondo, li amò sino alla fine » (Gv 13,
1), donando tutto se stesso per loro.
Lui,
che non era « venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita
in riscatto per molti » (Mc 10, 45),
raggiunge sulla Croce il vertice dell'amore. « Nessuno ha un amore più grande
di questo: dare la vita per i propri amici » (Gv
15, 13). Ed egli è morto per noi mentre eravamo ancora peccatori (cf. Rm 5, 8).
In
tal modo egli proclama che la vita
raggiunge il suo centro, il suo senso e la sua pienezza quando viene donata.
La
meditazione a questo punto si fa lode e ringraziamento e, nello stesso tempo, ci
sollecita a imitare Gesù e a seguirne le orme (cf. 1
Pt 2, 21).
Anche
noi siamo chiamati a dare la nostra vita per i fratelli realizzando così in
pienezza di verità il senso e il destino della nostra esistenza.
Lo
potremo fare perché Tu, o Signore, ci hai donato l'esempio e ci hai comunicato
la forza del tuo Spirito. Lo potremo fare se ogni giorno, con Te e come Te,
saremo obbedienti al Padre e faremo la sua volontà.
Concedici,
perciò, di ascoltare con cuore docile e generoso ogni parola che esce dalla
bocca di Dio: impareremo così non solo a « non uccidere » la vita dell'uomo,
ma a venerarla, amarla e promuoverla.
CAPITOLO III
NON UCCIDERE
«
Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti »
(Mt
19, 17): Vangelo e comandamento
52.
« Ed ecco un tale gli si avvicinò e gli disse: "Maestro, che cosa devo
fare di buono per ottenere la vita eterna?" » (Mt
19, 16). Gesù rispose: « Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti »
(Mt 19, 17). Il Maestro parla della vita eterna, ossia della
partecipazione alla vita stessa di Dio. A questa vita si giunge attraverso
l'osservanza dei comandamenti del Signore, compreso dunque il comandamento «
non uccidere ». Proprio questo è il primo precetto del Decalogo che Gesù
ricorda al giovane che gli chiede quali comandamenti debba osservare: « Gesù
rispose: "Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare..." » (Mt
19, 18).
Il
comandamento di Dio non è mai separato dal suo amore: è sempre un dono per
la crescita e la gioia dell'uomo. Come tale, costituisce un aspetto essenziale e
un elemento irrinunciabile del Vangelo, anzi esso stesso si configura come «
vangelo », ossia buona e lieta notizia. Anche il Vangelo
della vita è un grande dono di Dio e insieme un compito impegnativo per
l'uomo. Esso suscita stupore e gratitudine nella persona libera e chiede di
essere accolto, custodito e valorizzato con vivo senso di responsabilità:
donandogli la vita, Dio esige dall'uomo
che la ami, la rispetti e la promuova. In tal modo il
dono si fa comandamento, e il
comandamento è esso stesso un dono.
L'uomo,
immagine vivente di Dio, è voluto dal suo Creatore come re e signore. « Dio ha
fatto l'uomo — scrive san Gregorio di Nissa — in modo tale che potesse
svolgere la sua funzione di re della terra... L'uomo è stato creato a immagine
di Colui che governa l'universo. Tutto dimostra che fin dal principio la sua
natura è contrassegnata dalla regalità... Anche l'uomo è re. Creato per
dominare il mondo, ha ricevuto la somiglianza col re universale, è l'immagine
viva che partecipa con la sua dignità alla perfezione del divino modello ».38
Chiamato ad essere fecondo e a moltiplicarsi, a soggiogare la terra e a dominare
sugli esseri infraumani (cf. Gn 1,
28), l'uomo è re e signore non solo delle cose, ma anche ed anzitutto di se
stesso 39 e, in un certo senso, della vita che gli è donata e che egli puó
trasmettere mediante l'opera generatrice compiuta nell'amore e nel rispetto del
disegno di Dio. La sua, tuttavia, non è una
signoria assoluta, ma ministeriale; è
riflesso reale della signoria unica e infinita di Dio. Per questo l'uomo deve
viverla con sapienza e amore, partecipando
alla sapienza e all'amore incommensurabili di Dio. E ciò avviene con
l'obbedienza alla sua Legge santa: un'obbedienza libera e gioiosa (cf. Sal 119/118), che nasce ed è nutrita dalla consapevolezza che i
precetti del Signore sono dono di grazia affidati all'uomo sempre e solo per il
suo bene, per la custodia della sua dignità personale e per il perseguimento
della sua felicità.
Come
già di fronte alle cose, ancor più di fronte alla vita, l'uomo non è padrone
assoluto e arbitro insindacabile, ma — e in questo sta la sua impareggiabile
grandezza — è « ministro del disegno di Dio ».40
La
vita viene affidata all'uomo come un tesoro da non disperdere, come un talento
da trafficare. Di essa l'uomo deve rendere conto al suo Signore (cf. Mt
25, 14-30; Lc 19, 12-27).
«
Domanderò conto della vita dell'uomo all'uomo »
(Gn
9, 5): la vita umana è sacra e inviolabile
53.
« La vita umana è sacra perché, fin dal suo inizio, comporta "l'azione
creatrice di Dio" e rimane per sempre in una relazione speciale con il
Creatore, suo unico fine. Solo Dio è il Signore della vita dal suo inizio alla
sua fine: nessuno, in nessuna circostanza, può rivendicare a sé il diritto di
distruggere direttamente un essere umano innocente ».41 Con queste parole
l'Istruzione Donum vitae espone il contenuto centrale della rivelazione di Dio
sulla sacralità e inviolabilità della vita umana.
La
Sacra Scrittura, infatti, presenta
all'uomo il precetto « non uccidere » come comandamento divino (Es
20, 13; Dt 5, 17). Esso — come
ho già sottolineato — si trova nel Decalogo, al cuore dell'Alleanza che il
Signore conclude con il popolo eletto; ma era già contenuto nell'originaria
alleanza di Dio con l'umanità dopo il castigo purificatore del diluvio,
provocato dal dilagare del peccato e della violenza (cf. Gn
9, 5-6).
Dio
si proclama Signore assoluto della vita dell'uomo, plasmato a sua immagine e
somiglianza (cf. Gn 1, 26-28). La vita umana presenta, pertanto, un carattere sacro
ed inviolabile, in cui si rispecchia l'inviolabilità stessa del Creatore.
Proprio per questo sarà Dio a farsi giudice severo di ogni violazione del
comandamento « non uccidere », posto alle basi dell'intera convivenza sociale.
Egli è il « goel », ossia il difensore dell'innocente (cf. Gn 4, 9-15; Is 41, 14; Ger
50, 34; Sal 19/18, 15). Anche in questo modo Dio dimostra di non godere
della rovina dei viventi (cf. Sap 1,
13). Solo Satana ne può godere: per la sua invidia la morte è entrata nel
mondo (cf. Sap 2, 24). Egli, che è «
omicida fin da principio », è anche « menzognero e padre della menzogna » (Gv
8, 44): ingannando l'uomo, lo conduce a traguardi di peccato e di morte,
presentati come mete e frutti di vita.
54.
Esplicitamente, il precetto « non uccidere » ha un forte contenuto negativo:
indica il confine estremo che non può mai essere valicato. Implicitamente, però,
esso spinge ad un atteggiamento positivo di rispetto assoluto per la vita
portando a promuoverla e a progredire sulla via dell'amore che si dona, accoglie
e serve. Anche il popolo dell'Alleanza, pur con lentezze e contraddizioni, ha
conosciuto una maturazione progressiva secondo questo orientamento, preparandosi
così al grande annuncio di Gesù: l'amore del prossimo è comandamento simile a
quello dell'amore di Dio; « da questi due comandamenti dipende tutta la Legge e
i Profeti » (cf. Mt 22, 36-40). « Il
precetto... non uccidere... e qualsiasi altro comandamento — sottolinea san
Paolo — si riassume in queste parole: "Amerai il prossimo tuo come te
stesso" » (Rm 13, 9; cf. Gal 5, 14). Assunto e portato a compimento nella Legge Nuova, il
precetto « non uccidere » rimane come condizione irrinunciabile per poter «
entrare nella vita » (cf. Mt 19,
16-19). In questa stessa prospettiva, risuona perentoria anche la parola
dell'apostolo Giovanni: « Chiun- que odia il proprio fratello è omicida e voi
sapete che nessun omicida possiede in se stesso la vita eterna » (1
Gv 3, 15).
Sin
dai suoi inizi, la Tradizione viva della Chiesa — come testimonia la Didachè,
il più antico scritto cristiano non biblico — ha riproposto in modo
categorico il comandamento « non uccidere »: « Vi sono due vie, una della
vita, e l'altra della morte; vi è una grande differenza fra di esse... Secondo
precetto della dottrina: Non ucciderai... non farai perire il bambino con
l'aborto né l'ucciderai dopo che è nato... La via della morte è questa: ...
non hanno compassione per il povero, non soffrono con il sofferente, non
riconoscono il loro Creatore, uccidono i loro figli e con l'aborto fanno perire
creature di Dio; allontanano il bisognoso, opprimono il tribolato, sono avvocati
dei ricchi e giudici ingiusti dei poveri; sono pieni di ogni peccato. Possiate
star sempre lontani, o figli, da tutte queste colpe! ».42
Procedendo
nel tempo, la stessa Tradizione della Chiesa ha sempre unanimemente insegnato il
valore assoluto e permanente del comandamento « non uccidere ». È noto che,
nei primi secoli, l'omicidio veniva posto fra i tre peccati più gravi —
insieme all'apostasia e all'adulterio — e si esigeva una penitenza pubblica
particolarmente onerosa e lunga prima che all'omicida pentito venissero concessi
il perdono e la riammissione nella comunione ecclesiale.
55.
La cosa non deve stupire: uccidere l'essere umano, nel quale è presente
l'immagine di Dio, è peccato di particolare gravità. Solo
Dio è padrone della vita! Da sempre, tuttavia, di fronte ai molteplici e
spesso drammatici casi che la vita individuale e sociale presenta, la
riflessione dei credenti ha cercato di raggiungere un'intelligenza più completa
e profonda di quanto il comandamento di Dio proibisca e prescriva.43 Vi sono,
infatti, situazioni in cui i valori proposti dalla Legge di Dio appaiono sotto
forma di un vero paradosso. È il caso, ad esempio, della legittima difesa, in cui il diritto a proteggere la propria vita e
il dovere di non ledere quella dell'altro risultano in concreto difficilmente
componibili. Indubbiamente, il valore intrinseco della vita e il dovere di
portare amore a se stessi non meno che agli altri fondano un vero diritto alla propria difesa. Lo stesso esigente precetto
dell'amore per gli altri, enunciato nell'Antico Testamento e confermato da Gesù,
suppone l'amore per se stessi quale termine di confronto: « Amerai il prossimo
tuo come te stesso » (Mc
12, 31). Al diritto di difendersi, dunque, nessuno potrebbe rinunciare per
scarso amore alla vita o a se stesso, ma solo in forza di un amore eroico, che
approfondisce e trasfigura lo stesso amore di sé, secondo lo spirito delle
beatitudini evangeliche (cf. Mt 5,
38-48) nella radicalità oblativa di cui è esempio sublime lo stesso Signore
Gesù.
D'altra
parte, « la legittima difesa può essere non soltanto un diritto, ma un grave
dovere, per chi è responsabile della vita di altri, del bene comune della
famiglia o della comunità civile ».44 Accade purtroppo che la necessità di
porre l'aggressore in condizione di non nuocere comporti talvolta la sua
soppressione. In tale ipotesi, l'esito mortale va attribuito allo stesso
aggressore che vi si è esposto con la sua azione, anche nel caso in cui egli
non fosse moralmente responsabile per mancanza dell'uso della ragione.45
56.
In questo orizzonte si colloca anche il problema della
pena di morte, su cui si registra, nella Chiesa come nella società civile,
una crescente tendenza che ne chiede un'applicazione assai limitata ed anzi una
totale abolizione. Il problema va inquadrato nell'ottica di una giustizia penale
che sia sempre più conforme alla dignità dell'uomo e pertanto, in ultima
analisi, al disegno di Dio sull'uomo e sulla società. In effetti, la pena che
la società infligge « ha come primo scopo di riparare al disordine introdotto
dalla colpa ».46 La pubblica autorità deve farsi vindice della violazione dei
diritti personali e sociali mediante l'imposizione al reo di una adeguata
espiazione del crimine, quale condizione per essere riammesso all'esercizio
della propria libertà. In tal modo l'autorità ottiene anche lo scopo di
difendere l'ordine pubblico e la sicurezza delle persone, non senza offrire allo
stesso reo uno stimolo e un aiuto a correggersi e redimersi.47
È
chiaro che, proprio per conseguire tutte queste finalità, la
misura e la qualità della pena devono essere attentamente valutate e
decise, e non devono giungere alla misura estrema della soppressione del reo se
non in casi di assoluta necessità, quando cioè la difesa della società non
fosse possibile altrimenti. Oggi, però, a seguito dell'organizzazione sempre più
adeguata dell'istituzione penale, questi casi sono ormai molto rari, se non
addirittura praticamente inesistenti.
In
ogni caso resta valido il principio indicato dal nuovo
Catechismo della Chiesa Cattolica, secondo cui « se i mezzi incruenti sono
sufficienti per difendere le vite umane dall'aggressore e per proteggere
l'ordine pubblico e la sicurezza delle persone, l'autorità si limiterà a
questi mezzi, poiché essi sono meglio rispondenti alle condizioni concrete del
bene comune e sono più conformi alla dignità della persona umana ».48
57.
Se così grande attenzione va posta al rispetto di ogni vita, persino di quella
del reo e dell'ingiusto aggressore, il comandamento « non uccidere » ha valore
assoluto quando si riferisce alla persona
innocente. E ciò tanto più se si tratta di un essere umano debole e
indifeso, che solo nella forza assoluta del comandamento di Dio trova la sua
radicale difesa rispetto all'arbitrio e alla prepotenza altrui.
In
effetti, l'inviolabilità assoluta della vita umana innocente è una verità
morale esplicitamente insegnata nella Sacra Scrittura, costantemente ritenuta
nella Tradizione della Chiesa e unanimemente proposta dal suo Magistero. Tale
unanimità è frutto evidente di quel « senso soprannaturale della fede » che,
suscitato e sorretto dallo Spirito Santo, garantisce dall'errore il popolo di
Dio, quando « esprime l'universale suo consenso in materia di fede e di costumi
».49
Dinanzi
al progressivo attenuarsi nelle coscienze e nella società della percezione
dell'assoluta e grave illiceità morale della diretta soppressione di ogni vita
umana innocente, specialmente al suo inizio e al suo termine, il
Magistero della Chiesa ha intensificato i suoi interventi a difesa della
sacralità e dell'inviolabilità della vita umana. Al Magistero pontificio,
particolarmente insistente, s'è sempre unito quello episcopale, con numerosi e
ampi documenti dottrinali e pastorali, sia di Conferenze Episcopali, sia di
singoli Vescovi. Né è mancato, forte e incisivo nella sua brevità,
l'intervento del Concilio Vaticano II.50
Pertanto,
con l'autorità che Cristo ha conferito a Pietro e ai suoi Successori, in
comunione con i Vescovi della Chiesa cattolica, confermo
che l'uccisione diretta e volontaria di un essere umano innocente è sempre
gravemente immorale. Tale dottrina, fondata in quella legge non scritta che
ogni uomo, alla luce della ragione, trova nel proprio cuore (cf. Rm
2, 14-15), è riaffermata dalla Sacra Scrittura, trasmessa dalla Tradizione
della Chiesa e insegnata dal Magistero ordinario e universale.51
La
scelta deliberata di privare un essere umano innocente della sua vita è sempre
cattiva dal punto di vista morale e non può mai essere lecita né come fine, né
come mezzo per un fine buono. È, infatti, grave disobbedienza alla legge
morale, anzi a Dio stesso, autore e garante di essa; contraddice le fondamentali
virtù della giustizia e della carità. « Niente e nessuno può autorizzare
l'uccisione di un essere umano innocente, feto o embrione che sia, bambino o
adulto, vecchio, ammalato incurabile o agonizzante. Nessuno, inoltre, può
richiedere questo gesto omicida per se stesso o per un altro affidato alla sua
responsabilità, né può acconsentirvi esplicitamente o implicitamente. Nessuna
autorità può legittimamente imporlo né permetterlo ».52
Nel
diritto alla vita, ogni essere umano innocente è assolutamente uguale a tutti
gli altri. Tale uguaglianza è la base di ogni autentico rapporto sociale che,
per essere veramente tale, non può non fondarsi sulla verità e sulla
giustizia, riconoscendo e tutelando ogni uomo e ogni donna come persona e non
come una cosa di cui si possa disporre. Di fronte alla norma morale che
proibisce la soppressione diretta di un essere umano innocente « non
ci sono privilegi né eccezioni per nessuno. Essere il padrone del mondo o
l'ultimo miserabile sulla faccia della terra non fa alcuna differenza: davanti
alle esigenze morali siamo tutti assolutamente uguali ».53
«
Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi »
(Sal
139/138, 16): il delitto abominevole
dell'aborto
58.
Fra tutti i delitti che l'uomo può compiere contro la vita, l'aborto procurato
presenta caratteristiche che lo rendono particolarmente grave e deprecabile. Il
Concilio Vaticano II lo definisce, insieme all'infanticidio, « delitto
abominevole ».54
Ma
oggi, nella coscienza di molti, la percezione della sua gravità è andata
progressivamente oscurandosi. L'accettazione dell'aborto nella mentalità, nel
costume e nella stessa legge è segno eloquente di una pericolosissima crisi del
senso morale, che diventa sempre più incapace di distinguere tra il bene e il
male, persino quando è in gioco il diritto fondamentale alla vita. Di fronte a
una così grave situazione, occorre più che mai il coraggio di guardare in
faccia alla verità e di chiamare le cose con il loro nome, senza cedere a compromessi di
comodo o alla tentazione di autoinganno. A tale proposito risuona categorico il
rimprovero del Profeta: « Guai a coloro che chiamano bene il male e male il
bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre » (Is
5, 20). Proprio nel caso dell'aborto si registra la diffusione di una
terminologia ambigua, come quella di « interruzione della gravidanza », che
tende a nasconderne la vera natura e ad attenuarne la gravità nell'opinione
pubblica. Forse questo fenomeno linguistico è esso stesso sintomo di un disagio
delle coscienze. Ma nessuna parola vale a cambiare la realtà delle cose:
l'aborto procurato è l'uccisione deliberata e diretta, comunque venga attuata, di un
essere umano nella fase iniziale della sua esistenza, compresa tra il
concepimento e la nascita.
La
gravità morale dell'aborto procurato appare in tutta la sua verità se si
riconosce che si tratta di un omicidio e, in particolare, se si considerano le
circostanze specifiche che lo qualificano. Chi viene soppresso è un essere
umano che si affaccia alla vita, ossia quanto di più innocente
in assoluto si possa immaginare: mai potrebbe essere considerato un
aggressore, meno che mai un ingiusto aggressore! È debole,
inerme, al punto di essere privo anche di quella minima forma di difesa che
è costituita dalla forza implorante dei gemiti e del pianto del neonato. È totalmente
affidato alla protezione e alle cure di colei che lo porta in grembo.
Eppure, talvolta, è proprio lei, la mamma, a deciderne e a chiederne la
soppressione e persino a procurarla.
È
vero che molte volte la scelta abortiva riveste per la madre carattere
drammatico e doloroso, in quanto la decisione di disfarsi del frutto del
concepimento non viene presa per ragioni puramente egoistiche e di comodo, ma
perché si vorrebbero salvaguardare alcuni importanti beni, quali la propria
salute o un livello dignitoso di vita per gli altri membri della famiglia.
Talvolta si temono per il nascituro condizioni di esistenza tali da far pensare
che per lui sarebbe meglio non nascere. Tuttavia, queste e altre simili ragioni,
per quanto gravi e drammatiche, non
possono mai giustificare la soppressione deliberata di un essere umano
innocente.
59.
A decidere della morte del bambino non ancora nato, accanto alla madre, ci sono
spesso altre persone. Anzitutto, può essere colpevole il padre del bambino, non
solo quando espressamente spinge la donna all'aborto, ma anche quando
indirettamente favorisce tale sua decisione perché la lascia sola di fronte ai
problemi della gravidanza: 55 in tal modo la famiglia viene mortalmente ferita e
profanata nella sua natura di comunità di amore e nella sua vocazione ad essere
« santuario della vita ». Né vanno taciute le sollecitazioni che a volte
provengono dal più ampio contesto familiare e dagli amici. Non di rado la donna
è sottoposta a pressioni talmente forti da sentirsi psicologicamente costretta
a cedere all'aborto: non v'è dubbio che in questo caso la responsabilità
morale grava particolarmente su quelli che direttamente o indirettamente l'hanno
forzata ad abortire. Responsabili sono pure i medici e il personale sanitario,
quando mettono a servizio della morte la competenza acquisita per promuovere la
vita.
Ma
la responsabilità coinvolge anche i legislatori, che hanno promosso e approvato
leggi abortive e, nella misura in cui la cosa dipende da loro, gli
amministratori delle strutture sanitarie utilizzate per praticare gli aborti.
Una responsabilità generale non meno grave riguarda sia quanti hanno favorito
il diffondersi di una mentalità di permissivismo sessuale e disistima della
maternità, sia coloro che avrebbero dovuto assicurare — e non l'hanno fatto
— valide politiche familiari e sociali a sostegno delle famiglie, specialmente
di quelle numerose o con particolari difficoltà economiche ed educative. Non si
può infine sottovalutare la rete di complicità che si allarga fino a
comprendere istituzioni internazionali, fondazioni e associazioni che si battono
sistematicamente per la legalizzazione e la diffusione dell'aborto nel mondo. In
tal senso l'aborto va oltre la responsabilità delle singole persone e il danno
loro arrecato, assumendo una dimensione fortemente sociale: è una ferita
gravissima inferta alla società e alla sua cultura da quanti dovrebbero
esserne i costruttori e i difensori. Come ho scritto nella mia Lettera
alle Famiglie, « ci troviamo di fronte ad un'enorme minaccia contro la
vita, non solo di singoli individui, ma anche dell'intera civiltà ».56 Ci
troviamo di fronte a quella che può definirsi una
« struttura di peccato » contro la vita umana non ancora nata.
60.
Alcuni tentano di giustificare l'aborto sostenendo che il frutto del
concepimento, almeno fin a un certo numero di giorni, non può essere ancora
considerato una vita umana personale. In realtà, « dal momento in cui l'ovulo
è fecondato, si inaugura una vita che non è quella del padre o della madre, ma
di un nuovo essere umano che si sviluppa per proprio conto. Non sarà mai reso
umano se non lo è stato fin da allora. A questa evidenza di sempre... la
scienza genetica moderna fornisce preziose conferme. Essa ha mostrato come dal
primo istante si trovi fissato il programma di ciò che sarà questo vivente:
una persona, questa persona individua con le sue note caratteristiche già ben
determinate. Fin dalla fecondazione è iniziata l'avventura di una vita umana,
di cui ciascuna delle grandi capacità richiede tempo, per impostarsi e per
trovarsi pronta ad agire ».57 Anche se la presenza di un'anima spirituale non
può essere rilevata dall'osservazione di nessun dato sperimentale, sono le
stesse conclusioni della scienza sull'embrione umano a fornire « un'indicazione
preziosa per discernere razionalmente una presenza personale fin da questo primo
comparire di una vita umana: come un individuo umano non sarebbe una persona
umana? ».58
Del
resto, tale è la posta in gioco che, sotto il profilo dell'obbligo morale,
basterebbe la sola probabilità di trovarsi di fronte a una persona per
giustificare la più netta proibizione di ogni intervento volto a sopprimere
l'embrione umano. Proprio per questo, al di là dei dibattiti scientifici e
delle stesse affermazioni filosofiche nelle quali il Magistero non si è
espressamente impegnato, la Chiesa ha sempre insegnato, e tuttora insegna, che
al frutto della generazione umana, dal primo momento della sua esistenza, va
garantito il rispetto incondizionato che è moralmente dovuto all'essere umano
nella sua totalità e unità corporale e spirituale: « L'essere
umano va rispettato e trattato come una persona fin dal suo concepimento e,
pertanto, da quello stesso momento gli si devono riconoscere i diritti della
persona, tra i quali anzitutto il diritto inviolabile di ogni essere umano
innocente alla vita ».59
61.
I testi della Sacra Scrittura, che non parlano mai di aborto volontario e quindi
non presentano condanne dirette e specifiche in proposito, mostrano una tale
considerazione dell'essere umano nel grembo materno, da esigere come logica
conseguenza che anche ad esso si estenda il comandamento di Dio: « non uccidere
».
La
vita umana è sacra e inviolabile in ogni momento della sua esistenza, anche in
quello iniziale che precede la nascita. L'uomo, fin dal grembo materno,
appartiene a Dio che tutto scruta e conosce, che lo forma e lo plasma con le sue
mani, che lo vede mentre è ancora un piccolo embrione informe e che in lui
intravede l'adulto di domani i cui giorni sono contati e la cui vocazione è già
scritta nel « libro della vita » (cf. Sal
139/138, 1.13-16). Anche lì, quando è ancora nel grembo materno, — come
testimoniano numerosi testi biblici 60 — l'uomo è il termine personalissimo
dell'amorosa e paterna provvidenza di Dio.
La
Tradizione cristiana — come ben
rileva la Dichiarazione emanata al
riguardo dalla Congregazione per la Dottrina della Fede 61 — è chiara e
unanime, dalle origini fino ai nostri giorni, nel qualificare l'aborto come
disordine morale particolarmente grave. Fin dal suo primo confronto con il mondo
greco-romano, nel quale erano ampiamente praticati l'aborto e l'infanticidio, la
comunità cristiana si è radicalmente opposta, con la sua dottrina e con la sua
prassi, ai costumi diffusi in quella società, come dimostra la già citata Didachè.62
Tra gli scrittori ecclesiastici di area greca, Atenagora ricorda che i cristiani
considerano come omicide le donne che fanno ricorso a medicine abortive, perché
i bambini, anche se ancora nel seno della madre, « sono già l'oggetto delle
cure della Provvidenza divina ».63 Tra i latini, Tertulliano afferma: « È un
omicidio anticipato impedire di nascere; poco importa che si sopprima l'anima già
nata o che la si faccia scomparire nel nascere. È già un uomo colui che lo sarà
».64
Lungo
la sua storia ormai bimillenaria, questa medesima dottrina è stata
costantemente insegnata dai Padri della Chiesa, dai suoi Pastori e Dottori.
Anche le discussioni di carattere scientifico e filosofico circa il momento
preciso dell'infusione dell'anima spirituale non hanno mai comportato alcuna
esitazione circa la condanna morale dell'aborto.
62.
Il più recente Magistero pontificio ha ribadito con grande vigore questa dottrina
comune. In particolare Pio XI nell'Enciclica Casti connubii ha respinto le pretestuose giustificazioni
dell'aborto; 65 Pio XII ha escluso ogni aborto diretto, cioè ogni atto che
tende direttamente a distruggere la vita umana non ancora nata, « sia che tale
distruzione venga intesa come fine o soltanto come mezzo al fine »; 66 Giovanni
XXIII ha riaffermato che la vita umana è sacra, perché « fin dal suo
affiorare impegna direttamente l'azione creatrice di Dio ».67 Il Concilio
Vaticano II, come già ricordato, ha condannato con grande severità l'aborto:
« La vita, una volta concepita, deve essere protetta con la massima cura; e
l'aborto come l'infanticidio sono abominevoli delitti ».68
La
disciplina canonica della Chiesa, fin
dai primi secoli, ha colpito con sanzioni penali coloro che si macchiavano della
colpa dell'aborto e tale prassi, con pene più o meno gravi, è stata confermata
nei vari periodi storici. Il Codice di
Diritto Canonico del 1917 comminava per l'aborto la pena della scomunica.69
Anche la rinnovata legislazione canonica si pone in questa linea quando sancisce
che « chi procura l'aborto ottenendo l'effetto incorre nella scomunica latae sententiae »,70 cioè automatica. La scomunica colpisce tutti
coloro che commettono questo delitto conoscendo la pena, inclusi anche quei
complici senza la cui opera esso non sarebbe stato realizzato: 71 con tale
reiterata sanzione, la Chiesa addita questo delitto come uno dei più gravi e
pericolosi, spingendo così chi lo commette a ritrovare sollecitamente la strada
della conversione. Nella Chiesa, infatti, la pena della scomunica è finalizzata
a rendere pienamente consapevoli della gravità di un certo peccato e a favorire
quindi un'adeguata conversione e penitenza.
Di
fronte a una simile unanimità nella tradizione dottrinale e disciplinare della
Chiesa, Paolo VI ha potuto dichiarare che tale insegnamento non è mutato ed è
immutabile.72 Pertanto, con l'autorità che Cristo ha conferito a Pietro e ai
suoi Successori, in comunione con i Vescovi — che a varie riprese hanno
condannato l'aborto e che nella consultazione precedentemente citata, pur
dispersi per il mondo, hanno unanimemente consentito circa questa dottrina — dichiaro che l'aborto diretto, cioè voluto come fine o come mezzo,
costituisce sempre un disordine morale grave, in quanto uccisione deliberata
di un essere umano innocente. Tale dottrina è fondata sulla legge naturale e
sulla Parola di Dio scritta, è trasmessa dalla Tradizione della Chiesa ed
insegnata dal Magistero ordinario e universale.73
Nessuna
circostanza, nessuna finalità, nessuna legge al mondo potrà mai rendere lecito
un atto che è intrinsecamente illecito, perché contrario alla Legge di Dio,
scritta nel cuore di ogni uomo, riconoscibile dalla ragione stessa, e proclamata
dalla Chiesa.
63.
La valutazione morale dell'aborto è da applicare anche alle recenti forme di intervento
sugli embrioni umani che, pur mirando a scopi in sé legittimi, ne
comportano inevitabilmente l'uccisione. È il caso della sperimentazione sugli embrioni, in crescente espansione nel campo
della ricerca biomedica e legalmente ammessa in alcuni Stati. Se « si devono
ritenere leciti gli interventi sull'embrione umano a patto che rispettino la
vita e l'integrità dell'embrione, non comportino per lui rischi sproporzionati,
ma siano finalizzati alla sua guarigione, al miglioramento delle sue condizioni
di salute o alla sua sopravvivenza individuale »,74 si deve invece affermare
che l'uso degli embrioni o dei feti umani come oggetto di sperimentazione
costituisce un delitto nei riguardi della loro dignità di esseri umani, che
hanno diritto al medesimo rispetto dovuto al bambino già nato e ad ogni
persona.75
La
stessa condanna morale riguarda anche il procedimento che sfrutta gli embrioni e
i feti umani ancora vivi — talvolta « prodotti » appositamente per questo
scopo mediante la fecondazione in vitro — sia come « materiale biologico »
da utilizzare sia come fornitori di organi o di tessuti da trapiantare per la cura di
alcune malattie. In realtà, l'uccisione di creature umane innocenti, seppure a
vantaggio di altre, costituisce un atto assolutamente inaccettabile.
Una
speciale attenzione deve essere riservata alla valutazione morale delle tecniche
diagnostiche prenatali, che permettono di individuare precocemente eventuali
anomalie del nascituro. Infatti, per la complessità di queste tecniche, tale
valutazione deve farsi più accurata e articolata. Quando sono esenti da rischi
sproporzionati per il bambino e per la madre e sono ordinate a rendere possibile
una terapia precoce o anche a favorire una serena e consapevole accettazione del
nascituro, queste tecniche sono moralmente lecite. Dal momento però che le
possibilità di cura prima della nascita sono oggi ancora ridotte, accade non
poche volte che queste tecniche siano messe al servizio di una mentalità
eugenetica, che accetta l'aborto selettivo, per impedire la nascita di bambini
affetti da vari tipi di anomalie. Una simile mentalità è ignominiosa e quanto
mai riprovevole, perché pretende di misurare il valore di una vita umana
soltanto secondo parametri di « normali- tà » e di benessere fisico, aprendo
così la strada alla legittimazione anche dell'infanticidio e dell'eutanasia.
In
realtà, però, proprio il coraggio e la serenità con cui tanti nostri
fratelli, affetti da gravi menomazioni, conducono la loro esistenza quando sono
da noi accettati ed amati, costituiscono una testimonianza particolarmente
efficace dei valori autentici che qualificano la vita e che la rendono, anche in
condizioni di difficoltà, preziosa per sé e per gli altri. La Chiesa è vicina
a quei coniugi che, con grande ansia e sofferenza, accettano di accogliere i
loro bambini gravemente colpiti da handicap, così come è grata a tutte quelle
famiglie che, con l'adozione, accolgono quanti sono stati abbandonati dai loro
genitori a motivo di menomazioni o malattie.
«
Sono io che do la morte e faccio vivere »
(Dt
32, 39): il dramma dell'eutanasia
64.
All'altro capo dell'esistenza, l'uomo si trova posto di fronte al mistero della
morte. Oggi, in seguito ai progressi della medicina e in un contesto culturale
spesso chiuso alla trascendenza, l'esperienza del morire si presenta con alcune
caratteristiche nuove. Infatti, quando prevale la tendenza ad apprezzare la vita
solo nella misura in cui porta piacere e benessere, la sofferenza appare come
uno scacco insopportabile, di cui occorre liberarsi ad ogni costo. La morte,
considerata « assurda » se interrompe improvvisamente una vita ancora aperta a
un futuro ricco di possibili esperienze interessanti, diventa invece una «
liberazione rivendicata » quando l'esistenza è ritenuta ormai priva di senso
perché immersa nel dolore e inesorabilmente votata ad un'ulteriore più acuta
sofferenza.
Inoltre,
rifiutando o dimenticando il suo fondamentale rapporto con Dio, l'uomo pensa di
essere criterio e norma a se stesso e ritiene di avere il diritto di chiedere
anche alla società di garantirgli possibilità e modi di decidere della propria
vita in piena e totale autonomia. È, in particolare, l'uomo che vive nei Paesi
sviluppati a comportarsi così: egli si sente spinto a ciò anche dai continui
progressi della medicina e dalle sue tecniche sempre più avanzate. Mediante
sistemi e apparecchiature estremamente sofisticati, la scienza e la pratica
medica sono oggi in grado non solo di risolvere casi precedentemente insolubili
e di lenire o eliminare il dolore, ma anche di sostenere e protrarre la vita
perfino in situazioni di debolezza estrema, di rianimare artificialmente persone
le cui funzioni biologiche elementari hanno subito tracolli improvvisi, di
intervenire per rendere disponibili organi da trapiantare.
In
un tale contesto si fa sempre più forte la tentazione dell'eutanasia,
cioè di impadronirsi della morte,
procurandola in anticipo e ponendo così fine « dolcemente » alla vita
propria o altrui. In realtà, ciò che potrebbe sembrare logico e umano, visto
in profondità si presenta assurdo e
disumano. Siamo qui di fronte a uno dei sintomi più allarmanti della «
cultura di morte », che avanza soprattutto nelle società del benessere,
caratterizzate da una mentalità efficientistica che fa apparire troppo oneroso
e insopportabile il numero crescente delle persone anziane e debilitate. Esse
vengono molto spesso isolate dalla famiglia e dalla società, organizzate quasi
esclusivamente sulla base di criteri di efficienza produttiva, secondo i quali
una vita irrimediabilmente inabile non ha più alcun valore.
65.
Per un corretto giudizio morale sull'eutanasia, occorre innanzitutto chiaramente
definirla. Per eutanasia in senso vero e
proprio si deve intendere un'azione o un'omissione che di natura sua e nelle
intenzioni procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore. « L'eutanasia
si situa, dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati ».76
Da
essa va distinta la decisione di rinunciare al cosiddetto « accanimento
terapeutico », ossia a certi interventi medici non più adeguati alla reale
situazione del malato, perché ormai sproporzionati ai risultati che si
potrebbero sperare o anche perché troppo gravosi per lui e per la sua famiglia.
In queste situazioni, quando la morte si preannuncia imminente e inevitabile, si
può in coscienza « rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un
prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure
normali dovute all'ammalato in simili casi ».77 Si dà certamente l'obbligo
morale di curarsi e di farsi curare, ma tale obbligo deve misurarsi con le
situazioni concrete; occorre cioè valutare se i mezzi terapeutici a
disposizione siano oggettivamente proporzionati rispetto alle prospettive di
miglioramento. La rinuncia a mezzi straordinari o sproporzionati non equivale al
suicidio o all'eutanasia; esprime piuttosto l'accettazione della condizione
umana di fronte alla morte.78
Nella
medicina moderna vanno acquistando rilievo particolare le cosiddette « cure
palliative », destinate a rendere più sopportabile la sofferenza nella
fase finale della malattia e ad assicurare al tempo stesso al paziente un
adeguato accompagnamento umano. In questo contesto sorge, tra gli altri, il
problema della liceità del ricorso ai diversi tipi di analgesici e sedativi per
sollevare il malato dal dolore, quando ciò comporta il rischio di abbreviargli
la vita. Se, infatti, può essere considerato degno di lode chi accetta
volontariamente di soffrire rinunciando a interventi antidolorifici per
conservare la piena lucidità e partecipare, se credente, in maniera consapevole
alla passione del Signore, tale comportamento « eroico » non può essere
ritenuto doveroso per tutti. Già Pio XII aveva affermato che è lecito
sopprimere il dolore per mezzo di narcotici, pur con la conseguenza di limitare
la coscienza e di abbreviare la vita, « se non esistono altri mezzi e se, nelle
date circostanze, ciò non impedisce l'adempimento di altri doveri religiosi e
morali ».79 In questo caso, infatti, la morte non è voluta o ricercata,
nonostante che per motivi ragionevoli se ne corra il rischio: semplicemente si
vuole lenire il dolore in maniera efficace, ricorrendo agli analgesici messi a
disposizione dalla medicina. Tuttavia, « non si deve privare il moribondo della
coscienza di sé senza grave motivo »: 80 avvicinandosi alla morte, gli uomini
devono essere in grado di poter soddisfare ai loro obblighi morali e familiari e
soprattutto devono potersi preparare con piena coscienza all'incontro definitivo
con Dio.
Fatte
queste distinzioni, in conformità con il Magistero dei miei Predecessori 81 e
in comunione con i Vescovi della Chiesa cattolica, confermo
che l'eutanasia è una grave violazione della Legge di Dio, in quanto
uccisione deliberata moralmente inaccettabile di una persona umana. Tale
dottrina è fondata sulla legge naturale e sulla Parola di Dio scritta, è
trasmessa dalla Tradizione della Chiesa ed insegnata dal Magistero ordinario e
universale.82
Una
tale pratica comporta, a seconda delle circostanze, la malizia propria del
suicidio o dell'omicidio.
66.
Ora, il suicidio è sempre moralmente inaccettabile quanto l'omicidio. La
tradizione della Chiesa l'ha sempre respinto come scelta gravemente cattiva.83
Benché determinati condizionamenti psicologici, culturali e sociali possano
portare a compiere un gesto che contraddice così radicalmente l'innata
inclinazione di ognuno alla vita, attenuando o annullando la responsabilità
soggettiva, il suicidio, sotto il profilo oggettivo, è un atto gravemente
immorale, perché comporta il rifiuto dell'amore verso se stessi e la rinuncia
ai doveri di giustizia e di carità verso il prossimo, verso le varie comunità
di cui si fa parte e verso la società nel suo insieme.84 Nel suo nucleo più
profondo, esso costituisce un rifiuto della sovranità assoluta di Dio sulla
vita e sulla morte, così proclamata nella preghiera dell'antico saggio di
Israele: « Tu hai potere sulla vita e sulla morte; conduci giù alle porte
degli inferi e fai risalire » (Sap 16,
13; cf. Tb 13, 2).
Condividere
l'intenzione suicida di un altro e aiutarlo a realizzarla mediante il cosiddetto
« suicidio assistito » significa farsi collaboratori, e qualche volta attori
in prima persona, di un'ingiustizia, che non può mai essere giustificata,
neppure quando fosse richiesta. « Non è mai lecito — scrive con sorprendente
attualità sant'Agostino — uccidere un altro: anche se lui lo volesse, anzi se
lo chiedesse perché, sospeso tra la vita e la morte, supplica di essere aiutato
a liberare l'anima che lotta contro i legami del corpo e desidera distaccarsene;
non è lecito neppure quando il malato non fosse più in grado di vivere ».85
Anche se non motivata dal rifiuto egoistico di farsi carico dell'esistenza di
chi soffre, l'eutanasia deve dirsi una falsa
pietà, anzi una preoccupante « perversione » di essa: la vera «
compassione », infatti, rende solidale col dolore altrui, non sopprime colui
del quale non si può sopportare la sofferenza. E tanto più perverso appare il
gesto dell'eutanasia se viene compiuto da coloro che — come i parenti —
dovrebbero assistere con pazienza e con amore il loro congiunto o da quanti —
come i medici —, per la loro specifica professione, dovrebbero curare il
malato anche nelle condizioni terminali più penose.
La
scelta dell'eutanasia diventa più grave quando si configura come un omicidio
che gli altri praticano su una persona che non l'ha richiesta in nessun modo
e che non ha mai dato ad essa alcun consenso. Si raggiunge poi il colmo
dell'arbitrio e dell'ingiustizia quando alcuni, medici o legislatori, si
arrogano il potere di decidere chi debba vivere e chi debba morire. Si ripropone
così la tentazione dell'Eden: diventare come Dio « conoscendo il bene e il
male » (cf. Gn 3, 5). Ma Dio solo ha
il potere di far morire e di far vivere: « Sono io che do la morte e faccio
vivere » (Dt 32, 39; cf. 2 Re 5, 7; 1 Sam 2, 6).
Egli attua il suo potere sempre e solo secondo un disegno di sapienza e di
amore. Quando l'uomo usurpa tale potere, soggiogato da una logica di stoltezza e
di egoismo, inevitabilmente lo usa per l'ingiustizia e per la morte.
Così
la vita del più debole è messa nelle mani del più forte; nella società si
perde il senso della giustizia ed è minata alla radice la fiducia reciproca,
fondamento di ogni autentico rapporto tra le persone.
67.
Ben diversa, invece, è la via dell'amore
e della vera pietà, che la nostra comune umanità impone e che la fede in
Cristo Redentore, morto e risorto, illumina con nuove ragioni. La domanda che
sgorga dal cuore dell'uomo nel confronto supremo con la sofferenza e la morte,
specialmente quando è tentato di ripiegarsi nella disperazione e quasi di
annientarsi in essa, è soprattutto domanda di compagnia, di solidarietà e di
sostegno nella prova. È richiesta di aiuto per continuare a sperare, quando
tutte le speranze umane vengono meno. Come ci ha ricordato il Concilio Vaticano
II, « in faccia alla morte l'enigma della condizione umana diventa sommo » per
l'uomo; e tuttavia « l'istinto del cuore lo fa giudicare rettamente, quando
aborrisce e respinge l'idea di una totale rovina e di un annientamento
definitivo della sua persona. Il germe dell'eternità che porta in sé,
irriducibile com'è alla sola materia, insorge contro la morte ».86
Questa
naturale ripugnanza per la morte e questa germinale speranza di immortalità
sono illuminate e portate a compimento dalla fede cristiana, che promette e
offre la partecipazione alla vittoria del Cristo Risorto: è la vittoria di
Colui che, mediante la sua morte redentrice, ha liberato l'uomo dalla morte, «
salario del peccato » (Rm 6, 23), e gli ha donato lo Spirito, pegno di risurrezione e di
vita (cf. Rm 8, 11). La certezza
dell'immortalità futura e la speranza
nella risurrezione promessa proiettano una luce nuova sul mistero del
soffrire e del morire e infondono nel credente una forza straordinaria per
affidarsi al disegno di Dio.
L'apostolo
Paolo ha espresso questa novità nei termini di un'appartenenza totale al
Signore che abbraccia qualsiasi condizione umana: « Nessuno di noi vive per se
stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il
Signore; se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che
moriamo, siamo dunque del Signore » (Rm 14,
7-8). Morire per il Signore significa vivere la propria morte come atto
supremo di obbedienza al Padre (cf. Fil 2,
8), accettando di incontrarla nell'« ora » voluta e scelta da lui (cf. Gv
13, 1), che solo può dire quando il cammino terreno è compiuto. Vivere
per il Signore significa anche riconoscere che la sofferenza, pur restando
in se stessa un male e una prova, può sempre diventare sorgente di bene. Lo
diventa se viene vissuta per amore e con amore, nella partecipazione, per dono
gratuito di Dio e per libera scelta personale, alla sofferenza stessa di Cristo
crocifisso. In tal modo, chi vive la sua sofferenza nel Signore viene più
pienamente conformato a lui (cf. Fil 3,
10; 1 Pt 2, 21) e intimamente
associato alla sua opera redentrice a favore della Chiesa e dell'umanità.87 È
questa l'esperienza dell'Apostolo, che anche ogni persona che soffre è chiamata
a rivivere: « Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella
mia carne quello che manca alle tribolazioni di Cristo nella mia carne, a favore
del suo corpo che è la Chiesa » (Col 1,
24).
«
Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini »
(At
5, 29): la legge civile e la legge morale
68.
Una delle caratteristiche proprie degli attuali attentati alla vita umana —
come si è già detto più volte — consiste nella tendenza ad esigere una loro
legittimazione giuridica, quasi
fossero diritti che lo Stato, almeno a certe condizioni, deve riconoscere ai
cittadini e, conseguentemente, nella tendenza a pretendere la loro attuazione
con l'assistenza sicura e gratuita dei medici e degli operatori sanitari.
Si
pensa non poche volte che la vita di chi non è ancora nato o è gravemente
debilitato sia un bene solo relativo: secondo una logica proporzionalista o di
puro calcolo, dovrebbe essere confrontata e soppesata con altri beni. E si
ritiene pure che solo chi si trova nella situazione concreta e vi è
personalmente coinvolto possa compiere una giusta ponderazione dei beni in
gioco: di conseguenza, solo lui potrebbe decidere della moralità della sua
scelta. Lo Stato, perciò, nell'interesse della convivenza civile e dell'armonia
sociale, dovrebbe rispettare questa scelta, giungendo anche ad ammettere
l'aborto e l'eutanasia.
Si
pensa, altre volte, che la legge civile non possa esigere che tutti i cittadini
vivano secondo un grado di moralità più elevato di quello che essi stessi
riconoscono e condividono. Per questo la legge dovrebbe sempre esprimere
l'opinione e la volontà della maggioranza dei cittadini e riconoscere loro,
almeno in certi casi estremi, anche il diritto all'aborto e all'eutanasia. Del
resto, la proibizione e la punizione dell'aborto e dell'eutanasia in questi casi
condurrebbero inevitabilmente — così si dice — ad un aumento di pratiche
illegali: esse, peraltro, non sarebbero soggette al necessario controllo sociale
e verrebbero attuate senza la dovuta sicurezza medica. Ci si chiede, inoltre, se
sostenere una legge concretamente non applicabile non significhi, alla fine,
minare anche l'autorità di ogni altra legge.
Nelle
opinioni più radicali, infine, si giunge a sostenere che, in una società
moderna e pluralistica, dovrebbe essere riconosciuta a ogni persona piena
autonomia di disporre della propria vita e della vita di chi non è ancora nato:
non spetterebbe, infatti, alla legge la scelta tra le diverse opinioni morali e,
tanto meno, essa potrebbe pretendere di imporne una particolare a svantaggio
delle altre.
69.
In ogni caso, nella cultura democratica del nostro tempo si è largamente
diffusa l'opinione secondo la quale l'ordinamento giuridico di una società
dovrebbe limitarsi a registrare e recepire le convinzioni della maggioranza e,
pertanto, dovrebbe costruirsi solo su quanto la maggioranza stessa riconosce e
vive come morale. Se poi si ritiene addirittura che una verità comune e
oggettiva sia di fatto inaccessibile, il rispetto della libertà dei cittadini
— che in un regime democratico sono ritenuti i veri sovrani — esigerebbe
che, a livello legislativo, si riconosca l'autonomia delle singole coscienze e
quindi, nello stabilire quelle norme che in ogni caso sono necessarie alla
convivenza sociale, ci si adegui esclusivamente alla volontà della maggioranza,
qualunque essa sia. In tal modo, ogni politico, nella sua azione, dovrebbe
separare nettamente l'ambito della coscienza privata da quello del comportamento
pubblico.
Si
registrano, di conseguenza, due tendenze, in apparenza diametralmente opposte.
Da un lato, i singoli individui rivendicano per sé la più completa autonomia
morale di scelta e chiedono che lo Stato non faccia propria e non imponga
nessuna concezione etica, ma si limiti a garantire lo spazio più ampio
possibile alla libertà di ciascuno, con l'unico limite esterno di non ledere lo
spazio di autonomia al quale anche ogni altro cittadino ha diritto. Dall'altro
lato, si pensa che, nell'esercizio delle funzioni pubbliche e professionali, il
rispetto dell'altrui libertà di scelta imponga a ciascuno di prescindere dalle
proprie convinzioni per mettersi a servizio di ogni richiesta dei cittadini, che
le leggi riconoscono e tutelano, accettando come unico criterio morale per
l'esercizio delle proprie funzioni quanto è stabilito da quelle medesime leggi.
In questo modo la responsabilità della persona viene delegata alla legge
civile, con un'abdicazione alla propria coscienza morale almeno nell'ambito
dell'azione pubblica.
70.
Comune radice di tutte queste tendenze è il relativismo
etico che contraddistingue tanta parte della cultura contemporanea. Non
manca chi ritiene che tale relativismo sia una condizione della democrazia, in
quanto solo esso garantirebbe tolleranza, rispetto reciproco tra le persone, e
adesione alle decisioni della maggioranza, mentre le norme morali, considerate
oggettive e vincolanti, porterebbero all'autoritarismo e all'intolleranza.
Ma
è proprio la problematica del rispetto della vita a mostrare quali equivoci e
contraddizioni, accompagnati da terribili esiti pratici, si celino in questa
posizione.
È
vero che la storia registra casi in cui si sono commessi dei crimini in nome
della « verità ». Ma crimini non meno gravi e radicali negazioni della libertà
si sono commessi e si commettono anche in nome del « relativismo etico ».
Quando una maggioranza parlamentare o sociale decreta la legittimità della
soppressione, pur a certe condizioni, della vita umana non ancora nata, non
assume forse una decisione « tirannica » nei confronti dell'essere umano più
debole e indifeso? La coscienza universale giustamente reagisce nei confronti
dei crimini contro l'umanità di cui il nostro secolo ha fatto così tristi
esperienze. Forse che questi crimini cesserebbero di essere tali se, invece di
essere commessi da tiranni senza scrupoli, fossero legittimati dal consenso
popolare?
In
realtà, la democrazia non può essere mitizzata fino a farne un surrogato della
moralità o un toccasana dell'immoralità. Fondamentalmente, essa è un «
ordinamento » e, come tale, uno strumento e non un fine. Il suo carattere «
morale » non è automatico, ma dipende dalla conformità alla legge morale a
cui, come ogni altro comportamento umano, deve sottostare: dipende cioè dalla
moralità dei fini che persegue e dei mezzi di cui si serve. Se oggi si registra
un consenso pressoché universale sul valore della democrazia, ciò va
considerato un positivo « segno dei tempi », come anche il Magistero della
Chiesa ha più volte rilevato.88 Ma il valore della democrazia sta o cade con i
valori che essa incarna e promuove: fondamentali e imprescindibili sono
certamente la dignità di ogni persona umana, il rispetto dei suoi diritti
intangibili e inalienabili, nonché l'assunzione del « bene comune » come fine
e criterio regolativo della vita politica.
Alla
base di questi valori non possono esservi provvisorie e mutevoli « maggioranze
» di opinione, ma solo il riconoscimento di una legge morale obiettiva che, in
quanto « legge naturale » iscritta nel cuore dell'uomo, è punto di
riferimento normativo della stessa legge civile. Quando, per un tragico
oscuramento della coscienza collettiva, lo scetticismo giungesse a porre in
dubbio persino i principi fondamentali della legge morale, lo stesso ordinamento
democratico sarebbe scosso nelle sue fondamenta, riducendosi a un puro
meccanismo di regolazione empirica dei diversi e contrapposti interessi.89
Qualcuno
potrebbe pensare che anche una tale funzione, in mancanza di meglio, sia da
apprezzare ai fini della pace sociale. Pur riconoscendo un qualche aspetto di
verità in una tale valutazione, è difficile non vedere che, senza un
ancoraggio morale obiettivo, neppure la democrazia può assicurare una pace
stabile, tanto più che la pace non misurata sui valori della dignità di ogni
uomo e della solidarietà tra tutti gli uomini è non di rado illusoria. Negli
stessi regimi partecipativi, infatti, la regolazione degli interessi avviene
spesso a vantaggio dei più forti, essendo essi i più capaci di manovrare non
soltanto le leve del potere, ma anche la formazione del consenso. In una tale
situazione, la democrazia diventa facilmente una parola vuota.
71.
Urge dunque, per l'avvenire della società e lo sviluppo di una sana democrazia,
riscoprire l'esistenza di valori umani e morali essenziali e nativi, che
scaturiscono dalla verità stessa dell'essere umano ed esprimono e tutelano la
dignità della persona: valori, pertanto, che nessun individuo, nessuna
maggioranza e nessuno Stato potranno mai creare, modificare o distruggere, ma
dovranno solo riconoscere, rispettare e promuovere.
Occorre
riprendere, in tal senso, gli elementi
fondamentali della visione dei rapporti tra legge civile e legge morale, quali
sono proposti dalla Chiesa, ma che pure fanno parte del patrimonio delle grandi
tradizioni giuridiche dell'umanità.
Certamente,
il compito della legge civile è diverso e di ambito più limitato
rispetto a quello della legge morale. Però « in nessun ambito di vita la legge
civile può sostituirsi alla coscienza né può dettare norme su ciò che esula
dalla sua competenza »,90 che è quella di assicurare il bene comune delle
persone, attraverso il riconoscimento e la difesa dei loro fondamentali diritti,
la promozione della pace e della pubblica moralità.91 Il compito della legge
civile consiste, infatti, nel garantire un'ordinata convivenza sociale nella
vera giustizia, perché tutti « possiamo trascorrere una vita calma e
tranquilla con tutta pietà e dignità » (1
Tm 2, 2). Proprio per questo, la legge civile deve assicurare per tutti i
membri della società il rispetto di alcuni diritti fondamentali, che
appartengono nativamente alla persona e che qualsiasi legge positiva deve
riconoscere e garantire. Primo e fondamentale tra tutti è l'inviolabile diritto
alla vita di ogni essere umano innocente. Se la pubblica autorità può talvolta
rinunciare a reprimere quanto provocherebbe, se proibito, un danno più grave,92
essa non può mai accettare però di legittimare, come diritto dei singoli —
anche se questi fossero la maggioranza dei componenti la società —, l'offesa
inferta ad altre persone attraverso il misconoscimento di un loro diritto così
fondamentale come quello alla vita. La tolleranza legale dell'aborto o
dell'eutanasia non può in alcun modo richiamarsi al rispetto della coscienza
degli altri, proprio perché la società ha il diritto e il dovere di tutelarsi
contro gli abusi che si possono verificare in nome della coscienza e sotto il
pretesto della libertà.93
Nell'Enciclica
Pacem in terris, Giovanni XXIII aveva ricordato in proposito: «
Nell'epoca moderna l'attuazione del bene comune trova la sua indicazione di
fondo nei diritti e nei doveri della persona. Per cui i compiti precipui dei
poteri pubblici consistono, soprattutto, nel riconoscere, rispettare, comporre,
tutelare e promuovere quei diritti; e nel contribuire, di conseguenza, a rendere
più facile l'adempimento dei rispettivi doveri. "Tutelare l'intangibile
campo dei diritti della persona umana e renderle agevole il compimento dei suoi
doveri vuol essere ufficio essenziale di ogni pubblico potere". Per cui
ogni atto dei poteri pubblici, che sia o implichi un misconoscimento o una
violazione di quei diritti, è un atto contrastante con la loro stessa ragion
d'essere e rimane per ciò stesso destituito d'ogni valore giuridico ».94
72.
In continuità con tutta la tradizione della Chiesa è anche la dottrina sulla
necessaria conformità della legge civile con la legge morale, come appare,
ancora una volta, dall'enciclica citata di Giovanni XXIII: « L'autorità è
postulata dall'ordine morale e deriva da Dio. Qualora pertanto le sue leggi o
autorizzazioni siano in contrasto con quell'ordine, e quindi in contrasto con la
volontà di Dio, esse non hanno forza di obbligare la coscienza...; in tal caso,
anzi, chiaramente l'autorità cessa di essere tale e degenera in sopruso ».95
È questo il limpido insegnamento di san Tommaso d'Aquino, che tra l'altro
scrive: « La legge umana in tanto è tale in quanto è conforme alla retta
ragione e quindi deriva dalla legge eterna. Quando invece una legge è in
contrasto con la ragione, la si denomina legge iniqua; in tal caso però cessa
di essere legge e diviene piuttosto un atto di violenza ».96 E ancora: « Ogni
legge posta dagli uomini in tanto ha ragione di legge in quanto deriva dalla
legge naturale. Se invece in qualche cosa è in contrasto con la legge naturale,
allora non sarà legge bensì corruzione della legge ».97
Ora
la prima e più immediata applicazione di questa dottrina riguarda la legge
umana che misconosce il diritto fondamentale e fontale alla vita, diritto
proprio di ogni uomo. Così le leggi che, con l'aborto e l'eutanasia,
legittimano la soppressione diretta di esseri umani innocenti sono in totale e
insanabile contraddizione con il diritto inviolabile alla vita proprio di tutti
gli uomini e negano, pertanto, l'uguaglianza di tutti di fronte alla legge. Si
potrebbe obiettare che tale non è il caso dell'eutanasia, quando essa è
richiesta in piena coscienza dal soggetto interessato. Ma uno Stato che
legittimasse tale richiesta e ne autorizzasse la realizzazione, si troverebbe a
legalizzare un caso di suicidio-omicidio, contro i principi fondamentali
dell'indisponibilità della vita e della tutela di ogni vita innocente. In
questo modo si favorisce una diminuzione del rispetto della vita e si apre la
strada a comportamenti distruttivi della fiducia nei rapporti sociali.
Le
leggi che autorizzano e favoriscono l'aborto e l'eutanasia si pongono dunque
radicalmente non solo contro il bene del singolo, ma anche contro il bene comune
e, pertanto, sono del tutto prive di autentica validità giuridica. Il
misconoscimento del diritto alla vita, infatti, proprio perché porta a
sopprimere la persona per il cui servizio la società ha motivo di esistere, è
ciò che si contrappone più frontalmente e irreparabilmente alla possibilità
di realizzare il bene comune. Ne segue che, quando una legge civile legittima
l'aborto o l'eutanasia cessa, per ciò stesso, di essere una vera legge civile,
moralmente obbligante.
73.
L'aborto e l'eutanasia sono dunque crimini che nessuna legge umana può
pretendere di legittimare. Leggi di questo tipo non solo non creano nessun
obbligo per la coscienza, ma sollevano piuttosto un grave
e preciso obbligo di opporsi ad esse mediante obiezione di coscienza. Fin
dalle origini della Chiesa, la predicazione apostolica ha inculcato ai cristiani
il dovere di obbedire alle autorità pubbliche legittimamente costituite (cf.
Rm 13, 1-7; 1 Pt 2, 13-14), ma nello stesso tempo ha ammonito fermamente che «
bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini » (At 5, 29). Già nell'Antico Testamento, proprio in riferimento alle
minacce contro la vita, troviamo un esempio significativo di resistenza al
comando ingiusto dell'autorità. Al faraone, che aveva ordinato di far morire
ogni neonato maschio, le levatrici degli Ebrei si opposero. Esse « non fecero
come aveva loro ordinato il re di Egitto e lasciarono vivere i bambini » (Es
1, 17). Ma occorre notare il motivo profondo di questo loro comportamento:
« Le levatrici temettero Dio » (ivi).
È proprio dall'obbedienza a Dio — al quale solo si deve quel timore che è
riconoscimento della sua assoluta sovranità — che nascono la forza e il
coraggio di resistere alle leggi ingiuste degli uomini. È la forza e il
coraggio di chi è disposto anche ad andare in prigione o ad essere ucciso di
spada, nella certezza che « in questo sta la costanza e la fede dei santi » (Ap
13, 10).
Nel
caso quindi di una legge intrinsecamente ingiusta, come è quella che ammette
l'aborto o l'eutanasia, non è mai lecito conformarsi ad essa, « né
partecipare ad una campagna di opinione in favore di una legge siffatta, né
dare ad essa il suffragio del proprio voto ».98
Un
particolare problema di coscienza potrebbe porsi in quei casi in cui un voto
parlamentare risultasse determinante per favorire una legge più restrittiva,
volta cioè a restringere il numero degli aborti autorizzati, in alternativa ad
una legge più permissiva già in vigore o messa al voto. Simili casi non sono
rari. Si registra infatti il dato che mentre in alcune parti del mondo
continuano le campagne per l'introduzione di leggi a favore dell'aborto,
sostenute non poche volte da potenti organismi internazionali, in altre Nazioni
invece — in particolare in quelle che hanno già fatto l'amara esperienza di
simili legislazioni permissive — si vanno manifestando segni di ripensamento.
Nel caso ipotizzato, quando non fosse possibile scongiurare o abrogare
completamente una legge abortista, un parlamentare, la cui personale assoluta
opposizione all'aborto fosse chiara e a tutti nota, potrebbe lecitamente offrire
il proprio sostegno a proposte mirate a limitare
i danni di una tale legge e a diminuirne gli effetti negativi sul piano
della cultura e della moralità pubblica. Così facendo, infatti, non si attua
una collaborazione illecita a una legge ingiusta; piuttosto si compie un
legittimo e doveroso tentativo di limitarne gli aspetti iniqui.
74.
L'introduzione di legislazioni ingiuste pone spesso gli uomini moralmente retti
di fronte a difficili problemi di coscienza in materia di collaborazione in
ragione della doverosa affermazione del proprio diritto a non essere costretti a
partecipare ad azioni moralmente cattive. Talvolta le scelte che si impongono
sono dolorose e possono richiedere il sacrificio di affermate posizioni
professionali o la rinuncia a legittime prospettive di avanzamento nella
carriera. In altri casi, può risultare che il compiere alcune azioni in se
stesse indifferenti, o addirittura positive, previste nell'articolato di
legislazioni globalmente ingiuste, consenta la salvaguardia di vite umane
minacciate. D'altro canto, però, si può giustamente temere che la disponibilità
a compiere tali azioni non solo comporti uno scandalo e favorisca l'indebolirsi
della necessaria opposizione agli attentati contro la vita, ma induca
insensibilmente ad arrendersi sempre più ad una logica permissiva.
Per
illuminare questa difficile questione morale occorre richiamare i principi
generali sulla cooperazione ad azioni cattive. I cristiani, come tutti gli uomini
di buona volontà, sono chiamati, per un grave dovere di coscienza, a non
prestare la loro collaborazione formale a quelle pratiche che, pur ammesse dalla
legislazione civile, sono in contrasto con la Legge di Dio. Infatti, dal punto
di vista morale, non è mai lecito cooperare formalmente al male. Tale
cooperazione si verifica quando l'azione compiuta, o per la sua stessa natura o
per la configurazione che essa viene assumendo in un concreto contesto, si
qualifica come partecipazione diretta ad un atto contro la vita umana innocente
o come condivisione dell'intenzione immorale dell'agente principale. Questa
cooperazione non può mai essere giustificata né invocando il rispetto della
libertà altrui, né facendo leva sul fatto che la legge civile la prevede e la
richiede: per gli atti che ciascuno personalmente compie esiste, infatti, una
responsabilità morale a cui nessuno può mai sottrarsi e sulla quale ciascuno
sarà giudicato da Dio stesso (cf. Rm 2,
6; 14, 12).
Rifiutarsi
di partecipare a commettere un'ingiustizia è non solo un dovere morale, ma è
anche un diritto umano basilare. Se così non fosse, la persona umana sarebbe
costretta a compiere un'azione intrinsecamente incompatibile con la sua dignità
e in tal modo la sua stessa libertà, il cui senso e fine autentici risiedono
nell'orientamento al vero e al bene, ne sarebbe radicalmente compromessa. Si
tratta, dunque, di un diritto essenziale che, proprio perché tale, dovrebbe
essere previsto e protetto dalla stessa legge civile. In tal senso, la
possibilità di rifiutarsi di partecipare alla fase consultiva, preparatoria ed
esecutiva di simili atti contro la vita dovrebbe essere assicurata ai medici,
agli operatori sanitari e ai responsabili delle istituzioni ospedaliere, delle
cliniche e delle case di cura. Chi ricorre all'obiezione di coscienza deve
essere salvaguardato non solo da sanzioni penali, ma anche da qualsiasi danno
sul piano legale, disciplinare, economico e professionale.
«
Amerai il prossimo tuo come te stesso »
(Lc
10, 27): « promuovi » la vita.
75.
I comandamenti di Dio ci insegnano la via della vita. Iprecetti
morali negativi, cioè quelli che dichiarano moralmente inaccettabile la
scelta di una determinata azione, hanno un valore assoluto per la libertà
umana: essi valgono sempre e comunque, senza eccezioni. Indicano che la scelta
di determinati comportamenti è radicalmente incompatibile con l'amore verso Dio
e con la dignità della persona, creata a sua immagine: tale scelta, perciò,
non può essere riscattata dalla bontà di nessuna intenzione e di nessuna
conseguenza, è in contrasto insanabile con la comunione tra le persone,
contraddice la decisione fondamentale di orientare la propria vita a Dio.99
Già
in questo senso i precetti morali negativi hanno un'importantissima funzione
positiva: il « no » che esigono incondizionatamente dice il limite
invalicabile al di sotto del quale l'uomo libero non può scendere e, insieme,
indica il minimo che egli deve rispettare e dal quale deve partire per
pronunciare innumerevoli « sì », capaci di occupare progressivamente l'intero
orizzonte del bene (cf. Mt 5, 48).
I comandamenti, in particolare i precetti morali negativi, sono l'inizio e la
prima tappa necessaria del cammino verso la libertà: « La prima libertà —
scrive sant'Agostino — consiste nell'essere esenti da crimini... come
sarebbero l'omicidio, l'adulterio, la fornicazione, il furto, la frode, il
sacrilegio e così via. Quando uno comincia a non avere questi crimini (e nessun
cristiano deve averli), comincia a levare il capo verso la libertà, ma questo
non è che l'inizio della libertà, non la libertà perfetta ».100
76.
Il comandamento « non uccidere » stabilisce quindi il punto di partenza di un
cammino di vera libertà, che ci porta a promuovere attivamente la vita e
sviluppare determinati atteggiamenti e comportamenti al suo servizio: così
facendo esercitiamo la nostra responsabilità verso le persone che ci sono
affidate e manifestiamo, nei fatti e nella verità, la nostra riconoscenza a Dio
per il grande dono della vita (cf. Sal
139/138, 13-14).
Il
Creatore ha affidato la vita dell'uomo alla sua responsabile sollecitudine, non
perché ne disponga in modo arbitrario, ma perché la custodisca con saggezza e
la amministri con amorevole fedeltà. Il Dio dell'Alleanza ha affidato la vita
di ciascun uomo all'altro uomo suo fratello, secondo la legge della reciprocità
del dare e del ricevere, del dono di sé e dell'accoglienza dell'altro. Nella
pienezza dei tempi, incarnandosi e donando la sua vita per l'uomo, il Figlio di
Dio ha mostrato a quale altezza e profondità possa giungere questa legge della
reciprocità. Con il dono del suo Spirito, Cristo dà contenuti e significati
nuovi alla legge della reciprocità, all'affidamento dell'uomo all'uomo. Lo
Spirito, che è artefice di comunione nell'amore, crea tra gli uomini una nuova
fraternità e solidarietà, vero riflesso del mistero di reciproca donazione e
accoglienza proprio della Trinità santissima. Lo stesso Spirito diventa la
legge nuova, che dona ai credenti la forza e sollecita la loro responsabilità
per vivere reciprocamente il dono di sé e l'accoglienza dell'altro,
partecipando all'amore stesso di Gesù Cristo e secondo la sua misura.
77.
Da questa legge nuova viene animato e plasmato anche il comandamento del « non
uccidere ». Per il cristiano, quindi, esso implica in definitiva l'imperativo
di rispettare, amare e promuovere la vita di ogni fratello, secondo le esigenze
e le dimensioni dell'amore di Dio in Gesù Cristo. « Egli ha dato la sua vita
per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli » (1
Gv 3, 16).
Il
comandamento del « non uccidere », anche nei suoi contenuti più positivi di
rispetto, amore e promozione della vita umana, vincola ogni uomo. Esso, infatti,
risuona nella coscienza morale di ciascuno come un'eco insopprimibile
dell'alleanza originaria di Dio creatore con l'uomo; da tutti può essere
conosciuto alla luce della ragione e può essere osservato grazie all'opera
misteriosa dello Spirito che, soffiando dove vuole (cf. Gv
3, 8), raggiunge e coinvolge ogni uomo che vive in questo mondo.
È
dunque un servizio d'amore quello che tutti siamo impegnati ad assicurare al
nostro prossimo, perché la sua vita sia difesa e promossa sempre, ma
soprattutto quando è più debole o minacciata. È una sollecitudine non solo
personale ma sociale, che tutti dobbiamo coltivare, ponendo l'incondizionato
rispetto della vita umana a fondamento di una rinnovata società.
Ci
è chiesto di amare e onorare la vita di ogni uomo e di ogni donna e di lavorare
con costanza e con coraggio, perché nel nostro tempo, attraversato da troppi
segni di morte, si instauri finalmente una nuova cultura della vita, frutto
della cultura della verità e dell'amore.
CAPITOLO IV
L'AVETE FATTO A ME
«
Voi siete il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le sue opere
meravigliose »
(1
Pt 2, 9): il popolo della vita e per la vita
78.
La Chiesa ha ricevuto il Vangelo come annuncio e fonte di gioia e di salvezza.
L'ha ricevuto in dono da Gesù, inviato dal Padre « per annunziare ai poveri un
lieto messaggio » (Lc 4, 18). L'ha ricevuto mediante gli Apostoli, da Lui mandati in
tutto il mondo (cf. Mc 16, 15; Mt
28, 19-20). Nata da questa azione evangelizzatrice, la Chiesa sente
risuonare in se stessa ogni giorno la parola ammonitrice dell'Apostolo: « Guai
a me se non predicassi il Vangelo » (1
Cor 9, 16). « Evan- gelizzare, infatti, — come scriveva Paolo VI — è
la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda. Essa
esiste per evangeliz- zare ».101
L'evangelizzazione
è un'azione globale e dinamica, che coinvolge la Chiesa nella sua
partecipazione alla missione profetica, sacerdotale e regale del Signore Gesù.
Essa, pertanto, comporta inscindibilmente le
dimensioni dell'annuncio, della celebrazione e del servizio della carità. È
un atto profondamente ecclesiale, che
chiama in causa tutti i diversi operai del Vangelo, ciascuno secondo i propri
carismi e il proprio ministero.
Così
è anche quando si tratta di annunciare il Vangelo
della vita, parte integrante del Vangelo che è Gesù Cristo. Di questo
Vangelo noi siamo al servizio, sostenuti dalla consapevolezza di averlo ricevuto
in dono e di essere inviati a proclamarlo a tutta l'umanità « fino agli
estremi confini della terra » (At 1,
8). Nutriamo perciò umile e grata coscienza di essere il popolo
della vita e per la vita e in tal modo ci presentiamo davanti a tutti.
79.
Siamo il popolo della vita perché Dio, nel suo amore gratuito, ci ha donato
il Vangelo della vita e da questo
stesso Vangelo noi siamo stati trasformati e salvati. Siamo stati riconquistati
dall' « autore della vita » (At 3,
15) a prezzo del suo sangue prezioso (cf. 1
Cor 6, 20; 7, 23; 1 Pt 1, 19) e
mediante il lavacro battesimale siamo stati inseriti in lui (cf.
Rm 6, 4-5; Col 2, 12), come rami che dall'unico albero traggono linfa e
fecondità (cf. Gv 15, 5). Rinnovati
interiormente dalla grazia dello Spirito, « che è Signore e dà la vita »,
siamo diventati un popolo per la vita e
come tali siamo chiamati a comportarci.
Siamo
mandati: essere al servizio della vita non è per noi un vanto, ma un
dovere, che nasce dalla coscienza di essere « il popolo che Dio si è
acquistato perché proclami le sue opere meravigliose » (1
Pt 2, 9). Nel nostro cammino ci guida
e ci sostiene la legge dell'amore: è l'amore di cui è sorgente e modello
il Figlio di Dio fatto uomo, che « morendo ha dato la vita al mondo ».102
Siamo
mandati come popolo. L'impegno a servizio della vita grava su tutti e su
ciascuno. È una responsabilità propriamente « ecclesiale », che esige
l'azione concertata e generosa di tutti i membri e di tutte le articolazioni
della comunità cristiana. Il compito comunitario però non elimina né
diminuisce la responsabilità della singola
persona, alla quale è rivolto il comando del Signore a « farsi prossimo »
di ogni uomo: « Và e anche tu fà lo stesso » (Lc
10, 37).
Tutti
insieme sentiamo il dovere di annunciare
il Vangelo della vita, di celebrarlo nella
liturgia e nell'intera esistenza, diservirlo
con le diverse iniziative e strutture di sostegno e di promozione.
«
Quello che abbiamo veduto e udito noi lo annunziamo anche a voi »
(1
Gv 1, 3): annunciare il Vangelo della vita
80.
« Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi
abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che
le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita... noi lo annunziamo
anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi » (1
Gv 1, 1.3). Gesù è l'unico Vangelo: noi non abbiamo altro da dire e da
testimoniare.
È
proprio l'annuncio di Gesù ad essere annuncio della vita.
Egli, infatti, è « il Verbo della vita » (1 Gv 1, 1). In lui « la vita si è fatta visibile » (1
Gv 1, 2); anzi lui stesso è « la vita eterna, che era presso il Padre e si
è resa visibile a noi » (ivi).
Questa stessa vita, grazie al dono dello Spirito, è stata comunicata all'uomo.
Ordinata alla vita in pienezza, la « vita eterna », anche la vita terrena di
ciascuno acquista il suo senso pieno.
Illuminati
da questo Vangelo della vita, sentiamo il bisogno di proclamarlo e di
testimoniarlo nella novità sorprendente che
lo contraddistingue: poiché si identifica con Gesù stesso, apportatore di ogni
novità 103 e vincitore della « vecchiezza » che deriva dal peccato e porta
alla morte,104 tale Vangelo supera ogni aspettativa dell'uomo e svela a quali
sublimi altezze viene elevata, per grazia, la dignità della persona. Così la
contempla san Gregorio di Nissa: « L'uomo che, tra gli esseri, non conta nulla,
che è polvere, erba, vanità, una volta che è adottato dal Dio dell'universo
come figlio, diventa familiare di questo Essere, la cui eccellenza e grandezza
nessuno può vedere, ascoltare e comprendere. Con quale parola, pensiero o
slancio dello spirito si potrà esaltare la sovrabbondanza di questa grazia?
L'uomo sorpassa la sua natura: da mortale diventa immortale, da perituro
imperituro, da effimero eterno, da uomo diventa dio ».105
La
gratitudine e la gioia per l'incommensurabile dignità dell'uomo ci spinge a
rendere tutti partecipi di questo messaggio: « Quello che abbiamo veduto e
udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con
noi » (1 Gv 1, 3). È necessario far giungere il Vangelo della vita al cuore di ogni uomo e donna e immetterlo nelle
pieghe più recondite dell'intera società.
81.
Si tratta di annunciare anzitutto il
centro di questo Vangelo. Esso è annuncio di un Dio vivo e vicino, che ci
chiama a una profonda comunione con sé e ci apre alla speranza certa della vita
eterna; è affermazione dell'inscindibile legame che intercorre tra la persona,
la sua vita e la sua corporeità; è presentazione della vita umana come vita di
relazione, dono di Dio, frutto e segno del suo amore; è proclamazione dello
straordinario rapporto di Gesù con ciascun uomo, che consente di riconoscere in
ogni volto umano il volto di Cristo; è indicazione del « dono sincero di sé
» quale compito e luogo di realizzazione piena della propria libertà.
Nello
stesso tempo, si tratta di additare tutte le
conseguenze di questo stesso Vangelo, che così si possono riassumere: la
vita umana, dono prezioso di Dio, è sacra e inviolabile e per questo, in
particolare, sono assolutamente inaccettabili l'aborto procurato e l'eutanasia;
la vita dell'uomo non solo non deve essere soppressa, ma va protetta con ogni
amorosa attenzione; la vita trova il suo senso nell'amore ricevuto e donato, nel
cui orizzonte attingono piena verità la sessualità e la procreazione umana; in
questo amore anche la sofferenza e la morte hanno un senso e, pur permanendo il
mistero che le avvolge, possono diventare eventi di salvezza; il rispetto per la
vita esige che la scienza e la tecnica siano sempre ordinate all'uomo e al suo
sviluppo integrale; l'intera società deve rispettare, difendere e promuovere la
dignità di ogni persona umana, in ogni momento e condizione della sua vita.
82.
Per essere veramente un popolo al servizio della vita dobbiamo, con costanza e
coraggio, proporre questi contenuti fin dal primo annuncio del Vangelo e, in
seguito, nella catechesi e nelle diverse
forme di predicazione, nel dialogo personale e in ogni azione educativa. Agli
educatori, insegnanti, catechisti e teologi, spetta il compito di mettere in
risalto le ragioni antropologiche che
fondano e sostengono il rispetto di ogni vita umana. In tal modo, mentre faremo
risplendere l'originale novità del Vangelo
della vita, potremo aiutare tutti a scoprire anche alla luce della ragione e
dell'esperienza, come il messaggio cristiano illumini pienamente l'uomo e il
significato del suo essere ed esistere; troveremo preziosi punti di incontro e
di dialogo anche con i non credenti, tutti insieme impegnati a far sorgere una
nuova cultura della vita.
Circondati
dalle voci più contrastanti, mentre molti rigettano la sana dottrina intorno
alla vita dell'uomo, sentiamo rivolta anche a noi la supplica indirizzata da
Paolo a Timoteo: « Annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e
non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina »
(2 Tm 4, 2). Questa esortazione deve risuonare con particolare vigore
nel cuore di quanti, nella Chiesa, partecipano più direttamente, a diverso
titolo, alla sua missione di « maestra » della verità. Risuoni innanzitutto
per noi Vescovi: a noi per primi è
chiesto di farci annunciatori instancabili delVangelo della vita; a noi è pure affidato il compito di vigilare
sulla trasmissione integra e fedele dell'insegnamento riproposto in questa
Enciclica e di ricorrere alle misure più opportune perché i fedeli siano
preservati da ogni dottrina ad esso contraria. Una speciale attenzione dobbiamo
porre perché nelle facoltà teologiche, nei seminari e nelle diverse
istituzioni cattoliche venga diffusa, illustrata e approfondita la conoscenza
della sana dottrina.106 L'esortazione di Paolo risuoni per tutti i teologi, per i pastori e
per quanti altri svolgono compiti diinsegnamento,
catechesi e formazione delle coscienze: consapevoli del ruolo ad essi
spettante, non si assumano mai la grave responsabilità di tradire la verità e
la loro stessa missione esponendo idee personali contrarie al Vangelo
della vita quale il Magistero fedelmente ripropone e interpreta.
Nell'annunciare
questo Vangelo, non dobbiamo temere l'ostilità e l'impopolarità, rifiutando
ogni compromesso ed ambiguità, che ci conformerebbero alla mentalità di questo
mondo (cf. Rm 12, 2). Dobbiamo essere nel
mondo ma non del mondo (cf. Gv
15, 19; 17, 16), con la forza che ci viene da Cristo, che con la sua morte e
risurrezione ha vinto il mondo (cf. Gv 16,
33).
«
Ti lodo perché mi hai fatto come un prodigio »
(Sal
139/138, 14): celebrare il Vangelo
della vita
83.
Mandati nel mondo come « popolo per la vita », il nostro annuncio deve
diventare anche una vera e propria celebrazione del Vangelo della vita. È anzi
questa stessa celebrazione, con la forza evocativa dei suoi gesti, simboli e
riti, a diventare luogo prezioso e significativo per trasmettere la bellezza e
la grandezza di questo Vangelo.
A
tal fine, urge anzitutto coltivare, in
noi e negli altri, uno sguardo
contemplativo.107 Questo nasce dalla fede nel Dio della vita, che ha creato
ogni uomo facendolo come un prodigio (cf. Sal
139/138, 14). È lo sguardo di chi vede la vita nella sua profondità,
cogliendone le dimensioni di gratuità, di bellezza, di provocazione alla libertà
e alla responsabilità. È lo sguardo di chi non pretende d'impossessarsi della
realtà, ma la accoglie come un dono, scoprendo in ogni cosa il riflesso del
Creatore e in ogni persona la sua immagine vivente (cf. Gn
1, 27; Sal 8, 6). Questo sguardo
non si arrende sfiduciato di fronte a chi è nella malattia, nella sofferenza,
nella marginalità e alle soglie della morte; ma da tutte queste situazioni si
lascia interpellare per andare alla ricerca di un senso e, proprio in queste
circostanze, si apre a ritrovare nel volto di ogni persona un appello al
confronto, al dialogo, alla solidarietà.
È
tempo di assumere tutti questo sguardo, ridiventando capaci, con l'animo colmo
di religioso stupore, di venerare e
onorare ogni uomo, come ci invitava a fare Paolo VI in uno dei suoi messaggi
natalizi.108 Animato da questo sguardo contemplativo, il popolo nuovo dei
redenti non può non prorompere in inni di
gioia, di lode e di ringraziamento per il dono inestimabile della vita, per
il mistero della chiamata di ogni uomo a partecipare in Cristo alla vita di
grazia e a un'esistenza di comunione senza fine con Dio Creatore e Padre.
84.
Celebrare il Vangelo della vita significa
celebrare il Dio della vita, il Dio che dona la vita: « Noi dobbiamo
celebrare la Vita eterna, dalla quale procede qualsiasi altra vita. Da essa
riceve la vita, proporzionalmente alle sue capacità, ogni essere che partecipa
in qualche modo alla vita. Questa Vita divina, che è al di sopra di qualsiasi
vita, vivifica e conserva la vita. Qualsiasi vita e qualsiasi movimento vitale
procedono da questa Vita che trascende ogni vita ed ogni principio di vita. Ad
essa le anime debbono la loro incorruttibilità, come pure grazie ad essa vivono
tutti gli animali e tutte le piante, che ricevono della vita l'eco più debole.
Agli uomini, esseri composti di spirito e di materia, la Vita dona la vita. Se
poi ci accade di abbandonarla, allora la Vita, per il traboccare del suo amore
verso l'uomo, ci converte e ci richiama a sé. Non solo: ci promette di
condurci, anime e corpi, alla vita perfetta, all'immortalità. È troppo poco
dire che questa Vita è viva: essa è Principio di vita, Causa e Sorgente unica
di vita. Ogni vivente deve contemplarla e lodarla: è Vita che trabocca vita ».109
Anche
noi, come il Salmista, nella preghiera
quotidiana, individuale e comunitaria, lodiamo e benediciamo Dio nostro
Padre, che ci ha tessuti nel seno materno e ci ha visti e amati quando ancora
eravamo informi (cf. Sal 139/138, 13.
15-16), ed esclamiamo con gioia incontenibile: « Ti lodo, perché mi hai fatto
come un prodigio; sono stupende le tue opere, tu mi conosci fino in fondo » (Sal 139/138, 14). Sì, « questa vita mortale è, nonostante i suoi
travagli, i suoi oscuri misteri, le sue sofferenze, la sua fatale caducità, un
fatto bellissimo, un prodigio sempre originale e commovente, un avvenimento
degno d'essere cantato in gaudio e in gloria ».110 Di più, l'uomo e la sua
vita non ci appaiono solo come uno dei prodigi più alti della creazione:
all'uomo Dio ha conferito una dignità quasi divina (cf. Sal
8, 6-7). In ogni bimbo che nasce e in ogni uomo che vive o che muore noi
riconosciamo l'immagine della gloria di Dio: questa gloria noi celebriamo in
ogni uomo, segno del Dio vivente, icona di Gesù Cristo.
Siamo
chiamati ad esprimere stupore e gratitudine per la vita ricevuta in dono e ad
accogliere, gustare e comunicare il Vangelo
della vita non solo con la preghiera personale e comunitaria, ma soprattutto
con le celebrazioni dell'anno liturgico. Sono qui da ricordare in
particolare i Sacramenti, segni
efficaci della presenza e dell'azione salvifica del Signore Gesù nell'esistenza
cristiana: essi rendono gli uomini partecipi della vita divina, assicurando loro
l'energia spirituale necessaria per realizzare nella sua piena verità il
significato del vivere, del soffrire e del morire. Grazie ad una genuina
riscoperta del senso dei riti e ad una loro adeguata valorizzazione, le
celebrazioni liturgiche, soprattutto quelle sacramentali, saranno sempre più in
grado di esprimere la verità piena sulla nascita, la vita, la sofferenza e la
morte, aiutando a vivere queste realtà come partecipazione al mistero pasquale
di Cristo morto e risorto.
85.
Nella celebrazione del Vangelo della vita occorre
saperapprezzare e valorizzare anche i
gesti e i simboli, di cui sono ricche le diverse tradizioni e consuetudini
culturali e popolari. Sono momenti e forme di incontro con cui, nei diversi
Paesi e culture, si manifestano la gioia per una vita che nasce, il rispetto e
la difesa di ogni esistenza umana, la cura per chi soffre o è nel bisogno, la
vicinanza all'anziano o al morente, la condivisione del dolore di chi è nel
lutto, la speranza e il desiderio dell'immortalità.
In
questa prospettiva, accogliendo anche il suggerimento offerto dai Cardinali nel
Concistoro del 1991, propongo che si celebri ogni anno nelle varie Nazioni una Giornata
per la Vita, quale già si attua ad iniziativa di alcune Conferenze
Episcopali. È necessario che tale Giornata venga preparata e celebrata con
l'attiva partecipazione di tutte le componenti della Chiesa locale. Suo scopo
fondamentale è quello di suscitare, nelle coscienze, nelle famiglie, nella
Chiesa e nella società civile, il riconoscimento del senso e del valore della
vita umana in ogni suo momento e condizione, ponendo particolarmente al centro
dell'attenzione la gravità dell'aborto e dell'eutanasia, senza tuttavia
trascurare gli altri momenti e aspetti della vita, che meritano di essere presi
di volta in volta in attenta considerazione, secondo quanto suggerito
dall'evolversi della situazione storica.
86.
Nella logica del culto spirituale gradito a Dio (cf. Rm
12, 1), la celebrazione del Vangelo della
vita chiede di realizzarsi soprattutto nell'esistenza
quotidiana, vissuta nell'amore per gli altri e nella donazione di se stessi.
Sarà così tutta la nostra esistenza a farsi accoglienza autentica e
responsabile del dono della vita e lode sincera e riconoscente a Dio che ci ha
fatto tale dono. È quanto già avviene in tantissimi gesti di donazione, spesso
umile e nascosta, compiuti da uomini e donne, bambini e adulti, giovani e
anziani, sani e ammalati.
È
in questo contesto, ricco di umanità e di amore, che nascono anche i gesti
eroici. Essi sono la celebrazione più
solenne del Vangelo della vita, perché lo proclamano con il dono totale di sé; sono la manifestazione luminosa del grado
più elevato di amore, che è dare la vita per la persona amata (cf. Gv
15, 13); sono la partecipazione al mistero della Croce, nella quale Gesù
svela quanto valore abbia per lui la vita di ogni uomo e come questa si realizzi
in pienezza nel dono sincero di sé. Al di là dei fatti clamorosi, c'è
l'eroismo del quotidiano, fatto di piccoli o grandi gesti di condivisione che
alimentano un'autentica cultura della vita. Tra questi gesti merita particolare
apprezzamento la donazione di organi compiuta in forme eticamente accettabili,
per offrire una possibilità di salute e perfino di vita a malati talvolta privi
di speranza.
A
tale eroismo del quotidiano appartiene la testimonianza silenziosa, ma quanto
mai feconda ed eloquente, di « tutte le madri coraggiose, che si dedicano senza
riserve alla propria famiglia, che soffrono nel dare alla luce i propri figli, e
poi sono pronte ad intraprendere ogni fatica, ad affrontare ogni sacrificio, per
trasmettere loro quanto di meglio esse custodiscono in sé ».111 Nel vivere la
loro missione « non sempre queste madri eroiche trovano sostegno nel loro
ambiente. Anzi, i modelli di civiltà, spesso promossi e propagati dai mezzi di
comunicazione, non favoriscono la maternità. Nel nome del progresso e della
modernità vengono presentati come ormai superati i valori della fedeltà, della
castità, del sacrificio, nei quali si sono distinte e continuano a distinguersi
schiere di spose e di madri cristiane... Vi ringraziamo, madri eroiche, per il
vostro amore invincibile! Vi ringraziamo per l'intrepida fiducia in Dio e nel
suo amore. Vi ringraziamo per il sacrificio della vostra vita... Cristo nel
Mistero pasquale vi restituisce il dono che gli avete fatto. Egli infatti ha il
potere di restituirvi la vita che gli avete portato in offerta ».112
«
Che giova, fratelli miei se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? »
(Gc
2, 14): servire il Vangelo della vita
87.
In forza della partecipazione alla missione regale di Cristo, il sostegno e la
promozione della vita umana devono attuarsi mediante il servizio
della carità, che si esprime nella testimonianza personale, nelle diverse
forme di volontariato, nell'animazione sociale e nell'impegno politico. È,
questa, un'esigenza particolarmente
pressante nell'ora presente, nella quale la « cultura della morte » così
fortemente si contrappone alla « cultura della vita » e spesso sembra avere il
sopravvento. Ancor prima, però, è un'esigenza che nasce dalla « fede che
opera per mezzo della carità » (Gal 5,
6), come ci ammonisce la Lettera di Giacomo: « Che giova, fratelli miei, se uno
dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo?
Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano
e uno di voi dice loro: "Andatevene in pace, riscaldatevi e
saziatevi", ma non date loro il necessario per il corpo, che giova? Così
anche la fede: se non ha le opere, è morta in se stessa » (2, 14-17).
Nel
servizio della carità c'è un
atteggiamento che ci deve animare e contraddistinguere: dobbiamo prenderci
cura dell'altro in quanto persona affidata da Dio alla nostra responsabilità.
Come discepoli di Gesù, siamo chiamati a farci prossimi di ogni uomo (cf. Lc
10, 29-37), riservando una speciale preferenza a chi è più povero, solo e
bisognoso. Proprio attraverso l'aiuto all'affamato, all'assetato, al forestiero,
all'ignudo, al malato, al carcerato — come pure al bambino non ancora nato,
all'anziano sofferente o vicino alla morte — ci è dato di servire Gesù, come
Egli stesso ha dichiarato: « Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo
di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me » (Mt
25, 40). Per questo, non possiamo non sentirci interpellati e giudicati
dalla pagina sempre attuale di san Giovanni Crisostomo: « Vuoi onorare il corpo
di Cristo? Non trascurarlo quando si trova nudo. Non rendergli onore qui nel
tempio con stoffe di seta, per poi trascurarlo fuori, dove patisce freddo e
nudità ».113
Il
servizio della carità nei riguardi della
vita deve essere profondamente unitario: non può tollerare unilateralismi e
discriminazioni, perché la vita umana è sacra e inviolabile in ogni sua fase e
situazione; essa è un bene indivisibile. Si tratta dunque di «
prendersi cura » di tutta la vita e della vita di tutti. Anzi, ancora più
profondamente, si tratta di andare fino alle radici stesse della vita e
dell'amore.
Proprio
partendo da un amore profondo per ogni uomo e donna, si è sviluppata lungo i
secoli una straordinaria storia di carità, che ha introdotto nella vita
ecclesiale e civile numerose strutture di servizio alla vita, che suscitano
l'ammirazione di ogni osservatore non prevenuto. È una storia che, con
rinnovato senso di responsabilità, ogni comunità cristiana deve continuare a
scrivere con una molteplice azione pastorale e sociale. In tal senso si devono
mettere in atto forme discrete ed efficaci diaccompagnamento della vita nascente, con una speciale vicinanza a
quelle mamme che, anche senza il sostegno del padre, non temono di mettere al
mondo il loro bambino e di educarlo. Analoga cura deve essere riservata alla
vita nella marginalità o nella sofferenza, specie nelle sue fasi finali.
88.
Tutto questo comporta una paziente e coraggiosa opera
educativa che solleciti tutti e ciascuno a farsi carico dei pesi degli altri
(cf. Gal 6, 2); richiede una continua
promozione di vocazioni al servizio, in
particolare tra i giovani; implica la realizzazione di progetti e iniziative concrete, stabili ed evangelicamente ispirate.
Molteplici
sono gli strumenti da valorizzare con competenza e serietà di impegno. Alle
sorgenti della vita, i centri per i metodi
naturali di regolazione della fertilità vanno promossi come un valido aiuto
per la paternità e maternità responsabili, nella quale ogni persona, a
cominciare dal figlio, è riconosciuta e rispettata per se stessa e ogni scelta
è animata e guidata dal criterio del dono sincero di sé. Anche i consultori
matrimoniali e familiari, mediante la loro specifica azione di consulenza e
di prevenzione, svolta alla luce di un'antropologia coerente con la visione
cristiana della persona, della coppia e della sessualità, costituiscono un
prezioso servizio per riscoprire il senso dell'amore e della vita e per
sostenere e accompagnare ogni famiglia nella sua missione di « santuario della
vita ». A servizio della vita nascente si pongono pure i
centri di aiuto alla vita e le case o i centri di accoglienza della vita. Grazie
alla loro opera, non poche madri nubili e coppie in difficoltà ritrovano
ragioni e convinzioni e incontrano assistenza e sostegno per superare disagi e
paure nell'accogliere una vita nascente o appena venuta alla luce.
Di
fronte alla vita in condizioni di disagio, di devianza, di malattia e di
marginalità, altri strumenti — come le comunità
di recupero per tossicodipendenti, le comunità alloggio per i minori o per i
malati mentali, i centri di cura e accoglienza per malati di AIDS, le
cooperative di solidarietà soprattutto per i disabili — sono espressione
eloquente di ciò che la carità sa inventare per dare a ciascuno ragioni nuove
di speranza e possibilità concrete di vita.
Quando
poi l'esistenza terrena volge al termine, è ancora la carità a trovare le
modalità più opportune perché gli anziani,
specialmente se non autosufficienti, e i cosiddetti malati
terminali possano godere di un'assistenza veramente umana e ricevere
risposte adeguate alle loro esigenze, in particolare alla loro angoscia e
solitudine. Insostituibile è in questi casi il ruolo delle famiglie; ma esse
possono trovare grande aiuto nelle strutture sociali di assistenza e, quando
necessario, nel ricorso alle cure
palliative, avvalendosi degli idonei servizi sanitari e sociali, operanti
sia nei luoghi di ricovero e cura pubblici che a domicilio.
In
particolare, deve essere riconsiderato il ruolo degli
ospedali, delle cliniche e delle case di cura: la loro vera identità non è solo quella di strutture
nelle quali ci si prende cura dei malati e dei morenti, ma anzitutto quella di
ambienti nei quali la sofferenza, il dolore e la morte vengono riconosciuti ed
interpretati nel loro significato umano e specificamente cristiano. In modo
speciale tale identità deve mostrarsi chiara ed efficace negli istituti
dipendenti da religiosi o, comunque, legati alla Chiesa.
89.
Queste strutture e luoghi di servizio alla vita, e tutte le altre iniziative di
sostegno e solidarietà che le situazioni potranno di volta in volta suggerire,
hanno bisogno di essere animate da persone
generosamente disponibili e profondamente consapevoli di quanto decisivo sia
il Vangelo della vita per il bene dell'individuo e della società.
Peculiare
è la responsabilità affidata agli operatori sanitari: medici, farmacisti,
infermieri, cappellani, religiosi e religiose, amministratori e volontari. La
loro professione li vuole custodi e servitori della vita umana. Nel contesto
culturale e sociale odierno, nel quale la scienza e l'arte medica rischiano di
smarrire la loro nativa dimensione etica, essi possono essere talvolta
fortemente tentati di trasformarsi in artefici di manipolazione della vita o
addirittura in operatori di morte. Di fronte a tale tentazione la loro
responsabilità è oggi enormemente accresciuta e trova la sua ispirazione più
profonda e il suo sostegno più forte proprio nell'intrinseca e imprescindibile
dimensione etica della professione sanitaria, come già riconosceva l'antico e
sempre attuale giuramento di Ippocrate, secondo il quale ad ogni medico è chiesto
di impegnarsi per il rispetto assoluto della vita umana e della sua sacralità.
Il
rispetto assoluto di ogni vita umana innocente esige anchel'esercizio
dell'obiezione di coscienza di fronte all'aborto procurato e all'eutanasia.
Il « far morire » non può mai essere considerato come una cura medica,
neppure quando l'intenzione fosse solo quella di assecondare una richiesta del
paziente: è, piuttosto, la negazione della professione sanitaria che si
qualifica come un appassionato e tenace « sì » alla vita. Anche la ricerca
biomedica, campo affascinante e promettente di nuovi grandi benefici per
l'umanità, deve sempre rifiutare sperimentazioni, ricerche o applicazioni che,
misconoscendo l'inviolabile dignità dell'essere umano, cessano di essere a
servizio degli uomini e si trasformano in realtà che, mentre sembrano
soccorrerli, li opprimono.
90.
Uno specifico ruolo sono chiamate a svolgere le persone
impegnate nel volontariato: esse offrono un apporto prezioso nel servizio
alla vita, quando sanno coniugare capacità professionale e amore generoso e
gratuito. Il Vangelo della vita le
spinge ad elevare i sentimenti di semplice filantropia all'altezza della carità
di Cristo; a riconquistare ogni giorno, tra fatiche e stanchezze, la coscienza
della dignità di ogni uomo; ad andare alla scoperta dei bisogni delle persone
iniziando — se necessario — nuovi cammini là dove più urgente è il
bisogno e più deboli sono l'attenzione e il sostegno.
Il
realismo tenace della carità esige che il Vangelo
della vita sia servito anche mediante forme
di animazione sociale e di impegno politico, difendendo e proponendo il
valore della vita nelle nostre società sempre più complesse e pluraliste. Singoli,
famiglie, gruppi, realtà associative hanno, sia pure a titolo e in modi
diversi, una responsabilità nell'animazione sociale e nell'elaborazione di
progetti culturali, economici, politici e legislativi che, nel rispetto di tutti
e secondo la logica della convivenza democratica, contribuiscano a edificare una
società nella quale la dignità di ogni persona sia riconosciuta e tutelata, e
la vita di tutti sia difesa e promossa.
Tale
compito grava in particolare sui responsabili
della cosa pubblica. Chiamati a servire l'uomo e il bene comune, hanno il
dovere di compiere scelte coraggiose a favore della vita, innanzitutto
nell'ambito delle disposizioni
legislative. In un regime democratico, ove le leggi e le decisioni si
formano sulla base del consenso di molti, può attenuarsi nella coscienza dei
singoli che sono investiti di autorità il senso della responsabilità
personale. Ma a questa nessuno può mai abdicare, soprattutto quando ha un
mandato legislativo o decisionale, che lo chiama a rispondere a Dio, alla
propria coscienza e all'intera società di scelte eventualmente contrarie al
vero bene comune. Se le leggi non sono l'unico strumento per difendere la vita
umana, esse però svolgono un ruolo molto importante e talvolta determinante nel
promuovere una mentalità e un costume. Ripeto ancora una volta che una norma
che viola il diritto naturale alla vita di un innocente è ingiusta e, come
tale, non può avere valore di legge. Per questo rinnovo con forza il mio
appello a tutti i politici perché non promulghino leggi che, misconoscendo la
dignità della persona, minano alla radice la stessa convivenza civile.
La
Chiesa sa che, nel contesto di democrazie pluraliste, per la presenza di forti
correnti culturali di diversa impostazione, è difficile attuare un'efficace
difesa legale della vita. Mossa tuttavia dalla certezza che la verità morale
non può non avere un'eco nell'intimo di ogni coscienza, essa incoraggia i
politici, cominciando da quelli cristiani, a non rassegnarsi e a compiere quelle
scelte che, tenendo conto delle possibilità concrete, portino a ristabilire un
ordine giusto nell'affermazione e promozione del valore della vita. In questa
prospettiva, occorre rilevare che non basta eliminare le leggi inique. Si
dovranno rimuovere le cause che favoriscono gli attentati alla vita, soprattutto
assicurando il dovuto sostegno alla famiglia e alla maternità: la politica familiare deve essere perno e motore di tutte le politiche sociali. Pertanto, occorre
avviare iniziative sociali e legislative capaci di garantire condizioni di
autentica libertà nella scelta in ordine alla paternità e alla maternità;
inoltre è necessario reimpostare le politiche lavorative, urbanistiche,
abitative e dei servizi, perché si possano conciliare tra loro i tempi del
lavoro e quelli della famiglia e diventi effettivamente possibile la cura dei
bambini e degli anziani.
91.
Un capitolo importante della politica per la vita è costituito oggi dalla problematica
demografica. Le pubbliche autorità hanno certo la responsabilità di
prendere « iniziative al fine di orientare la demografia della popolazione »;
114 ma tali iniziative devono sempre presupporre e rispettare la responsabilità
primaria ed inalienabile dei coniugi e delle famiglie e non possono ricorrere a
metodi non rispettosi della persona e dei suoi diritti fondamentali, a
cominciare dal diritto alla vita di ogni essere umano innocente. È, quindi,
moralmente inaccettabile che, per regolare le nascite, si incoraggi o
addirittura si imponga l'uso di mezzi come la contraccezione, la sterilizzazione
e l'aborto.
Ben
altre sono le vie per risolvere il problema demografico: i Governi e le varie
istituzioni internazionali devono innanzitutto mirare alla creazione di
condizioni economiche, sociali, medico-sanitarie e culturali che consentano agli
sposi di fare le loro scelte procreative in piena libertà e con vera
responsabilità; devono poi sforzarsi di « potenzia re le possibilità e
distribuire con maggiore giustizia le ricchezze, affinché tutti possano
partecipare equamente ai beni del creato. Occorre creare soluzioni a livello
mondiale, instaurando un'autentica economia di comunione e condivisione dei beni, sia sul piano
internazionale che su quello nazionale ».115 Questa sola è la strada che
rispetta la dignità delle persone e delle famiglie, oltre che l'autentico
patrimonio culturale dei popoli.
Vasto
e complesso è dunque il servizio al Vangelo
della vita. Esso ci appare sempre più come ambito prezioso e favorevole per
una fattiva collaborazione con i fratelli delle altre Chiese e Comunità
ecclesiali nella linea di quell'ecumenismo
delle opere che il Concilio Vaticano II ha autorevolmente incoraggiato.116
Esso, inoltre, si presenta come spazio provvidenziale per il dialogo e la
collaborazione con i seguaci di altre religioni e con tutti gli uomini di buona
volontà: la difesa e la promozione della vita non sono monopolio di nessuno, ma
compito e responsabilità di tutti. La sfida che ci sta di fronte, alla
vigilia del terzo millennio, è ardua: solo la concorde cooperazione di quanti
credono nel valore della vita potrà evitare una sconfitta della civiltà dalle
conseguenze imprevedibili.
«
Dono del Signore sono i figli, è sua grazia il frutto del grembo »
(Sal
126/125, 3): la famiglia « santuario
della vita »
92.
All'interno del « popolo della vita e per la vita »,decisiva
è la responsabilità della famiglia: è una responsabilità che scaturisce
dalla sua stessa natura — quella di essere comunità di vita e di amore,
fondata sul matrimonio — e dalla sua missione di « custodire, rivelare e
comunicare l'amore ».117 È in questione l'amore stesso di Dio, del quale i
genitori sono costituiti collaboratori e quasi interpreti nel trasmettere la
vita e nell'educarla secondo il suo progetto di Padre.118 È quindi l'amore che
si fa gratuità, accoglienza, donazione: nella famiglia ciascuno è
riconosciuto, rispettato e onorato perché è persona e, se qualcuno ha più
bisogno, più intensa e più vigile è la cura nei suoi confronti.
La
famiglia è chiamata in causa nell'intero arco di esistenza dei suoi membri,
dalla nascita alla morte. Essa è veramente « ilsantuario
della vita..., il luogo in cui la vita, dono di Dio, può essere
adeguatamente accolta e protetta contro i molteplici attacchi a cui è esposta,
e può svilupparsi secondo le esigenze di un'autentica crescita umana ».119 Per
questo, determinante e insostituibile è il ruolo della famiglia nel
costruire la cultura della vita.
Come
chiesa domestica, la famiglia è
chiamata ad annunciare, celebrare e servire il Vangelo
della vita. È un compito che riguarda innanzitutto i coniugi, chiamati ad
essere trasmettitori della vita, sulla base di una sempre rinnovata consapevolezza
del senso della generazione, come evento privilegiato nel quale si manifesta
che la vita umana è un dono ricevuto per
essere a sua volta donato. Nella procreazione di una nuova vita i genitori
avvertono che il figlio « se è frutto della loro reciproca donazione d'amore,
è, a sua volta, un dono per ambedue, un dono che scaturisce dal dono ».120
È
soprattutto attraverso l'educazione dei
figli che la famiglia assolve la sua missione di annunciare il Vangelo
della vita. Con la parola e con l'esempio, nella quotidianità dei rapporti
e delle scelte e mediante gesti e segni concreti, i genitori iniziano i loro
figli alla libertà autentica, che si realizza nel dono sincero di sé, e
coltivano in loro il rispetto dell'altro, il senso della giustizia,
l'accoglienza cordiale, il dialogo, il servizio generoso, la solidarietà e ogni
altro valore che aiuti a vivere la vita come un dono. L'opera educativa dei
genitori cristiani deve farsi servizio alla fede dei figli e aiuto loro offerto
perché adempiano la vocazione ricevuta da Dio. Rientra nella missione educativa
dei genitori insegnare e testimoniare ai figli il vero senso del soffrire e del
morire: lo potranno fare se sapranno essere attenti ad ogni sofferenza che
trovano intorno a sé e, prima ancora, se sapranno sviluppare atteggiamenti di
vicinanza, assistenza e condivisione verso malati e anziani nell'ambito
familiare.
93.
La famiglia, inoltre, celebra il Vangelo
della vita con la preghiera quotidiana, individuale e familiare: con essa
loda e ringrazia il Signore per il dono della vita ed invoca luce e forza per
affrontare i momenti di difficoltà e di sofferenza, senza mai smarrire la
speranza. Ma la celebrazione che dà significato ad ogni altra forma di
preghiera e di culto è quella che s'esprime nell'esistenza
quotidiana della famiglia, se è un'esistenza fatta di amore e donazione.
La
celebrazione si trasforma così in un servizio
al Vangelo della vita, che si esprime attraverso la solidarietà,
sperimentata dentro e intorno alla famiglia come attenzione premurosa, vigile e
cordiale nelle azioni piccole e umili di ogni giorno. Un'espressione
particolarmente significativa di solidarietà tra le famiglie è la disponibilità
all'adozione o all'affidamento dei bambini abbandonati dai loro genitori o
comunque in situazioni di grave disagio. Il vero amore paterno e materno sa
andare al di là dei legami della carne e del sangue ed accogliere anche bambini
di altre famiglie, offrendo ad essi quanto è necessario per la loro vita ed il
loro pieno sviluppo. Tra le forme di adozione, merita di essere proposta anche
l'adozione a distanza, da preferire nei casi in cui l'abbandono ha come
unico motivo le condizioni di grave povertà della famiglia. Con tale tipo di
adozione, infatti, si offrono ai genitori gli aiuti necessari per mantenere ed
educare i propri figli, senza doverli sradicare dal loro ambiente naturale.
Intesa
come « determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune »,121
la solidarietà chiede di attuarsi anche attraverso forme di partecipazione
sociale e politica. Di conseguenza, servire il Vangelo della vita comporta che le famiglie, specie partecipando ad
apposite associazioni, si adoperino affinché le leggi e le istituzioni dello
Stato non ledano in nessun modo il diritto alla vita, dal concepimento alla
morte naturale, ma lo difendano e lo promuovano.
94.
Un posto particolare va riconosciuto agli anziani.
Mentre in alcune culture la persona più avanzata in età rimane inserita
nella famiglia con un ruolo attivo importante, in altre culture invece chi è
vecchio è sentito come un peso inutile e viene abbandonato a se stesso: in
simile contesto può sorgere più facilmente la tentazione di ricorrere
all'eutanasia.
L'emarginazione
o addirittura il rifiuto degli anziani sono intollerabili. La loro presenza in
famiglia, o almeno la vicinanza ad essi della famiglia quando per la
ristrettezza degli spazi abitativi o per altri motivi tale presenza non fosse
possibile, sono di fondamentale importanza nel creare un clima di reciproco
scambio e di arricchente comunicazione fra le varie età della vita. È
importante, perciò, che si conservi, o si ristabilisca dove è andato smarrito,
una sorta di « patto » tra le generazioni, così che i genitori anziani,
giunti al termine del loro cammino, possano trovare nei figli l'accoglienza e la
solidarietà che essi hanno avuto nei loro confronti quando s'affacciavano alla
vita: lo esige l'obbedienza al comando divino di onorare il padre e la madre
(cf. Es 20, 12; Lv 19, 3). Ma c'è di più. L'anziano non è da considerare solo
oggetto di attenzione, vicinanza e servizio. Anch'egli ha un prezioso contributo
da portare al Vangelo della vita. Grazie
al ricco patrimonio di esperienza acquisito lungo gli anni, può e deve essere dispensatore
di sapienza, testimone di speranza e di carità.
Se
è vero che « l'avvenire dell'umanità passa attraverso la famiglia »,122 si
deve riconoscere che le odierne condizioni sociali, economiche e culturali
rendono spesso più arduo e faticoso il compito della famiglia nel servire la
vita. Perché possa realizzare la sua vocazione di « santuario della vita »,
quale cellula di una società che ama e accoglie la vita, è necessario e
urgente che la famiglia stessa sia aiutata e sostenuta. Le società e gli Stati
le devono assicurare tutto quel sostegno, anche economico che è necessario
perché le famiglie possano rispondere in modo più umano ai propri problemi. Da
parte sua la Chiesa deve promuovere instancabilmente una pastorale familiare
capace di stimolare ogni famiglia a riscoprire e vivere con gioia e con coraggio
la sua missione nei confronti del Vangelo
della vita.
«
Comportatevi come i figli della luce »
(Ef
5, 8): per realizzare una svolta culturale
95.
« Comportatevi come i figli della luce... Cercate ciò che è gradito al
Signore, e non partecipate alle opere infruttuose delle tenebre » (Ef
5, 8.10-11). Nell'odierno contesto sociale, segnato da una drammatica lotta
tra la « cultura della vita » e la « cultura della morte », occorre far
maturare un forte senso critico, capace di discernere i veri valori e le
autentiche esigenze.
Urgono
una generale mobilitazione delle coscienze e un comune sforzo etico, per mettere in atto una grande strategia a favore della vita. Tutti insieme dobbiamo costruire
una nuova cultura della vita: nuova, perché in grado di affrontare e
risolvere gli inediti problemi di oggi circa la vita dell'uomo; nuova, perché
fatta propria con più salda e operosa convinzione da parte di tutti i
cristiani; nuova, perché capace di suscitare un serio e coraggioso confronto
culturale con tutti. L'urgenza di questa svolta culturale è legata alla
situazione storica che stiamo attraversando, ma si radica nella stessa missione
evangelizzatrice, propria della Chiesa. Il Vangelo, infatti, mira a «
trasformare dal di dentro, rendere nuova l'umanità »; 123 è come il lievito
che fermenta tutta la pasta (cf. Mt 13,
33) e, come tale, è destinato a permeare tutte le culture e ad animarle
dall'interno,124 perché esprimano l'intera verità sull'uomo e sulla sua vita.
Si
deve cominciare dal rinnovare la cultura della vita all'interno delle stesse comunità
cristiane. Troppo spesso i credenti, perfino quanti partecipano attivamente
alla vita ecclesiale, cadono in una sorta di dissociazione tra la fede cristiana
e le sue esigenze etiche a riguardo della vita, giungendo così al soggettivismo
morale e a taluni comportamenti inaccettabili. Dobbiamo allora interrogarci, con
grande lucidità e coraggio, su quale cultura della vita sia oggi diffusa tra i
singoli cristiani, le famiglie, i gruppi e le comunità delle nostre Diocesi.
Con altrettanta chiarezza e decisione, dobbiamo individuare quali passi siamo
chiamati a compiere per servire la vita secondo la pienezza della sua verità.
Nello stesso tempo, dobbiamo promuovere un confronto serio e approfondito con
tutti, anche con i non credenti, sui problemi fondamentali della vita umana, nei
luoghi dell'elaborazione del pensiero, come nei diversi ambiti professionali e là
dove si snoda quotidianamente l'esistenza di ciascuno.
96.
Il primo e fondamentale passo per realizzare questa svolta culturale consiste
nella formazione della coscienza morale circa il valore incommensurabile e
inviolabile di ogni vita umana. È di somma importanza riscoprire il nesso inscindibile tra vita e libertà. Sono beni
indivisibili: dove è violato l'uno, anche l'altro finisce per essere violato.
Non c'è libertà vera dove la vita non è accolta e amata; e non c'è vita
piena se non nella libertà. Ambedue queste realtà hanno poi un riferimento
nativo e peculiare, che le lega indissolubilmente: la vocazione all'amore.
Questo amore, come dono sincero di sé,125 è il senso più vero della vita e
della libertà della persona.
Non
meno decisiva nella formazione della coscienza è la
riscoperta del legame costitutivo che unisce la libertà alla verità. Come
ho ribadito più volte, sradicare la libertà dalla verità oggettiva rende
impossibile fondare i diritti della persona su una solida base razionale e pone
le premesse perché nella società si affermino l'arbitrio ingovernabile dei
singoli o il totalitarismo mortificante del pubblico potere.126
È
essenziale allora che l'uomo riconosca l'originaria evidenza della sua
condizione di creatura, che riceve da Dio l'essere e la vita come un dono e un
compito: solo ammettendo questa sua nativa dipendenza nell'essere, l'uomo può
realizzare in pienezza la sua vita e la sua libertà e insieme rispettare fino
in fondo la vita e la libertà di ogni altra persona. Qui soprattutto si svela
che « al centro di ogni cultura sta l'atteggiamento che l'uomo assume davanti
al mistero più grande: il mistero di Dio ».127 Quando si nega Dio e si vive
come se Egli non esistesse, o comunque non si tiene conto dei suoi comandamenti,
si finisce facilmente per negare o compromettere anche la dignità della persona
umana e l'inviolabilità della sua vita.
97.
Alla formazione della coscienza è strettamente connessal'opera
educativa, che aiuta l'uomo ad essere sempre più uomo, lo introduce sempre
più profondamente nella verità, lo indirizza verso un crescente rispetto della
vita, lo forma alle giuste relazioni tra le persone.
In
particolare, è necessario educare al valore della vitacominciando
dalle sue stesse radici. È un'illusione pensare di poter costruire una vera
cultura della vita umana, se non si aiutano i giovani a cogliere e a vivere la
sessualità, l'amore e l'intera esistenza secondo il loro vero significato e
nella loro intima correlazione. La sessualità, ricchezza di tutta la persona,
« manifesta il suo intimo significato nel portare la persona al dono di sé
nell'amore ».128 La banalizzazione della sessualità è tra i principali
fattori che stanno all'origine del disprezzo della vita nascente: solo un amore
vero sa custodire la vita. Non ci si può, quindi, esimere dall'offrire
soprattutto agli adolescenti e ai giovani l'autentica educazione
alla sessualità e all'amore, un'educazione implicante la formazione
alla castità, quale virtù che favorisce la maturità della persona e la
rende capace di rispettare il significato « sponsale » del corpo.
L'opera
di educazione alla vita comporta la formazione
dei coniugi alla procreazione responsabile. Questa, nel suo vero
significato, esige che gli sposi siano docili alla chiamata del Signore e
agiscano come fedeli interpreti del suo disegno: ciò avviene con l'aprire
generosamente la famiglia a nuove vite, e comunque rimanendo in atteggiamento di
apertura e di servizio alla vita anche quando, per seri motivi e nel rispetto
della legge morale, i coniugi scelgono di evitare temporaneamente o a tempo
indeterminato una nuova nascita. La legge morale li obbliga in ogni caso a
governare le tendenze dell'istinto e delle passioni e a rispettare le leggi
biologiche iscritte nella loro persona. Proprio tale rispetto rende legittimo, a
servizio della responsabilità nel procreare, il
ricorso ai metodi naturali di regolazione della fertilità: essi vengono
sempre meglio precisati dal punto di vista scientifico e offrono possibilità
concrete per scelte in armonia con i valori morali. Una onesta considerazione
dei risultati raggiunti dovrebbe far cadere pregiudizi ancora troppo diffusi e
convincere i coniugi nonché gli operatori sanitari e sociali circa l'importanza
di un'adeguata formazione al riguardo. La Chiesa è riconoscente verso coloro
che con sacrificio personale e dedizione spesso misconosciuta si impegnano nella
ricerca e nella diffusione di tali metodi, promovendo al tempo stesso
un'educazione ai valori morali che il loro uso suppone.
L'opera
educativa non può non prendere in considerazione anche la sofferenza e la
morte. In realtà, esse fanno parte dell'esperienza umana, ed è vano, oltre
che fuorviante, cercare di censurarle e rimuoverle. Ciascuno invece deve essere
aiutato a coglierne, nella concreta e dura realtà, il mistero profondo. Anche
il dolore e la sofferenza hanno un senso e un valore, quando sono vissuti in
stretta connessione con l'amore ricevuto e donato. In questa prospettiva ho
voluto che si celebrasse ogni anno la Giornata
Mondiale del Malato, sottolineando « l'indole salvifica dell'offerta della
sofferenza, che vissuta in comunione con Cristo appartiene all'essenza stessa
della redenzione ».129 Del resto perfino la morte è tutt'altro che
un'avventura senza speranza: è la porta dell'esistenza che si spalanca
sull'eternità e, per quanti la vivono in Cristo, è esperienza di
partecipazione al suo mistero di morte e risurrezione.
98.
In sintesi, possiamo dire che la svolta culturale qui auspicata esige da tutti
il coraggio di assumere un nuovo stile di vita che s'esprime nel porre a fondamento
delle scelte concrete — a livello personale, familiare, sociale e
internazionale — la giusta scala dei valori: il primato dell'essere sull'avere,130 della persona sulle cose.131 Questo rinnovato stile di vita implica
anche il passaggio dall'indifferenza
all'interessamento per l'altro e dal rifiuto alla sua accoglienza: gli altri
non sono concorrenti da cui difenderci, ma fratelli e sorelle con cui essere
solidali; sono da amare per se stessi; ci arricchiscono con la loro stessa
presenza.
Nella
mobilitazione per una nuova cultura della vita nessuno si deve sentire escluso: tutti
hanno un ruolo importante da svolgere. Insieme con quello delle famiglie,
particolarmente prezioso è il compito degli insegnanti
e degli educatori. Molto dipenderà
da loro se i giovani, formati ad una vera libertà, sapranno custodire dentro di
sé e diffondere intorno a sé ideali autentici di vita e sapranno crescere nel
rispetto e nel servizio di ogni persona, in famiglia e nella società.
Anche
gli intellettuali possono fare molto
per costruire una nuova cultura della vita umana. Un compito particolare spetta
agli intellettuali cattolici, chiamati a rendersi attivamente presenti nelle sedi
privilegiate dell'elaborazione culturale, nel mondo della scuola e delle
università, negli ambienti della ricerca scientifica e tecnica, nei luoghi
della creazione artistica e della riflessione umanistica. Alimentando il loro
genio e la loro azione alle chiare linfe del Vangelo, si devono impegnare a
servizio di una nuova cultura della vita con la produzione di contributi seri,
documentati e capaci di imporsi per i loro pregi al rispetto e all'interesse di
tutti. Proprio in questa prospettiva ho istituito la Pontificia Accademia per la Vita con il compito di « studiare,
informare e formare circa i principali problemi di biomedicina e di diritto,
relativi alla promozione e alla difesa della vita, soprattutto nel diretto
rapporto che essi hanno con la morale cristiana e le direttive del magistero
della Chiesa ».132 Uno specifico apporto dovrà venire anche dalle Università,
in particolare da quellecattoliche, e
dai Centri, Istituti e Comitati di bioetica.
Grande
e grave è la responsabilità degli operatori
dei mass media, chiamati ad adoperarsi perché i messaggi trasmessi con
tanta efficacia contribuiscano alla cultura della vita. Devono allora presentare
esempi alti e nobili di vita e dare spazio alle testimonianze positive e
talvolta eroiche di amore all'uomo; proporre con grande rispetto i valori della
sessualità e dell'amore, senza indugiare su ciò che deturpa e svilisce la
dignità dell'uomo. Nella lettura della realtà, devono rifiutare di mettere in
risalto quanto può insinuare o far crescere sentimenti o atteggiamenti di
indifferenza, di disprezzo o di rifiuto nei confronti della vita. Nella
scrupolosa fedeltà alla verità dei fatti, sono chiamati a coniugare insieme la
libertà di informazione, il rispetto di ogni persona e un profondo senso di
umanità.
99.
Nella svolta culturale a favore della vita le
donne hanno uno spazio di pensiero e di azione singolare e forse
determinante: tocca a loro di farsi promotrici di un « nuovo femminismo » che,
senza cadere nella tentazione di rincorrere modelli « maschilisti », sappia
riconoscere ed esprimere il vero genio femminile in tutte le manifestazioni
della convivenza civile, operando per il superamento di ogni forma di
discriminazione, di violenza e di sfruttamento.
Riprendendo
le parole del messaggio conclusivo del Concilio Vaticano II, rivolgo anch'io
alle donne il pressante invito: «
Riconciliate gli uomini con la vita ».133 Voi siete chiamate a
testimoniare il senso dell'amore autentico, di quel dono di sé e di quella
accoglienza dell'altro che si realizzano in modo specifico nella relazione
coniugale, ma che devono essere l'anima di ogni altra relazione interpersonale.
L'esperienza della maternità favorisce in voi una sensibilità acuta per
l'altra persona e, nel contempo, vi conferisce un compito particolare: « La
maternità contiene in sé una speciale comunione col mistero della vita, che
matura nel seno della donna... Questo modo unico di contatto col nuovo uomo che
si sta formando crea a sua volta un atteggiamento verso l'uomo — non solo
verso il proprio figlio, ma verso l'uomo in genere — tale da caratterizzare
profondamente tutta la personalità della donna ».134 La madre, infatti,
accoglie e porta in sé un altro, gli dà modo di crescere dentro di sé, gli fa
spazio, rispettandolo nella sua alterità. Così, la donna percepisce e insegna
che le relazioni umane sono autentiche se si aprono all'accoglienza dell'altra
persona, riconosciuta e amata per la dignità che le deriva dal fatto di essere
persona e non da altri fattori, quali l'utilità, la forza, l'intelligenza, la
bellezza, la salute. Questo è il contributo fondamentale che la Chiesa e
l'umanità si attendono dalle donne. Ed è la premessa insostituibile per
un'autentica svolta culturale.
Un
pensiero speciale vorrei riservare a voi, donne
che avete fatto ricorso all'aborto. La Chiesa sa quanti condizionamenti
possono aver influito sulla vostra decisione, e non dubita che in molti casi s'è
trattato d'una decisione sofferta, forse drammatica. Probabilmente la ferita nel
vostro animo non s'è ancor rimarginata. In realtà, quanto è avvenuto è stato
e rimane profondamente ingiusto. Non lasciatevi prendere, però, dallo
scoraggiamento e non abbandonate la speranza. Sappiate comprendere, piuttosto,
ciò che si è verificato e interpretatelo nella sua verità. Se ancora non
l'avete fatto, apritevi con umiltà e fiducia al pentimento: il Padre di ogni
misericordia vi aspetta per offrirvi il suo perdono e la sua pace nel sacramento
della Riconciliazione.
A questo stesso Padre e alla sua misericordia voi potete affidare
con speranza il vostro bambino. Aiutate dal consiglio
e dalla vicinanza di persone amiche e competenti, potrete essere con la vostra
sofferta testimonianza tra i più eloquenti difensori del diritto di tutti alla
vita. Attraverso il vostro impegno per la vita, coronato eventualmente dalla
nascita di nuove creature ed esercitato con l'accoglienza e l'attenzione verso
chi è più bisognoso di vicinanza, sarete artefici di un nuovo modo di guardare
alla vita dell'uomo.
100.
In questo grande sforzo per una nuova cultura della vita siamo sostenuti
e animati dalla fiducia di chi sa che il Vangelo
della vita, come il Regno di Dio, cresce e dà i suoi frutti abbondanti (cf.
Mc 4, 26-29). È certamente enorme la
sproporzione che esiste tra i mezzi, numerosi e potenti, di cui sono dotate le
forze operanti a sostegno della « cultura della morte » e quelli di cui
dispongono i promotori di una « cultura della vita e dell'amore ». Ma noi
sappiamo di poter confidare sull'aiuto di Dio, al quale nulla è impossibile
(cf. Mt 19, 26).
Con
questa certezza nel cuore, e mosso da accorata sollecitudine per le sorti di
ogni uomo e donna, ripeto oggi a tutti quanto ho detto alle famiglie impegnate
nei loro difficili compiti fra le insidie che le minacciano: 135 èurgente
una grande preghiera per la vita, che attraversi il mondo intero. Con
iniziative straordinarie e nella preghiera abituale, da ogni comunità
cristiana, da ogni gruppo o associazione, da ogni famiglia e dal cuore di ogni
credente, si elevi una supplica appassionata a Dio, Creatore e amante della
vita. Gesù stesso ci ha mostrato col suo esempio che preghiera e digiuno sono
le armi principali e più efficaci contro le forze del male (cf. Mt
4, 1-11) e ha insegnato ai suoi discepoli che alcuni demoni non si scacciano
se non in questo modo (cf. Mc 9, 29).
Ritroviamo, dunque, l'umiltà e il coraggio di pregare
e digiunare, per ottenere che la forza che viene dall'Alto faccia crollare i
muri di inganni e di menzogne, che nascondono agli occhi di tanti nostri
fratelli e sorelle la natura perversa di comportamenti e di leggi ostili alla
vita, e apra i loro cuori a propositi e intenti ispirati alla civiltà della
vita e dell'amore.
«
Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta »
(1
Gv 1, 4): il Vangelo della vita è per la città degli uomini
101.
« Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta » (1
Gv 1, 4). La rivelazione del Vangelo
della vita ci è data come bene da comunicare a tutti: perché tutti gli
uomini siano in comunione con noi e con la Trinità (cf. 1
Gv 1, 3). Neppure noi potremmo essere nella gioia piena se non comunicassimo
questo Vangelo agli altri, ma lo tenessimo solo per noi stessi.
Il
Vangelo della vita non è
esclusivamente per i credenti: è per tutti. La questione della vita e della sua difesa e
promozione non è prerogativa dei soli cristiani. Anche se dalla fede riceve
luce e forza straordinarie, essa appartiene ad ogni coscienza umana che aspira
alla verità ed è attenta e pensosa per le sorti dell'umanità. Nella vita c'è
sicuramente un valore sacro e religioso, ma in nessun modo esso interpella solo
i credenti: si tratta, infatti, di un valore che ogni essere umano può cogliere
anche alla luce della ragione e che perciò riguarda necessariamente tutti.
Per
questo, la nostra azione di « popolo della vita e per la vita » domanda di
essere interpretata in modo giusto e accolta con simpatia. Quando la Chiesa
dichiara che il rispetto incondizionato del diritto alla vita di ogni persona
innocente — dal concepimento alla sua morte naturale — è uno dei pilastri
su cui si regge ogni società civile, essa « vuole semplicemente
promuovere uno Stato umano. Uno Stato che riconosca come suo primario dovere
la difesa dei diritti fondamentali della persona umana, specialmente di quella
più debole ».136
Il
Vangelo della vita è per la città degli
uomini. Agire a favore della vita è contribuire al rinnovamento
della società mediante l'edificazione del bene comune. Non è possibile,
infatti, costruire il bene comune senza riconoscere e tutelare il diritto alla
vita, su cui si fondano e si sviluppano tutti gli altri diritti inalienabili
dell'essere umano. Né può avere solide basi una società che — mentre
afferma valori quali la dignità della persona, la giustizia e la pace — si
contraddice radicalmente accettando o tollerando le più diverse forme di
disistima e violazione della vita umana, soprattutto se debole ed emarginata.
Solo il rispetto della vita può fondare e garantire i beni più preziosi e
necessari della società, come la democrazia e la pace.
Infatti,
non ci può essere vera democrazia, se
non si riconosce la dignità di ogni persona e non se ne rispettano i diritti.
Non
ci può essere neppure vera pace, se
non si difende e promuove la vita, come ricordava Paolo VI: « Ogni
delitto contro la vita è un attentato contro la pace, specialmente se esso
intacca il costume del popolo..., mentre dove i diritti dell'uomo sono realmente
professati e pubblicamente riconosciuti e difesi, la pace diventa l'atmosfera
lieta e operosa della convivenza sociale ».137
Il
« popolo della vita » gioisce di poter condividere con tanti altri il suo
impegno, così che sempre più numeroso sia il « popolo per la vita » e la
nuova cultura dell'amore e della solidarietà possa crescere per il vero bene
della città degli uomini.
CONCLUSIONE
102.
Al termine di questa Enciclica, lo sguardo ritorna spontaneamente al Signore Gesù,
il « Bambino nato per noi » (cf. Is 9,
5) per contemplare in lui « la Vita » che « si è manifestata » (1
Gv 1, 2). Nel mistero di questa nascita si compie l'incontro di Dio con
l'uomo e ha inizio il cammino del Figlio di Dio sulla terra, un cammino che
culminerà nel dono della vita sulla Croce: con la sua morte Egli vincerà la
morte e diventerà per l'umanità intera principio di vita nuova.
Ad
accogliere « la Vita » a nome di tutti e a vantaggio di tutti è stata Maria,
la Vergine Madre, la quale ha quindi legami personali strettissimi con il Vangelo
della vita. Il consenso di Maria all'Annunciazione e la sua maternità si
trovano alla sorgente stessa del mistero della vita che Cristo è venuto a
donare agli uomini (cf. Gv 10, 10).
Attraverso la sua accoglienza e la sua cura premurosa per la vita del Verbo
fatto carne, la vita dell'uomo è stata sottratta alla condanna della morte
definitiva ed eterna.
Per
questo Maria « è madre di tutti coloro che rinascono alla vita, proprio come
la Chiesa di cui è modello. È madre di quella vita di cui tutti vivono.
Generando la vita, ha come rigenerato coloro che di questa vita dovevano vivere
».138
Contemplando
la maternità di Maria, la Chiesa scopre il senso della propria maternità e il
modo con cui è chiamata ad esprimerla. Nello stesso tempo l'esperienza materna
della Chiesa dischiude la prospettiva più profonda per comprendere l'esperienza
di Maria quale incomparabile modello di
accoglienza e di cura della vita.
«
Nel cielo apparve un segno grandioso: una donna vestita di sole »
(Ap
12, 1): la maternità di Maria e della Chiesa
103.
Il rapporto reciproco tra il mistero della Chiesa e Maria si manifesta con
chiarezza nel « segno grandioso » descritto nell'Apocalisse: « Nel cielo
apparve poi un segno grandioso: una donna vestita di sole, con la luna sotto i
suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle » (12,1). In questo segno
la Chiesa riconosce una immagine del proprio mistero: immersa nella storia, essa
è consapevole di trascenderla, in quanto costituisce sulla terra il « germe e
l'inizio » del Regno di Dio.139 Questo mistero la Chiesa lo vede realizzato in
modo pieno ed esemplare in Maria. È Lei la donna gloriosa, nella quale il
disegno di Dio si è potuto attuare con somma perfezione.
La
« donna vestita di sole » — rileva il Libro dell'Apocalisse — « era
incinta » (12, 2). La Chiesa è pienamente consapevole di portare in sé il
Salvatore del mondo, Cristo Signore, e di essere chiamata a donarlo al mondo,
rigenerando gli uomini alla vita stessa di Dio. Non può però dimenticare che
questa sua missione è stata resa possibile dalla maternità di Maria, che ha
concepito e dato alla luce colui che è « Dio da Dio », « Dio vero da Dio
vero ». Maria è veramente Madre di Dio, la Theotokos
nella cui maternità è esaltata al sommo grado la vocazione alla maternità
inscritta da Dio in ogni donna. Così Maria si pone come modello per la Chiesa,
chiamata ad essere la « nuova Eva », madre dei credenti, madre dei « viventi
» (cf. Gn 3, 20).
La
maternità spirituale della Chiesa non si realizza — anche di questo la Chiesa
è consapevole — se non in mezzo alle doglie e al « travaglio del parto » (Ap
12, 2), cioè nella perenne tensione con le forze del male, che continuano
ad attraversare il mondo ed a segnare il cuore degli uomini, facendo resistenza
a Cristo: « In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce
splende nelle tenebre, ma le tenebre non l'hanno accolta » (Gv
1, 4-5).
Come
la Chiesa, anche Maria ha dovuto vivere la sua maternità nel segno della
sofferenza: « Egli è qui... segno di contraddizione perché siano svelati i
pensieri di molti cuori. E anche a te una spada trafiggerà l'anima » (Lc
2, 34-35). Nelle parole che, agli albori stessi dell'esistenza del
Salvatore, Simeone rivolge a Maria è sinteticamente raffigurato quel rifiuto
nei confronti di Gesù, e con Lui di Maria, che giungerà al suo vertice sul
Calvario. « Presso la croce di Gesù » (Gv
19, 25), Maria partecipa al dono che il Figlio fa di sé: offre Gesù, lo
dona, lo genera definitivamente per noi. Il « sì » del giorno
dell'Annunciazione matura in pienezza nel giorno della Croce, quando per Maria
giunge il tempo di accogliere e di generare come figlio ogni uomo divenuto
discepolo, riversando su di lui l'amore redentore del Figlio: « Gesù allora,
vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla
madre: "Donna, ecco il tuo figlio" » (Gv
19, 26).
«
Il drago si pose davanti alla donna... per divorare il bambino appena nato »
(Ap
12, 4): la vita insidiata dalle forze
del male
104.
Nel Libro dell'Apocalisse il « segno grandioso » della « donna » (12, 1) è
accompagnato da « un altro segno nel cielo »: « un enorme drago rosso » (12,
3), che raffigura Satana, potenza personale malefica, e insieme tutte le forze
del male che operano nella storia e contrastano la missione della Chiesa.
Anche
in questo Maria illumina la Comunità dei Credenti: l'ostilità delle forze del
male è, infatti, una sorda opposizione che, prima di toccare i discepoli di Gesù,
si rivolge contro sua Madre. Per salvare la vita del Figlio da quanti lo temono
come una pericolosa minaccia, Maria deve fuggire con Giuseppe e il Bambino in
Egitto (cf. Mt 2, 13-15).
Maria
aiuta così la Chiesa a prendere coscienza
che la vita è sempre al centro di una grande lotta tra il bene e il male,
tra la luce e le tenebre. Il drago vuole divorare « il bambino appena nato » (Ap 12, 4), figura di Cristo, che Maria genera nella « pienezza del
tempo » (Gal 4, 4) e che la Chiesa
deve continuamente offrire agli uomini nelle diverse epoche della storia. Ma in
qualche modo è anche figura di ogni uomo, di ogni bambino, specie di ogni
creatura debole e minacciata, perché — come ricorda il Concilio — « con la
sua incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo ».140
Proprio nella « carne » di ogni uomo, Cristo continua a rivelarsi e ad entrare
in comunione con noi, così che il rifiuto
della vita dell'uomo, nelle sue diverse forme, è realmente rifiuto di Cristo. È questa la verità affascinante ed
insieme esigente che Cristo ci svela e che la sua Chiesa ripropone
instancabilmente: « Chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio,
accoglie me » (Mt 18, 5); « In verità
vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più
piccoli, l'avete fatto a me » (Mt 25,
40).
«
Non ci sarà più la morte »
(Ap
21, 4): lo splendore della risurrezione
105.
L'annunciazione dell'angelo a Maria è racchiusa tra queste parole rassicuranti:
« Non temere, Maria » e « Nulla è impossibile a Dio » (Lc
1, 30.37). In verità, tutta l'esistenza della Vergine Madre è avvolta
dalla certezza che Dio le è vicino e l'accompagna con la sua provvidente
benevolenza. Così è anche della Chiesa, che trova « un rifugio » (Ap
12, 6) nel deserto, luogo della prova ma anche della manifestazione
dell'amore di Dio verso il suo popolo (cf. Os
2, 16). Maria è vivente parola di consolazione per la Chiesa nella sua
lotta contro la morte. Mostrandoci il Figlio, ella ci assicura che in lui le
forze della morte sono già state sconfitte: « Morte e vita si sono affrontate
in un prodigioso duello. Il Signore della vita era morto; ma ora, vivo, trionfa
».141
L'Agnello
immolato vive con i segni della passione nello splendore della risurrezione.
Solo lui domina tutti gli eventi della storia: ne scioglie i « sigilli » (cf. Ap
5, 1-10) e afferma, nel tempo e oltre il tempo, il potere della vita sulla morte. Nella « nuova Gerusalemme »,
ossia nel mondo nuovo, verso cui tende la storia degli uomini, « non
ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose
di prima sono passate » (Ap 21, 4).
E
mentre, come popolo pellegrinante, popolo della vita e per la vita, camminiamo
fiduciosi verso « un nuovo cielo e una nuova terra » (Ap
21, 1), volgiamo lo sguardo a Colei che è per noi « segno di sicura
speranza e di consolazione ».142
O
Maria, Dato a Roma, presso San Pietro, il 25 marzo, solennità dell'Annunciazione del Signore, dell'anno 1995, decimosettimo di Pontificato. GIOVANNI PAOLO II
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