LETTERA ENCICLICA |
Venerati Fratelli nell'Episcopato,
INTRODUZIONE
« CONOSCI TE STESSO »
1. Sia in Oriente che in Occidente, è possibile ravvisare
un cammino che, nel corso dei secoli, ha portato l'umanità a incontrarsi
progressivamente con la verità e a confrontarsi con essa. E un cammino che
s'è svolto né poteva essere altrimenti — entro l'orizzonte
dell'autocoscienza personale: più l'uomo conosce la realtà e il mondo e
più conosce se stesso nella sua unicità, mentre gli diventa sempre più
impellente la domanda sul senso delle cose e della sua stessa esistenza.
Quanto viene a porsi come oggetto della nostra conoscenza
diventa per ciò stesso parte della nostra vita. Il monito Conosci te
stesso era scolpito sull'architrave del tempio di Delfi, a
testimonianza di una verità basilare che deve essere assunta come regola
minima da ogni uomo desideroso di distinguersi, in mezzo a tutto il
creato, qualificandosi come « uomo » appunto in quanto « conoscitore di se
stesso ».
Un semplice sguardo alla storia antica, d'altronde, mostra
con chiarezza come in diverse parti della terra, segnate da culture
differenti, sorgano nello stesso tempo le domande di fondo che
caratterizzano il percorso dell'esistenza umana: chi sono? da dove
vengo e dove vado? perché la presenza del male? cosa ci sarà dopo questa
vita? Questi interrogativi sono presenti negli scritti sacri di
Israele, ma compaiono anche nei Veda non meno che negli Avesta; li
troviamo negli scritti di Confucio e Lao-Tze come pure nella predicazione
dei Tirthankara e di Buddha; sono ancora essi ad affiorare nei poemi di
Omero e nelle tragedie di Euripide e Sofocle come pure nei trattati
filosofici di Platone ed Aristotele. Sono domande che hanno la loro comune
scaturigine nella richiesta di senso che da sempre urge nel cuore
dell'uomo: dalla risposta a tali domande, infatti, dipende l'orientamento
da imprimere all'esistenza.
2. La Chiesa non è estranea, né può esserlo, a questo
cammino di ricerca. Da quando, nel Mistero pasquale, ha ricevuto in dono
la verità ultima sulla vita dell'uomo, essa s'è fatta pellegrina per le
strade del mondo per annunciare che Gesù Cristo è « la via, la verità e la
vita » (Gv 14, 6). Tra i diversi servizi che essa deve offrire
all'umanità, uno ve n'è che la vede responsabile in modo del tutto
peculiare: è la diaconia alla verità.(1) Questa missione, da una
parte, rende la comunità credente partecipe dello sforzo comune che
l'umanità compie per raggiungere la verità; (2) dall'altra, la obbliga a
farsi carico dell'annuncio delle certezze acquisite, pur nella
consapevolezza che ogni verità raggiunta è sempre solo una tappa verso
quella piena verità che si manifesterà nella rivelazione ultima di Dio: «
Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo
faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò
perfettamente » (1 Cor 13, 12).
3. Molteplici sono le risorse che l'uomo possiede per
promuovere il progresso nella conoscenza della verità, così da rendere la
propria esistenza sempre più umana. Tra queste emerge la filosofia,
che contribuisce direttamente a porre la domanda circa il senso della vita
e ad abbozzarne la risposta: essa, pertanto, si configura come uno dei
compiti più nobili dell'umanità. Il termine filosofia, secondo
l'etimologia greca, significa « amore per la saggezza ». Di fatto, la
filosofia è nata e si è sviluppata nel momento in cui l'uomo ha iniziato a
interrogarsi sul perché delle cose e sul loro fine. In modi e forme
differenti, essa mostra che il desiderio di verità appartiene alla stessa
natura dell'uomo. E una proprietà nativa della sua ragione interrogarsi
sul perché delle cose, anche se le risposte via via date si inseriscono in
un orizzonte che rende evidente la complementarità delle differenti
culture in cui l'uomo vive.
La forte incidenza che la filosofia ha avuto nella
formazione e nello sviluppo delle culture in Occidente non deve farci
dimenticare l'influsso che essa ha esercitato anche nei modi di concepire
l'esistenza di cui vive l'Oriente. Ogni popolo, infatti, possiede una sua
indigena e originaria saggezza che, quale autentica ricchezza delle
culture, tende a esprimersi e a maturare anche in forme prettamente
filosofiche. Quanto questo sia vero lo dimostra il fatto che una forma
basilare di sapere filosofico, presente fino ai nostri giorni, è
verificabile perfino nei postulati a cui le diverse legislazioni nazionali
e internazionali si ispirano nel regolare la vita sociale.
4. È, comunque, da rilevare che dietro un unico termine si
nascondono significati differenti. Un'esplicitazione preliminare si rende
pertanto necessaria. Spinto dal desiderio di scoprire la verità ultima
dell'esistenza, l'uomo cerca di acquisire quelle conoscenze universali che
gli consentono di comprendersi meglio e di progredire nella realizzazione
di sé. Le conoscenze fondamentali scaturiscono dalla meraviglia
suscitata in lui dalla contemplazione del creato: l'essere umano è colto
dallo stupore nello scoprirsi inserito nel mondo, in relazione con altri
suoi simili dei quali condivide il destino. Parte di qui il cammino che lo
porterà poi alla scoperta di orizzonti di conoscenza sempre nuovi. Senza
meraviglia l'uomo cadrebbe nella ripetitività e, poco alla volta,
diventerebbe incapace di un'esistenza veramente personale.
La capacità speculativa, che è propria dell'intelletto
umano, porta ad elaborare, mediante l'attività filosofica, una forma di
pensiero rigoroso e a costruire così, con la coerenza logica delle
affermazioni e l'organicità dei contenuti, un sapere sistematico. Grazie a
questo processo, in differenti contesti culturali e in diverse epoche, si
sono raggiunti risultati che hanno portato all'elaborazione di veri
sistemi di pensiero. Storicamente ciò ha spesso esposto alla tentazione di
identificare una sola corrente con l'intero pensiero filosofico. E però
evidente che, in questi casi, entra in gioco una certa « superbia
filosofica » che pretende di erigere la propria visione prospettica e
imperfetta a lettura universale. In realtà, ogni sistema
filosofico, pur rispettato sempre nella sua interezza senza
strumentalizzazioni di sorta, deve riconoscere la priorità del pensare
filosofico, da cui trae origine e a cui deve servire in forma
coerente.
In questo senso è possibile riconoscere, nonostante il
mutare dei tempi e i progressi del sapere, un nucleo di conoscenze
filosofiche la cui presenza è costante nella storia del pensiero. Si
pensi, solo come esempio, ai principi di non contraddizione, di finalità,
di causalità, come pure alla concezione della persona come soggetto libero
e intelligente e alla sua capacità di conoscere Dio, la verità, il bene;
si pensi inoltre ad alcune norme morali fondamentali che risultano
comunemente condivise. Questi e altri temi indicano che, a prescindere
dalle correnti di pensiero, esiste un insieme di conoscenze in cui è
possibile ravvisare una sorta di patrimonio spirituale dell'umanità. E
come se ci trovassimo dinanzi a una filosofia implicita per cui
ciascuno sente di possedere questi principi, anche se in forma generica e
non riflessa. Queste conoscenze, proprio perché condivise in qualche
misura da tutti, dovrebbero costituire come un punto di riferimento delle
diverse scuole filosofiche. Quando la ragione riesce a intuire e a
formulare i principi primi e universali dell'essere e a far correttamente
scaturire da questi conclusioni coerenti di ordine logico e deontologico,
allora può dirsi una ragione retta o, come la chiamavano gli antichi,
orthòs logos, recta ratio.
5. La Chiesa, da parte sua, non può che apprezzare
l'impegno della ragione per il raggiungimento di obiettivi che rendano
l'esistenza personale sempre più degna. Essa infatti vede nella filosofia
la via per conoscere fondamentali verità concernenti l'esistenza
dell'uomo. Al tempo stesso, considera la filosofia un aiuto indispensabile
per approfondire l'intelligenza della fede e per comunicare la verità del
Vangelo a quanti ancora non la conoscono.
Facendo pertanto seguito ad analoghe iniziative dei miei
Predecessori, desidero anch'io rivolgere lo sguardo a questa peculiare
attività della ragione. Mi ci spinge il rilievo che, soprattutto ai nostri
giorni, la ricerca della verità ultima appare spesso offuscata. Senza
dubbio la filosofia moderna ha il grande merito di aver concentrato la sua
attenzione sull'uomo. A partire da qui, una ragione carica di
interrogativi ha sviluppato ulteriormente il suo desiderio di conoscere
sempre di più e sempre più a fondo. Sono stati così costruiti sistemi di
pensiero complessi, che hanno dato i loro frutti nei diversi ambiti del
sapere, favorendo lo sviluppo della cultura e della storia.
L'antropologia, la logica, le scienze della natura, la storia, il
linguaggio..., in qualche modo l'intero universo del sapere è stato
abbracciato. I positivi risultati raggiunti non devono, tuttavia, indurre
a trascurare il fatto che quella stessa ragione, intenta ad indagare in
maniera unilaterale sull'uomo come soggetto, sembra aver dimenticato che
questi è pur sempre chiamato ad indirizzarsi verso una verità che lo
trascende. Senza il riferimento ad essa, ciascuno resta in balia
dell'arbitrio e la sua condizione di persona finisce per essere valutata
con criteri pragmatici basati essenzialmente sul dato sperimentale,
nell'errata convinzione che tutto deve essere dominato dalla tecnica. E
così accaduto che, invece di esprimere al meglio la tensione verso la
verità, la ragione sotto il peso di tanto sapere si è curvata su se stessa
diventando, giorno dopo giorno, incapace di sollevare lo sguardo verso
l'alto per osare di raggiungere la verità dell'essere. La filosofia
moderna, dimenticando di orientare la sua indagine sull'essere, ha
concentrato la propria ricerca sulla conoscenza umana. Invece di far leva
sulla capacità che l'uomo ha di conoscere la verità, ha preferito
sottolinearne i limiti e i condizionamenti.
Ne sono derivate varie forme di agnosticismo e di
relativismo, che hanno portato la ricerca filosofica a smarrirsi nelle
sabbie mobili di un generale scetticismo. Di recente, poi, hanno assunto
rilievo diverse dottrine che tendono a svalutare perfino quelle verità che
l'uomo era certo di aver raggiunte. La legittima pluralità di posizioni ha
ceduto il posto ad un indifferenziato pluralismo, fondato sull'assunto che
tutte le posizioni si equivalgono: è questo uno dei sintomi più diffusi
della sfiducia nella verità che è dato verificare nel contesto
contemporaneo. A questa riserva non sfuggono neppure alcune concezioni di
vita che provengono dall'Oriente; in esse, infatti, si nega alla verità il
suo carattere esclusivo, partendo dal presupposto che essa si manifesta in
modo uguale in dottrine diverse, persino contraddittorie tra di loro. In
questo orizzonte, tutto è ridotto a opinione. Si ha l'impressione di un
movimento ondivago: la riflessione filosofica mentre, da una parte, è
riuscita a immettersi sulla strada che la rende sempre più vicina
all'esistenza umana e alle sue forme espressive, dall'altra, tende a
sviluppare considerazioni esistenziali, ermeneutiche o linguistiche che
prescindono dalla questione radicale circa la verità della vita personale,
dell'essere e di Dio. Di conseguenza, sono emersi nell'uomo contemporaneo,
e non soltanto presso alcuni filosofi, atteggiamenti di diffusa sfiducia
nei confronti delle grandi risorse conoscitive dell'essere umano. Con
falsa modestia ci si accontenta di verità parziali e provvisorie, senza
più tentare di porre domande radicali sul senso e sul fondamento ultimo
della vita umana, personale e sociale. E venuta meno, insomma, la speranza
di poter ricevere dalla filosofia risposte definitive a tali domande.
6. Forte della competenza che le deriva dall'essere
depositaria della Rivelazione di Gesù Cristo, la Chiesa intende
riaffermare la necessità della riflessione sulla verità. E per questo
motivo che ho deciso di rivolgermi a voi, Venerati Confratelli
nell'Episcopato, con i quali condivido la missione di annunziare «
apertamente la verità » (2 Cor 4, 2), come pure ai teologi e ai
filosofi a cui spetta il dovere di indagare sui diversi aspetti della
verità, ed anche alle persone che sono in ricerca, per partecipare alcune
riflessioni sul cammino che conduce alla vera sapienza, affinché chiunque
ha nel cuore l'amore per essa possa intraprendere la giusta strada per
raggiungerla e trovare in essa riposo alla sua fatica e gaudio spirituale.
Mi spinge a questa iniziativa, anzitutto, la consapevolezza
che viene espressa dalle parole del Concilio Vaticano II, quando afferma
che i Vescovi sono « testimoni della divina e cattolica verità ».(3)
Testimoniare la verità è, dunque, un compito che è stato affidato a noi
Vescovi; ad esso non possiamo rinunciare senza venir meno al ministero che
abbiamo ricevuto. Riaffermando la verità della fede, possiamo ridare
all'uomo del nostro tempo genuina fiducia nelle sue capacità conoscitive e
offrire alla filosofia una provocazione perché possa recuperare e
sviluppare la sua piena dignità.
Un ulteriore motivo mi induce a stendere queste
riflessioni. Nella Lettera enciclica Veritatis splendor, ho
richiamato l'attenzione su « alcune verità fondamentali della dottrina
cattolica che nell'attuale contesto rischiano di essere deformate o negate
».(4) Con la presente Lettera, desidero continuare quella riflessione
concentrando l'attenzione sul tema stesso della verità e sul suo
fondamento in rapporto alla fede. Non si può negare, infatti,
che questo periodo di rapidi e complessi cambiamenti esponga soprattutto
le giovani generazioni, a cui appartiene e da cui dipende il futuro, alla
sensazione di essere prive di autentici punti di riferimento. L'esigenza
di un fondamento su cui costruire l'esistenza personale e sociale si fa
sentire in maniera pressante soprattutto quando si è costretti a costatare
la frammentarietà di proposte che elevano l'effimero al rango di valore,
illudendo sulla possibilità di raggiungere il vero senso dell'esistenza.
Accade così che molti trascinano la loro vita fin quasi sull'orlo del
baratro, senza sapere a che cosa vanno incontro. Ciò dipende anche dal
fatto che talvolta chi era chiamato per vocazione a esprimere in forme
culturali il frutto della propria speculazione, ha distolto lo sguardo
dalla verità, preferendo il successo nell'immediato alla fatica di una
indagine paziente su ciò che merita di essere vissuto. La filosofia, che
ha la grande responsabilità di formare il pensiero e la cultura attraverso
il richiamo perenne alla ricerca del vero, deve recuperare con forza la
sua vocazione originaria. E per questo che ho sentito non solo l'esigenza,
ma anche il dovere di intervenire su questo tema, perché l'umanità, alla
soglia del terzo millennio dell'era cristiana, prenda più chiara coscienza
delle grandi risorse che le sono state concesse, e s'impegni con rinnovato
coraggio nell'attuazione del piano di salvezza nel quale è inserita la sua
storia.
CAPITOLO I
LA RIVELAZIONE
DELLA SAPIENZA DI DIO
Gesù rivelatore del Padre
7. Alla base di ogni riflessione che la Chiesa compie vi è
la consapevolezza di essere depositaria di un messaggio che ha la sua
origine in Dio stesso (cfr 2 Cor 4, 1-2). La conoscenza che essa
propone all'uomo non le proviene da una sua propria speculazione, fosse
anche la più alta, ma dall'aver accolto nella fede la parola di Dio (cfr
1 Tess 2, 13). All'origine del nostro essere credenti vi è un
incontro, unico nel suo genere, che segna il dischiudersi di un mistero
nascosto nei secoli (cfr 1 Cor 2, 7; Rm 16, 25-26), ma ora
rivelato: « Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso e
far conoscere il mistero della sua volontà (cfr Ef 1, 9), mediante
il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito
Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della divina natura
».(5) E, questa, un'iniziativa pienamente gratuita, che parte da Dio per
raggiungere l'umanità e salvarla. Dio, in quanto fonte di amore, desidera
farsi conoscere, e la conoscenza che l'uomo ha di lui porta a compimento
ogni altra vera conoscenza che la sua mente è in grado di raggiungere
circa il senso della propria esistenza.
8. Riprendendo quasi alla lettera l'insegnamento offerto
dalla Costituzione Dei Filius del Concilio Vaticano I e tenendo
conto dei principi proposti dal Concilio Tridentino, la Costituzione
Dei Verbum del Vaticano II ha proseguito il secolare cammino di
intelligenza della fede, riflettendo sulla Rivelazione alla luce
dell'insegnamento biblico e dell'intera tradizione patristica. Nel primo
Concilio Vaticano, i Padri avevano sottolineato il carattere
soprannaturale della rivelazione di Dio. La critica razionalista, che in
quel periodo veniva mossa contro la fede sulla base di tesi errate e molto
diffuse, verteva sulla negazione di ogni conoscenza che non fosse frutto
delle capacità naturali della ragione. Questo fatto aveva obbligato il
Concilio a ribadire con forza che, oltre alla conoscenza propria della
ragione umana, capace per sua natura di giungere fino al Creatore, esiste
una conoscenza che è peculiare della fede. Questa conoscenza esprime una
verità che si fonda sul fatto stesso di Dio che si rivela, ed è verità
certissima perché Dio non inganna né vuole ingannare.(6)
9. Il Concilio Vaticano I, dunque, insegna che la verità
raggiunta per via di riflessione filosofica e la verità della Rivelazione
non si confondono, né l'una rende superflua l'altra: « Esistono due ordini
di conoscenza, distinti non solo per il loro principio, ma anche per il
loro oggetto: per il loro principio, perché nell'uno conosciamo con la
ragione naturale, nell'altro con la fede divina; per l'oggetto, perché
oltre le verità che la ragione naturale può capire, ci è proposto di
vedere i misteri nascosti in Dio, che non possono essere conosciuti se non
sono rivelati dall'alto ».(7) La fede, che si fonda sulla testimonianza di
Dio e si avvale dell'aiuto soprannaturale della grazia, è effettivamente
di un ordine diverso da quello della conoscenza filosofica. Questa,
infatti, poggia sulla percezione dei sensi, sull'esperienza e si muove
alla luce del solo intelletto. La filosofia e le scienze spaziano
nell'ordine della ragione naturale, mentre la fede, illuminata e guidata
dallo Spirito, riconosce nel messaggio della salvezza la « pienezza di
grazia e di verità » (cfr Gv 1, 14) che Dio ha voluto rivelare
nella storia e in maniera definitiva per mezzo di suo Figlio Gesù Cristo
(cfr 1 Gv 5, 9; Gv 5, 31-32).
10. Al Concilio Vaticano II i Padri, puntando lo sguardo su
Gesù rivelatore, hanno illustrato il carattere salvifico della rivelazione
di Dio nella storia e ne hanno espresso la natura nel modo seguente: « Con
questa rivelazione, Dio invisibile (cfr Col 1, 15; 1 Tm 1,
17) nel suo immenso amore parla agli uomini come ad amici (cfr Es
33, 11; Gv 15, 14-15) e si intrattiene con essi (cfr Bar 3,
38) per invitarli ed ammetterli alla comunione con sé. Questa economia
della Rivelazione avviene con eventi e parole intimamente connessi tra
loro, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza,
manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole,
e le parole dichiarano le opere e chiariscono il mistero in esse
contenuto. La profonda verità, poi, su Dio e sulla salvezza degli uomini,
per mezzo di questa Rivelazione risplende a noi in Cristo, il quale è
insieme il mediatore e la pienezza di tutta la rivelazione ».(8)
11. La rivelazione di Dio, dunque, si inserisce nel tempo e
nella storia. L'incarnazione di Gesù Cristo, anzi, avviene nella «
pienezza del tempo » (Gal 4, 4). A duemila anni di distanza da
quell'evento, sento il dovere di riaffermare con forza che « nel
cristianesimo il tempo ha un'importanza fondamentale ».(9) In esso,
infatti, viene alla luce l'intera opera della creazione e della salvezza
e, soprattutto, emerge il fatto che con l'incarnazione del Figlio di Dio
noi viviamo e anticipiamo fin da ora ciò che sarà il compimento del tempo
(cfr Eb 1, 2).
La verità che Dio ha consegnato all'uomo su se stesso e
sulla sua vita si inserisce, quindi, nel tempo e nella storia. Certo, essa
è stata pronunciata una volta per tutte nel mistero di Gesù di Nazareth.
Lo dice con parole eloquenti la Costituzione Dei Verbum: « Dio,
dopo avere a più riprese e in più modi parlato per mezzo dei Profeti,
“alla fine, nei nostri giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio” (Eb
1, 1-2). Mandò infatti suo Figlio, cioè il Verbo eterno, che illumina
tutti gli uomini, affinché dimorasse tra gli uomini e ad essi spiegasse i
segreti di Dio (cfr Gv 1, 1-18). Gesù Cristo, Verbo fatto
carne, mandato come “uomo agli uomini”, “parla le parole di Dio” (Gv
3, 34) e porta a compimento l'opera di salvezza affidatagli dal Padre
(cfr Gv 5, 36; 17, 4). Perciò Egli, vedendo il quale si vede anche
il Padre (cfr Gv 14, 9), con tutta la sua presenza e con la
manifestazione di sé, con le parole e con le opere, con i segni e con i
miracoli, e specialmente con la sua morte e la gloriosa risurrezione di
tra i morti, e infine con l'invio dello Spirito di verità, compie e
completa la Rivelazione ».(10)
La storia, pertanto, costituisce per il Popolo di Dio un
cammino da percorrere interamente, così che la verità rivelata esprima in
pienezza i suoi contenuti grazie all'azione incessante dello Spirito Santo
(cfr Gv 16, 13). Lo insegna, ancora una volta, la Costituzione
Dei Verbum quando afferma che « la Chiesa, nel corso dei secoli, tende
incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa giungano
a compimento le parole di Dio ».(11)
12. La storia, quindi, diventa il luogo in cui possiamo
costatare l'agire di Dio a favore dell'umanità. Egli ci raggiunge in ciò
che per noi è più familiare e facile da verificare, perché costituisce il
nostro contesto quotidiano, senza il quale non riusciremmo a comprenderci.
L'incarnazione del Figlio di Dio permette di vedere attuata
la sintesi definitiva che la mente umana, partendo da sé, non avrebbe
neppure potuto immaginare: l'Eterno entra nel tempo, il Tutto si nasconde
nel frammento, Dio assume il volto dell'uomo. La verità espressa nella
Rivelazione di Cristo, dunque, non è più rinchiusa in un ristretto ambito
territoriale e culturale, ma si apre a ogni uomo e donna che voglia
accoglierla come parola definitivamente valida per dare senso
all'esistenza. Ora, tutti hanno in Cristo accesso al Padre; con la sua
morte e risurrezione, infatti, Egli ha donato la vita divina che il primo
Adamo aveva rifiutato (cfr Rm 5, 12-15). Con questa Rivelazione
viene offerta all'uomo la verità ultima sulla propria vita e sul destino
della storia: « In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova
vera luce il mistero dell'uomo », afferma la Costituzione Gaudium et
spes.(12) Al di fuori di questa prospettiva il mistero dell'esistenza
personale rimane un enigma insolubile. Dove l'uomo potrebbe cercare la
risposta ad interrogativi drammatici come quelli del dolore, della
sofferenza dell'innocente e della morte, se non nella luce che promana dal
mistero della passione, morte e risurrezione di Cristo?
La ragione dinanzi al mistero
13. Non sarà, comunque, da dimenticare che la Rivelazione
permane carica di mistero. Certo, con tutta la sua vita Gesù rivela il
volto del Padre, essendo Egli venuto per spiegare i segreti di Dio; (13)
eppure, la conoscenza che noi abbiamo di tale volto è sempre segnata dalla
frammentarietà e dal limite del nostro comprendere. Solo la fede permette
di entrare all'interno del mistero, favorendone la coerente intelligenza.
Insegna il Concilio che « a Dio che si rivela è dovuta
l'obbedienza della fede ».(14) Con questa breve ma densa affermazione,
viene indicata una fondamentale verità del cristianesimo. Si dice,
anzitutto, che la fede è risposta di obbedienza a Dio. Ciò comporta che
Egli venga riconosciuto nella sua divinità, trascendenza e libertà
suprema. Il Dio che si fa conoscere, nell'autorità della sua assoluta
trascendenza, porta anche con sé la credibilità dei contenuti che rivela.
Con la fede, l'uomo dona il suo assenso a tale testimonianza divina. Ciò
significa che riconosce pienamente e integralmente la verità di quanto
rivelato, perché è Dio stesso che se ne fa garante. Questa verità, donata
all'uomo e da lui non esigibile, si inserisce nel contesto della
comunicazione interpersonale e spinge la ragione ad aprirsi ad essa e ad
accoglierne il senso profondo. E per questo che l'atto con il quale ci si
affida a Dio è sempre stato considerato dalla Chiesa come un momento di
scelta fondamentale, in cui tutta la persona è coinvolta. Intelletto e
volontà esercitano al massimo la loro natura spirituale per consentire al
soggetto di compiere un atto in cui la libertà personale è vissuta in
maniera piena.(15) Nella fede, quindi, la libertà non è semplicemente
presente: è esigita. E la fede, anzi, che permette a ciascuno di esprimere
al meglio la propria libertà. In altre parole, la libertà non si realizza
nelle scelte contro Dio. Come infatti potrebbe essere considerato un uso
autentico della libertà il rifiuto di aprirsi verso ciò che permette la
realizzazione di se stessi? E nel credere che la persona compie l'atto più
significativo della propria esistenza; qui, infatti, la libertà raggiunge
la certezza della verità e decide di vivere in essa.
In aiuto alla ragione, che cerca l'intelligenza del
mistero, vengono anche i segni presenti nella Rivelazione. Essi servono a
condurre più a fondo la ricerca della verità e a permettere che la mente
possa autonomamente indagare anche all'interno del mistero. Questi segni,
comunque, se da una parte danno maggior forza alla ragione, perché le
consentono di ricercare all'interno del mistero con i suoi propri mezzi di
cui è giustamente gelosa, dall'altra la spingono a trascendere la loro
realtà di segni per raccoglierne il significato ulteriore di cui sono
portatori. In essi, pertanto, è già presente una verità nascosta a cui la
mente è rinviata e da cui non può prescindere senza distruggere il segno
stesso che le viene proposto.
Si è rimandati, in qualche modo, all'orizzonte
sacramentale della Rivelazione e, in particolare, al segno eucaristico
dove l'unità inscindibile tra la realtà e il suo significato permette di
cogliere la profondità del mistero. Cristo nell'Eucaristia è veramente
presente e vivo, opera con il suo Spirito, ma, come aveva ben detto san
Tommaso, « tu non vedi, non comprendi, ma la fede ti conferma, oltre la
natura. E un segno ciò che appare: nasconde nel mistero realtà sublimi
».(16) Gli fa eco il filosofo Pascal: « Come Gesù Cristo è rimasto
sconosciuto tra gli uomini, così la sua verità resta, tra le opinioni
comuni, senza differenza esteriore. Così resta l'Eucaristia tra il pane
comune ».(17)
La conoscenza di fede, insomma, non annulla il mistero;
solo lo rende più evidente e lo manifesta come fatto essenziale per la
vita dell'uomo: Cristo Signore « rivelando il mistero del Padre e del suo
amore svela anche pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota la sua
altissima vocazione »,(18) che è quella di partecipare al mistero della
vita trinitaria di Dio.(19)
14. L'insegnamento dei due Concili Vaticani apre un vero
orizzonte di novità anche per il sapere filosofico. La Rivelazione immette
nella storia un punto di riferimento da cui l'uomo non può prescindere, se
vuole arrivare a comprendere il mistero della sua esistenza; dall'altra
parte, però, questa conoscenza rinvia costantemente al mistero di Dio che
la mente non può esaurire, ma solo ricevere e accogliere nella fede.
All'interno di questi due momenti, la ragione possiede un suo spazio
peculiare che le permette di indagare e comprendere, senza essere limitata
da null'altro che dalla sua finitezza di fronte al mistero infinito di
Dio.
La Rivelazione, pertanto, immette nella nostra storia una
verità universale e ultima che provoca la mente dell'uomo a non fermarsi
mai; la spinge, anzi, ad allargare continuamente gli spazi del proprio
sapere fino a quando non avverte di avere compiuto quanto era in suo
potere, senza nulla tralasciare. Ci viene in aiuto per questa riflessione
una delle intelligenze più feconde e significative della storia
dell'umanità, a cui fanno doveroso riferimento sia la filosofia che la
teologia: sant'Anselmo. Nel suo Proslogion, l'Arcivescovo di
Canterbury così si esprime: « Volgendo spesso e con impegno il mio
pensiero a questo problema, a volte mi sembrava di poter ormai afferrare
ciò che cercavo, altre volte invece sfuggiva completamente al mio
pensiero; finché finalmente, disperando di poterlo trovare, volli smettere
di ricercare qualcosa che era impossibile trovare. Ma quando volli
scacciare da me quel pensiero perché, occupando la mia mente, non mi
distogliesse da altri problemi dai quali potevo ricavare qualche profitto,
allora cominciò a presentarsi con sempre maggior importunità [...]. Ma
povero me, uno dei poveri figli di Eva, lontani da Dio, che cosa ho
cominciato a fare e a che cosa sono riuscito? A che cosa tendevo e a che
cosa sono giunto? A che cosa aspiravo e di che sospiro? [...]. O Signore,
tu non solo sei ciò di cui non si può pensare nulla di più grande (non
solum es quo maius cogitari nequit), ma sei più grande di tutto ciò
che si possa pensare (quiddam maius quam cogitari possit) [...]. Se
tu non fossi tale, si potrebbe pensare qualcosa più grande di te, ma
questo è impossibile ».(20)
15. La verità della Rivelazione cristiana, che si incontra
in Gesù di Nazareth, permette a chiunque di accogliere il « mistero »
della propria vita. Come verità suprema, essa, mentre rispetta l'autonomia
della creatura e la sua libertà, la impegna ad aprirsi alla trascendenza.
Qui il rapporto libertà e verità diventa sommo e si comprende in pienezza
la parola del Signore: « Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi
» (Gv 8, 32).
La Rivelazione cristiana è la vera stella di orientamento
per l'uomo che avanza tra i condizionamenti della mentalità immanentistica
e le strettoie di una logica tecnocratica; è l'ultima possibilità che
viene offerta da Dio per ritrovare in pienezza il progetto originario di
amore, iniziato con la creazione. All'uomo desideroso di conoscere il
vero, se ancora è capace di guardare oltre se stesso e di innalzare lo
sguardo al di là dei propri progetti, è data la possibilità di recuperare
il genuino rapporto con la sua vita, seguendo la strada della verità. Le
parole del Deuteronomio bene si possono applicare a questa
situazione: « Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te,
né troppo lontano da te. Non è nel cielo perché tu dica: Chi salirà per
noi in cielo per prendercelo e farcelo udire sì che lo possiamo eseguire?
Non è di là dal mare, perché tu dica: Chi attraverserà per noi il mare per
prendercelo e farcelo udire sì che lo possiamo eseguire? Anzi, questa
parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu
la metta in pratica » (30,11-14). A questo testo fa eco il famoso pensiero
del santo filosofo e teologo Agostino: « Noli foras ire, in te ipsum
redi. In interiore homine habitat veritas ».(21)
Alla luce di queste considerazioni, una prima conclusione
si impone: la verità che la Rivelazione ci fa conoscere non è il frutto
maturo o il punto culminante di un pensiero elaborato dalla ragione. Essa,
invece, si presenta con la caratteristica della gratuità, produce pensiero
e chiede di essere accolta come espressione di amore. Questa verità
rivelata è anticipo, posto nella nostra storia, di quella visione ultima e
definitiva di Dio che è riservata a quanti credono in lui o lo ricercano
con cuore sincero. Il fine ultimo dell'esistenza personale, dunque, è
oggetto di studio sia della filosofia che della teologia. Ambedue, anche
se con mezzi e contenuti diversi, prospettano questo « sentiero della vita
» (Sal 16 [15], 11) che, come la fede ci dice, ha il suo sbocco
ultimo nella gioia piena e duratura della contemplazione del Dio Uno e
Trino.
CAPITOLO II
CREDO UT INTELLEGAM
« La sapienza tutto conosce e tutto comprende »
(Sap 9, 11)
16. Quanto profondo sia il legame tra la conoscenza di fede
e quella di ragione è indicato già nella Sacra Scrittura con spunti di
sorprendente chiarezza. Lo documentano soprattutto i Libri sapienziali.
Ciò che colpisce nella lettura, fatta senza preconcetti, di queste pagine
della Scrittura è il fatto che in questi testi venga racchiusa non
soltanto la fede di Israele, ma anche il tesoro di civiltà e di culture
ormai scomparse. Quasi per un disegno particolare, l'Egitto e la
Mesopotamia fanno sentire di nuovo la loro voce ed alcuni tratti comuni
delle culture dell'antico Oriente vengono riportati in vita in queste
pagine ricche di intuizioni singolarmente profonde.
Non è un caso che, nel momento in cui l'autore sacro vuole
descrivere l'uomo saggio, lo dipinga come colui che ama e ricerca la
verità: « Beato l'uomo che medita sulla sapienza e ragiona con
l'intelligenza, considera nel cuore le sue vie, ne penetra con la mente i
segreti. La insegue come uno che segue una pista, si apposta sui suoi
sentieri. Egli spia alle sue finestre e sta ad ascoltare alla sua porta.
Fa sosta vicino alla sua casa e fissa un chiodo nelle sue pareti; alza la
propria tenda presso di essa e si ripara in un rifugio di benessere; mette
i propri figli sotto la sua protezione e sotto i suoi rami soggiorna; da
essa sarà protetto contro il caldo, egli abiterà all'ombra della sua
gloria » (Sir 14, 20-27).
Per l'autore ispirato, come si vede, il desiderio di
conoscere è una caratteristica che accomuna tutti gli uomini. Grazie
all'intelligenza è data a tutti, sia credenti che non credenti, la
possibilità di « attingere alle acque profonde » della conoscenza (cfr
Pro 20, 5). Certo, nell'antico Israele la conoscenza del mondo e dei
suoi fenomeni non avveniva per via di astrazione, come per il filosofo
ionico o il saggio egiziano. Ancor meno il buon israelita concepiva la
conoscenza con i parametri propri dell'epoca moderna, tesa maggiormente
alla divisione del sapere. Nonostante questo, il mondo biblico ha fatto
confluire nel grande mare della teoria della conoscenza il suo apporto
originale.
Quale? La peculiarità che distingue il testo biblico
consiste nella convinzione che esista una profonda e inscindibile unità
tra la conoscenza della ragione e quella della fede. Il mondo e ciò che
accade in esso, come pure la storia e le diverse vicende del popolo, sono
realtà che vengono guardate, analizzate e giudicate con i mezzi propri
della ragione, ma senza che la fede resti estranea a questo processo. Essa
non interviene per umiliare l'autonomia della ragione o per ridurne lo
spazio di azione, ma solo per far comprendere all'uomo che in questi
eventi si rende visibile e agisce il Dio di Israele. Conoscere a fondo il
mondo e gli avvenimenti della storia non è, pertanto, possibile senza
confessare al contempo la fede in Dio che in essi opera. La fede affina lo
sguardo interiore aprendo la mente a scoprire, nel fluire degli eventi, la
presenza operante della Provvidenza. Un'espressione del libro dei Proverbi
è significativa in proposito: « La mente dell'uomo pensa molto alla sua
via, ma il Signore dirige i suoi passi » (16, 9). Come dire, l'uomo con la
luce della ragione sa riconoscere la sua strada, ma la può percorrere in
maniera spedita, senza ostacoli e fino alla fine, se con animo retto
inserisce la sua ricerca nell'orizzonte della fede. La ragione e la fede,
pertanto, non possono essere separate senza che venga meno per l'uomo la
possibilità di conoscere in modo adeguato se stesso, il mondo e Dio.
17. Non ha dunque motivo di esistere competitività alcuna
tra la ragione e la fede: l'una è nell'altra, e ciascuna ha un suo spazio
proprio di realizzazione. E sempre il libro dei Proverbi che orienta in
questa direzione quando esclama: « E gloria di Dio nascondere le cose, è
gloria dei re investigarle » (Pro 25, 2). Dio e l'uomo, nel loro
rispettivo mondo, sono posti in un rapporto unico. In Dio risiede
l'origine di ogni cosa, in Lui si raccoglie la pienezza del mistero, e
questo costituisce la sua gloria; all'uomo spetta il compito di
investigare con la sua ragione la verità, e in ciò consiste la sua
nobiltà. Un'ulteriore tessera a questo mosaico è aggiunta dal Salmista
quando prega dicendo: « Quanto profondi per me i tuoi pensieri, quanto
grande il loro numero, o Dio; se li conto sono più della sabbia, se li
credo finiti, con te sono ancora » (139 [138], 17-18). Il desiderio di
conoscere è così grande e comporta un tale dinamismo, che il cuore
dell'uomo, pur nell'esperienza del limite invalicabile, sospira verso
l'infinita ricchezza che sta oltre, perché intuisce che in essa è
custodita la risposta appagante per ogni questione ancora irrisolta.
18. Possiamo dire, pertanto, che Israele con la sua
riflessione ha saputo aprire alla ragione la via verso il mistero. Nella
rivelazione di Dio ha potuto scandagliare in profondità quanto con la
ragione cercava di raggiungere senza riuscirvi. A partire da questa più
profonda forma di conoscenza, il popolo eletto ha capito che la ragione
deve rispettare alcune regole di fondo per poter esprimere al meglio la
propria natura. Una prima regola consiste nel tener conto del fatto che la
conoscenza dell'uomo è un cammino che non ha sosta; la seconda nasce dalla
consapevolezza che su tale strada non ci si può porre con l'orgoglio di
chi pensa che tutto sia frutto di personale conquista; una terza si fonda
nel « timore di Dio », del quale la ragione deve riconoscere la sovrana
trascendenza ed insieme il provvido amore nel governo del mondo.
Quando s'allontana da queste regole, l'uomo s'espone al
rischio del fallimento e finisce per trovarsi nella condizione dello «
stolto ». Per la Bibbia, in questa stoltezza è insita una minaccia per la
vita. Lo stolto infatti si illude di conoscere molte cose, ma in realtà
non è capace di fissare lo sguardo su quelle essenziali. Ciò gli impedisce
di porre ordine nella sua mente (cfr Pro 1, 7) e di assumere un
atteggiamento adeguato nei confronti di se stesso e dell'ambiente
circostante. Quando poi giunge ad affermare « Dio non esiste » (cfr Sal
14 [13], 1), rivela con definitiva chiarezza quanto la sua conoscenza
sia carente e quanto lontano egli sia dalla verità piena sulle cose, sulla
loro origine e sul loro destino.
19. Alcuni testi importanti, che gettano ulteriore luce su
questo argomento, sono contenuti nel Libro della Sapienza. In essi
l'Autore sacro parla di Dio che si fa conoscere anche attraverso la
natura. Per gli antichi lo studio delle scienze naturali coincideva in
gran parte con il sapere filosofico. Dopo aver affermato che con la sua
intelligenza l'uomo è in grado di « comprendere la struttura del mondo e
la forza degli elementi [...] il ciclo degli anni e la posizione degli
astri, la natura degli animali e l'istinto delle fiere » (Sap 7,
17.19-20), in una parola, che è capace di filosofare, il testo sacro
compie un passo in avanti di grande rilievo. Ricuperando il pensiero della
filosofia greca, a cui sembra riferirsi in questo contesto, l'Autore
afferma che, proprio ragionando sulla natura, si può risalire al Creatore:
« Dalla grandezza e bellezza delle creature, per analogia si conosce
l'autore » (Sap 13, 5). Viene quindi riconosciuto un primo stadio
della Rivelazione divina, costituito dal meraviglioso « libro della natura
», leggendo il quale, con gli strumenti propri della ragione umana, si può
giungere alla conoscenza del Creatore. Se l'uomo con la sua intelligenza
non arriva a riconoscere Dio creatore di tutto, ciò non è dovuto tanto
alla mancanza di un mezzo adeguato, quanto piuttosto all'impedimento
frapposto dalla sua libera volontà e dal suo peccato.
20. La ragione, in questa prospettiva, viene valorizzata,
ma non sopravvalutata. Quanto essa raggiunge, infatti, può essere vero, ma
acquista pieno significato solamente se il suo contenuto viene posto in un
orizzonte più ampio, quello della fede: « Dal Signore sono diretti i passi
dell'uomo e come può l'uomo comprendere la propria via? » (Pro 20,
24). Per l'Antico Testamento, pertanto, la fede libera la ragione in
quanto le permette di raggiungere coerentemente il suo oggetto di
conoscenza e di collocarlo in quell'ordine supremo in cui tutto acquista
senso. In una parola, l'uomo con la ragione raggiunge la verità, perché
illuminato dalla fede scopre il senso profondo di ogni cosa e, in
particolare, della propria esistenza. Giustamente, dunque, l'autore sacro
pone l'inizio della vera conoscenza proprio nel timore di Dio: « Il timore
del Signore è il principio della scienza » (Pro 1, 7; cfr Sir
1, 14).
« Acquista la sapienza, acquista l'intelligenza »
(Pro 4, 5)
21. La conoscenza, per l'Antico Testamento, non si fonda
soltanto su una attenta osservazione dell'uomo, del mondo e della storia,
ma suppone anche un indispensabile rapporto con la fede e con i contenuti
della Rivelazione. Qui si trovano le sfide che il popolo eletto ha dovuto
affrontare e a cui ha dato risposta. Riflettendo su questa sua condizione,
l'uomo biblico ha scoperto di non potersi comprendere se non come « essere
in relazione »: con se stesso, con il popolo, con il mondo e con Dio.
Questa apertura al mistero, che gli veniva dalla Rivelazione, è stata alla
fine per lui la fonte di una vera conoscenza, che ha permesso alla sua
ragione di immettersi in spazi di infinito, ricevendone possibilità di
comprensione fino allora insperate.
Lo sforzo della ricerca non era esente, per l'Autore sacro,
dalla fatica derivante dallo scontro con i limiti della ragione. Lo si
avverte, ad esempio, nelle parole con cui il Libro dei Proverbi denuncia
la stanchezza dovuta al tentativo di comprendere i misteriosi disegni di
Dio (cfr 30, 1-6). Tuttavia, malgrado la fatica, il credente non si
arrende. La forza per continuare il suo cammino verso la verità gli viene
dalla certezza che Dio lo ha creato come un « esploratore » (cfr Qo
1, 13), la cui missione è di non lasciare nulla di intentato nonostante il
continuo ricatto del dubbio. Poggiando su Dio, egli resta proteso, sempre
e dovunque, verso ciò che è bello, buono e vero.
22. San Paolo, nel primo capitolo della sua Lettera ai
Romani, ci aiuta a meglio apprezzare quanto penetrante sia la riflessione
dei Libri Sapienziali. Sviluppando un'argomentazione filosofica con
linguaggio popolare, l'Apostolo esprime una profonda verità: attraverso il
creato gli « occhi della mente » possono arrivare a conoscere Dio. Egli,
infatti, mediante le creature fa intuire alla ragione la sua « potenza » e
la sua « divinità » (cfr Rm 1, 20). Alla ragione dell'uomo, quindi,
viene riconosciuta una capacità che sembra quasi superare gli stessi suoi
limiti naturali: non solo essa non è confinata entro la conoscenza
sensoriale, dal momento che può riflettervi sopra criticamente, ma
argomentando sui dati dei sensi può anche raggiungere la causa che sta
all'origine di ogni realtà sensibile. Con terminologia filosofica potremmo
dire che, nell'importante testo paolino, viene affermata la capacità
metafisica dell'uomo.
Secondo l'Apostolo, nel progetto originario della creazione
era prevista la capacità della ragione di oltrepassare agevolmente il dato
sensibile per raggiungere l'origine stessa di tutto: il Creatore. A
seguito della disobbedienza con la quale l'uomo scelse di porre se stesso
in piena e assoluta autonomia rispetto a Colui che lo aveva creato, questa
facilità di risalita a Dio creatore è venuta meno.
Il Libro della Genesi descrive in maniera plastica questa
condizione dell'uomo, quando narra che Dio lo pose nel giardino dell'Eden,
al cui centro era situato « l'albero della conoscenza del bene e del male
» (2, 17). Il simbolo è chiaro: l'uomo non era in grado di discernere e
decidere da sé ciò che era bene e ciò che era male, ma doveva richiamarsi
a un principio superiore. La cecità dell'orgoglio illuse i nostri
progenitori di essere sovrani e autonomi, e di poter prescindere dalla
conoscenza derivante da Dio. Nella loro originaria disobbedienza essi
coinvolsero ogni uomo e ogni donna, procurando alla ragione ferite che da
allora in poi ne avrebbero ostacolato il cammino verso la piena verità.
Ormai la capacità umana di conoscere la verità era offuscata
dall'avversione verso Colui che della verità è fonte e origine. E ancora
l'Apostolo a rivelare quanto i pensieri degli uomini, a causa del peccato,
fossero diventati « vani » e i ragionamenti distorti e orientati al falso
(cfr Rm 1, 21-22). Gli occhi della mente non erano ormai più capaci
di vedere con chiarezza: progressivamente la ragione è rimasta prigioniera
di se stessa. La venuta di Cristo è stata l'evento di salvezza che ha
redento la ragione dalla sua debolezza, liberandola dai ceppi in cui essa
stessa s'era imprigionata.
23. Il rapporto del cristiano con la filosofia, pertanto,
richiede un discernimento radicale. Nel Nuovo Testamento, soprattutto
nelle Lettere di san Paolo, un dato emerge con grande chiarezza: la
contrapposizione tra « la sapienza di questo mondo » e quella di Dio
rivelata in Gesù Cristo. La profondità della sapienza rivelata spezza il
cerchio dei nostri abituali schemi di riflessione, che non sono affatto in
grado di esprimerla in maniera adeguata.
L'inizio della prima Lettera ai Corinzi pone con radicalità
questo dilemma. Il Figlio di Dio crocifisso è l'evento storico contro cui
s'infrange ogni tentativo della mente di costruire su argomentazioni
soltanto umane una giustificazione sufficiente del senso dell'esistenza.
Il vero punto nodale, che sfida ogni filosofia, è la morte in croce di
Gesù Cristo. Qui, infatti, ogni tentativo di ridurre il piano salvifico
del Padre a pura logica umana è destinato al fallimento. « Dov'è il
sapiente? Dov'è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo?
Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo? » (1
Cor 1, 20), si domanda con enfasi l'Apostolo. Per ciò che Dio vuole
realizzare non è più possibile la sola sapienza dell'uomo saggio, ma è
richiesto un passaggio decisivo verso l'accoglienza di una novità
radicale: « Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i
sapienti [...]; Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e
ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono » (1 Cor 1,
27-28). La sapienza dell'uomo rifiuta di vedere nella propria debolezza il
presupposto della sua forza; ma san Paolo non esita ad affermare: « Quando
sono debole, è allora che sono forte » (2 Cor 12, 10). L'uomo non
riesce a comprendere come la morte possa essere fonte di vita e di amore,
ma Dio ha scelto per rivelare il mistero del suo disegno di salvezza
proprio ciò che la ragione considera « follia » e « scandalo ». Parlando
il linguaggio dei filosofi suoi contemporanei, Paolo raggiunge il culmine
del suo insegnamento e del paradosso che vuole esprimere: « Dio ha scelto
ciò che nel mondo [...] è nulla per ridurre a nulla le cose che sono » (1
Cor 1, 28). Per esprimere la natura della gratuità dell'amore rivelato
nella croce di Cristo, l'Apostolo non ha timore di usare il linguaggio più
radicale che i filosofi impiegavano nelle loro riflessioni su Dio. La
ragione non può svuotare il mistero di amore che la Croce rappresenta,
mentre la Croce può dare alla ragione la risposta ultima che essa cerca.
Non la sapienza delle parole, ma la Parola della Sapienza è ciò che san
Paolo pone come criterio di verità e, insieme, di salvezza.
La sapienza della Croce, dunque, supera ogni limite
culturale che le si voglia imporre e obbliga ad aprirsi all'universalità
della verità di cui è portatrice. Quale sfida viene posta alla nostra
ragione e quale vantaggio essa ne ricava se vi si arrende! La filosofia,
che già da sé è in grado di riconoscere l'incessante trascendersi
dell'uomo verso la verità, aiutata dalla fede può aprirsi ad accogliere
nella « follia » della Croce la genuina critica a quanti si illudono di
possedere la verità, imbrigliandola nelle secche di un loro sistema. Il
rapporto fede e filosofia trova nella predicazione di Cristo crocifisso e
risorto lo scoglio contro il quale può naufragare, ma oltre il quale può
sfociare nell'oceano sconfinato della verità. Qui si mostra evidente il
confine tra la ragione e la fede, ma diventa anche chiaro lo spazio in cui
ambedue si possono incontrare.
CAPITOLO III
INTELLEGO UT CREDAM
In cammino alla ricerca della verità
24. Racconta l'evangelista Luca negli Atti degli Apostoli
che, durante i suoi viaggi missionari, Paolo arrivò ad Atene. La città dei
filosofi era ricolma di statue rappresentanti diversi idoli. Un altare
colpì la sua attenzione ed egli ne trasse prontamente lo spunto per
individuare una base comune su cui avviare l'annuncio del kerigma: «
Cittadini ateniesi, — disse — vedo che in tutto siete molto timorati degli
dei. Passando, infatti, e osservando i monumenti del vostro culto, ho
trovato anche un'ara con l'iscrizione: Al Dio ignoto. Quello che voi
adorate senza conoscere, io ve lo annunzio » (At 17, 22-23). A partire da
qui, san Paolo parla di Dio come creatore, come di Colui che trascende
ogni cosa e che a tutto dà vita. Continua poi il suo discorso così: « Egli
creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta
la faccia della terra. Per essi ha stabilito l'ordine dei tempi e i
confini del loro spazio, perché cercassero Dio, se mai arrivino a trovarlo
andando come a tentoni, benché non sia lontano da ciascuno di noi » (At
17, 26-27).
L'Apostolo mette in luce una verità di cui la Chiesa ha
sempre fatto tesoro: nel più profondo del cuore dell'uomo è seminato il
desiderio e la nostalgia di Dio. Lo ricorda con forza anche la liturgia
del Venerdì Santo quando, invitando a pregare per quanti non credono, ci
fa dire: « O Dio onnipotente ed eterno, tu hai messo nel cuore degli
uomini una così profonda nostalgia di te, che solo quando ti trovano hanno
pace ».(22) Esiste quindi un cammino che l'uomo, se vuole, può percorrere;
esso prende il via dalla capacità della ragione di innalzarsi al di sopra
del contingente per spaziare verso l'infinito.
In differenti modi e in diversi tempi l'uomo ha dimostrato
di saper dare voce a questo suo intimo desiderio. La letteratura, la
musica, la pittura, la scultura, l'architettura ed ogni altro prodotto
della sua intelligenza creatrice sono diventati canali attraverso cui
esprimere l'ansia della sua ricerca. La filosofia in modo peculiare ha
raccolto in sé questo movimento ed ha espresso, con i suoi mezzi e secondo
le modalità scientifiche sue proprie, questo universale desiderio
dell'uomo.
25. « Tutti gli uomini desiderano sapere »,(23) e oggetto
proprio di questo desiderio è la verità. La stessa vita quotidiana mostra
quanto ciascuno sia interessato a scoprire, oltre il semplice sentito
dire, come stanno veramente le cose. L'uomo è l'unico essere in tutto il
creato visibile che non solo è capace di sapere, ma sa anche di sapere, e
per questo si interessa alla verità reale di ciò che gli appare. Nessuno
può essere sinceramente indifferente alla verità del suo sapere. Se scopre
che è falso, lo rigetta; se può, invece, accertarne la verità, si sente
appagato. E la lezione di sant'Agostino quando scrive: « Molti ho
incontrato che volevano ingannare, ma che volesse farsi ingannare, nessuno
».(24) Giustamente si ritiene che una persona abbia raggiunto l'età adulta
quando può discernere, con i propri mezzi, tra ciò che è vero e ciò che è
falso, formandosi un suo giudizio sulla realtà oggettiva delle cose. Sta
qui il motivo di tante ricerche, in particolare nel campo delle scienze,
che hanno portato negli ultimi secoli a così significativi risultati,
favorendo un autentico progresso dell'umanità intera.
Non meno importante della ricerca in ambito teoretico è
quella in ambito pratico: intendo alludere alla ricerca della verità in
rapporto al bene da compiere. Con il proprio agire etico, infatti, la
persona, operando secondo il suo libero e retto volere, si introduce nella
strada della felicità e tende verso la perfezione. Anche in questo caso si
tratta di verità. Ho ribadito questa convinzione nella Lettera enciclica
Veritatis splendor: « Non si dà morale senza libertà [...]. Se
esiste il diritto di essere rispettati nel proprio cammino di ricerca
della verità, esiste ancora prima l'obbligo morale grave per ciascuno di
cercare la verità e di aderirvi una volta conosciuta ».(25)
E necessario, dunque, che i valori scelti e perseguiti con
la propria vita siano veri, perché soltanto valori veri possono
perfezionare la persona realizzandone la natura. Questa verità dei valori,
l'uomo la trova non rinchiudendosi in se stesso ma aprendosi ad
accoglierla anche nelle dimensioni che lo trascendono. E questa una
condizione necessaria perché ognuno diventi se stesso e cresca come
persona adulta e matura.
26. La verità inizialmente si presenta all'uomo in forma
interrogativa: ha un senso la vita? verso dove è diretta? A prima
vista, l'esistenza personale potrebbe presentarsi radicalmente priva di
senso. Non è necessario ricorrere ai filosofi dell'assurdo né alle
provocatorie domande che si ritrovano nel Libro di Giobbe per dubitare del
senso della vita. L'esperienza quotidiana della sofferenza, propria ed
altrui, la vista di tanti fatti che alla luce della ragione appaiono
inspiegabili, bastano a rendere ineludibile una questione così drammatica
come quella sul senso.(26) A ciò si aggiunga che la prima verità
assolutamente certa della nostra esistenza, oltre al fatto che esistiamo,
è l'inevitabilità della nostra morte. Di fronte a questo dato sconcertante
s'impone la ricerca di una risposta esaustiva. Ognuno vuole — e deve —
conoscere la verità sulla propria fine. Vuole sapere se la morte sarà il
termine definitivo della sua esistenza o se vi è qualcosa che oltrepassa
la morte; se gli è consentito sperare in una vita ulteriore oppure no. Non
è senza significato che il pensiero filosofico abbia ricevuto un suo
decisivo orientamento dalla morte di Socrate e ne sia rimasto segnato da
oltre due millenni. Non è affatto casuale, quindi, che i filosofi dinanzi
al fatto della morte si siano riproposti sempre di nuovo questo problema
insieme con quello sul senso della vita e dell'immortalità.
27. A questi interrogativi nessuno può sfuggire, né il
filosofo né l'uomo comune. Dalla risposta ad essi data dipende una tappa
decisiva della ricerca: se sia possibile o meno raggiungere una verità
universale e assoluta. Di per sé, ogni verità anche parziale, se è
realmente verità, si presenta come universale. Ciò che è vero, deve essere
vero per tutti e per sempre. Oltre a questa universalità, tuttavia, l'uomo
cerca un assoluto che sia capace di dare risposta e senso a tutta la sua
ricerca: qualcosa di ultimo, che si ponga come fondamento di ogni cosa. In
altre parole, egli cerca una spiegazione definitiva, un valore supremo,
oltre il quale non vi siano né vi possano essere interrogativi o rimandi
ulteriori. Le ipotesi possono affascinare, ma non soddisfano. Viene per
tutti il momento in cui, lo si ammetta o no, si ha bisogno di ancorare la
propria esistenza ad una verità riconosciuta come definitiva, che dia
certezza non più sottoposta al dubbio.
I filosofi, nel corso dei secoli, hanno cercato di scoprire
e di esprimere una simile verità, dando vita a un sistema o una scuola di
pensiero. Al di là dei sistemi filosofici, tuttavia, vi sono altre
espressioni in cui l'uomo cerca di dare forma a una sua « filosofia »: si
tratta di convinzioni o esperienze personali, di tradizioni familiari e
culturali o di itinerari esistenziali in cui ci si affida all'autorità di
un maestro. In ognuna di queste manifestazioni ciò che permane sempre vivo
è il desiderio di raggiungere la certezza della verità e del suo valore
assoluto.
I differenti volti della verità dell'uomo
28. Non sempre, è doveroso riconoscerlo, la ricerca della
verità si presenta con una simile trasparenza e consequenzialità. La
nativa limitatezza della ragione e l'incostanza del cuore oscurano e
deviano spesso la ricerca personale. Altri interessi di vario ordine
possono sopraffare la verità. Succede anche che l'uomo addirittura la
sfugga non appena comincia ad intravederla, perché ne teme le esigenze.
Nonostante questo, anche quando la evita, è sempre la verità ad
influenzarne l'esistenza. Mai, infatti, egli potrebbe fondare la propria
vita sul dubbio, sull'incertezza o sulla menzogna; una simile esistenza
sarebbe minacciata costantemente dalla paura e dall'angoscia. Si può
definire, dunque, l'uomo come colui che cerca la verità.
29. Non è pensabile che una ricerca così profondamente
radicata nella natura umana possa essere del tutto inutile e vana. La
stessa capacità di cercare la verità e di porre domande implica già una
prima risposta. L'uomo non inizierebbe a cercare ciò che ignorasse del
tutto o stimasse assolutamente irraggiungibile. Solo la prospettiva di
poter arrivare ad una risposta può indurlo a muovere il primo passo. Di
fatto, proprio questo è ciò che normalmente accade nella ricerca
scientifica. Quando uno scienziato, a seguito di una sua intuizione, si
pone alla ricerca della spiegazione logica e verificabile di un
determinato fenomeno, egli ha fiducia fin dall'inizio di trovare una
risposta, e non s'arrende davanti agli insuccessi. Egli non ritiene
inutile l'intuizione originaria solo perché non ha raggiunto l'obiettivo;
con ragione dirà piuttosto che non ha trovato ancora la risposta adeguata.
La stessa cosa deve valere anche per la ricerca della
verità nell'ambito delle questioni ultime. La sete di verità è talmente
radicata nel cuore dell'uomo che il doverne prescindere comprometterebbe
l'esistenza. E sufficiente, insomma, osservare la vita di tutti i giorni
per costatare come ciascuno di noi porti in sé l'assillo di alcune domande
essenziali ed insieme custodisca nel proprio animo almeno l'abbozzo delle
relative risposte. Sono risposte della cui verità si è convinti, anche
perché si sperimenta che, nella sostanza, non differiscono dalle risposte
a cui sono giunti tanti altri. Certo, non ogni verità che viene acquisita
possiede lo stesso valore. Dall'insieme dei risultati raggiunti, tuttavia,
viene confermata la capacità che l'essere umano ha di pervenire, in linea
di massima, alla verità. 30. Può essere utile, ora, fare un rapido cenno a queste diverse forme di verità. Le più numerose sono quelle che poggiano su evidenze immediate o trovano conferma per via di esperimento. E questo l'ordine di verità proprio della vita quotidiana e della ricerca scientifica. A un altro livello si trovano le verità di carattere filosofico, a cui l'uomo giunge mediante la capacità speculativa del suo intelletto. Infine, vi sono le verità religiose, che in qualche misura affondano le loro radici anche nella filosofia. Esse sono contenute nelle risposte che le varie religioni nelle loro tradizioni offrono alle domande ultime. (27)
Quanto alle verità filosofiche, occorre precisare che esse
non si limitano alle sole dottrine, talvolta effimere, dei filosofi di
professione. Ogni uomo, come già ho detto, è in certo qual modo un
filosofo e possiede proprie concezioni filosofiche con le quali orienta la
sua vita. In un modo o in un altro, egli si forma una visione globale e
una risposta sul senso della propria esistenza: in tale luce egli
interpreta la propria vicenda personale e regola il suo comportamento. E
qui che dovrebbe porsi la domanda sul rapporto tra le verità
filosofico-religiose e la verità rivelata in Gesù Cristo. Prima di
rispondere a questo interrogativo è opportuno valutare un ulteriore dato
della filosofia.
31. L'uomo non è fatto per vivere solo. Egli nasce e cresce
in una famiglia, per inserirsi più tardi con il suo lavoro nella società.
Fin dalla nascita, quindi, si trova immerso in varie tradizioni, dalle
quali riceve non soltanto il linguaggio e la formazione culturale, ma
anche molteplici verità a cui, quasi istintivamente, crede. La crescita e
la maturazione personale, comunque, implicano che queste stesse verità
possano essere messe in dubbio e vagliate attraverso la peculiare attività
critica del pensiero. Ciò non toglie che, dopo questo passaggio, quelle
stesse verità siano « ricuperate » sulla base dell'esperienza che se ne è
fatta, o in forza del ragionamento successivo. Nonostante questo, nella
vita di un uomo le verità semplicemente credute rimangono molto più
numerose di quelle che egli acquisisce mediante la personale verifica.
Chi, infatti, sarebbe in grado di vagliare criticamente gli innumerevoli
risultati delle scienze su cui la vita moderna si fonda? Chi potrebbe
controllare per conto proprio il flusso delle informazioni, che giorno per
giorno si ricevono da ogni parte del mondo e che pure si accettano, in
linea di massima, come vere? Chi, infine, potrebbe rifare i cammini di
esperienza e di pensiero per cui si sono accumulati i tesori di saggezza e
di religiosità dell'umanità? L'uomo, essere che cerca la verità, è dunque
anche colui che vive di credenza.
32. Nel credere, ciascuno si affida alle conoscenze
acquisite da altre persone. E ravvisabile in ciò una tensione
significativa: da una parte, la conoscenza per credenza appare come una
forma imperfetta di conoscenza, che deve perfezionarsi progressivamente
mediante l'evidenza raggiunta personalmente; dall'altra, la credenza
risulta spesso umanamente più ricca della semplice evidenza, perché
include un rapporto interpersonale e mette in gioco non solo le personali
capacità conoscitive, ma anche la capacità più radicale di affidarsi ad
altre persone, entrando in un rapporto più stabile ed intimo con loro.
E bene sottolineare che le verità ricercate in questa
relazione interpersonale non sono primariamente nell'ordine fattuale o in
quello filosofico. Ciò che viene richiesto, piuttosto, è la verità stessa
della persona: ciò che essa è e ciò che manifesta del proprio intimo. La
perfezione dell'uomo, infatti, non sta nella sola acquisizione della
conoscenza astratta della verità, ma consiste anche in un rapporto vivo di
donazione e di fedeltà verso l'altro. In questa fedeltà che sa donarsi,
l'uomo trova piena certezza e sicurezza. Al tempo stesso, però, la
conoscenza per credenza, che si fonda sulla fiducia interpersonale, non è
senza riferimento alla verità: l'uomo, credendo, si affida alla verità che
l'altro gli manifesta.
Quanti esempi si potrebbero portare per illustrare questo
dato! Il mio pensiero, però, corre direttamente alla testimonianza dei
martiri. Il martire, in effetti, è il più genuino testimone della verità
sull'esistenza. Egli sa di avere trovato nell'incontro con Gesù Cristo la
verità sulla sua vita e niente e nessuno potrà mai strappargli questa
certezza. Né la sofferenza né la morte violenta lo potranno fare recedere
dall'adesione alla verità che ha scoperto nell'incontro con Cristo. Ecco
perché fino ad oggi la testimonianza dei martiri affascina, genera
consenso, trova ascolto e viene seguita. Questa è la ragione per cui ci si
fida della loro parola: si scopre in essi l'evidenza di un amore che non
ha bisogno di lunghe argomentazioni per essere convincente, dal momento
che parla ad ognuno di ciò che egli nel profondo già percepisce come vero
e ricercato da tanto tempo. Il martire, insomma, provoca in noi una
profonda fiducia, perché dice ciò che noi già sentiamo e rende evidente
ciò che anche noi vorremmo trovare la forza di esprimere.
33. Si può così vedere che i termini del problema vanno
progressivamente completandosi. L'uomo, per natura, ricerca la verità.
Questa ricerca non è destinata solo alla conquista di verità parziali,
fattuali o scientifiche; egli non cerca soltanto il vero bene per ognuna
delle sue decisioni. La sua ricerca tende verso una verità ulteriore che
sia in grado di spiegare il senso della vita; è perciò una ricerca che non
può trovare esito se non nell'assoluto.(28) Grazie alle capacità insite
nel pensiero, l'uomo è in grado di incontrare e riconoscere una simile
verità. In quanto vitale ed essenziale per la sua esistenza, tale verità
viene raggiunta non solo per via razionale, ma anche mediante l'abbandono
fiducioso ad altre persone, che possono garantire la certezza e
l'autenticità della verità stessa. La capacità e la scelta di affidare se
stessi e la propria vita a un'altra persona costituiscono certamente uno
degli atti antropologicamente più significativi ed espressivi.
Non si dimentichi che anche la ragione ha bisogno di essere
sostenuta nella sua ricerca da un dialogo fiducioso e da un'amicizia
sincera. Il clima di sospetto e di diffidenza, che a volte circonda la
ricerca speculativa, dimentica l'insegnamento dei filosofi antichi, i
quali ponevano l'amicizia come uno dei contesti più adeguati per il retto
filosofare.
Da quanto ho fin qui detto, risulta che l'uomo si trova in
un cammino di ricerca, umanamente interminabile: ricerca di verità e
ricerca di una persona a cui affidarsi. La fede cristiana gli viene
incontro offrendogli la possibilità concreta di vedere realizzato lo scopo
di questa ricerca. Superando lo stadio della semplice credenza, infatti,
essa immette l'uomo in quell'ordine di grazia che gli consente di
partecipare al mistero di Cristo, nel quale gli è offerta la conoscenza
vera e coerente del Dio Uno e Trino. Così in Gesù Cristo, che è la Verità,
la fede riconosce l'ultimo appello che viene rivolto all'umanità, perché
possa dare compimento a ciò che sperimenta come desiderio e nostalgia.
34. Questa verità, che Dio ci rivela in Gesù Cristo, non è
in contrasto con le verità che si raggiungono filosofando. I due ordini di
conoscenza conducono anzi alla verità nella sua pienezza. L'unità della
verità è già un postulato fondamentale della ragione umana, espresso nel
principio di non-contraddizione. La Rivelazione dà la certezza di questa
unità, mostrando che il Dio creatore è anche il Dio della storia della
salvezza. Lo stesso e identico Dio, che fonda e garantisce
l'intelligibilità e la ragionevolezza dell'ordine naturale delle cose su
cui gli scienziati si appoggiano fiduciosi,(29) è il medesimo che si
rivela Padre di nostro Signore Gesù Cristo. Quest'unità della verità,
naturale e rivelata, trova la sua identificazione viva e personale in
Cristo, così come ricorda l'Apostolo: « La verità che è in Gesù » (Ef
4, 21; cfr Col 1, 15-20). Egli è la Parola eterna, in
cui tutto è stato creato, ed è insieme la Parola incarnata, che in
tutta la sua persona (30) rivela il Padre (cfr Gv 1, 14.18). Ciò
che la ragione umana cerca « senza conoscerlo » (cfr At 17, 23),
può essere trovato soltanto per mezzo di Cristo: ciò che in Lui si rivela,
infatti, è la « piena verità » (cfr Gv 1, 14-16) di ogni essere che
in Lui e per Lui è stato creato e quindi in Lui trova compimento (cfr
Col 1, 17).
35. Sullo sfondo di queste considerazioni generali, è
necessario ora esaminare in maniera più diretta il rapporto tra la verità
rivelata e la filosofia. Questo rapporto impone una duplice
considerazione, in quanto la verità che ci proviene dalla Rivelazione è,
nello stesso tempo, una verità che va compresa alla luce della ragione.
Solo in questa duplice accezione, infatti, è possibile precisare la giusta
relazione della verità rivelata con il sapere filosofico. Consideriamo,
pertanto, in primo luogo i rapporti tra la fede e la filosofia nel corso
della storia. Da qui sarà possibile individuare alcuni principi, che
costituiscono i punti di riferimento a cui rifarsi per stabilire il
corretto rapporto tra i due ordini di conoscenza.
CAPITOLO IV
IL RAPPORTO
Tappe significative dell'incontro tra fede e ragione
36. Secondo la testimonianza degli Atti degli Apostoli,
l'annuncio cristiano venne a confronto sin dagli inizi con le correnti
filosofiche del tempo. Lo stesso libro riferisce della discussione che san
Paolo ebbe ad Atene con « certi filosofi epicurei e stoici » (17, 18).
L'analisi esegetica di quel discorso all'Areopago ha posto in evidenza le
ripetute allusioni a convincimenti popolari di provenienza per lo più
stoica. Certamente ciò non era casuale. Per farsi comprendere dai pagani,
i primi cristiani non potevano nei loro discorsi rinviare soltanto « a
Mosè e ai profeti »; dovevano anche far leva sulla conoscenza naturale di
Dio e sulla voce della coscienza morale di ogni uomo (cfr Rm 1, 19-21; 2,
14-15; At 14, 16-17). Poiché però tale conoscenza naturale, nella
religione pagana, era scaduta in idolatria (cfr Rm 1, 21-32),
l'Apostolo ritenne più saggio collegare il suo discorso al pensiero dei
filosofi, i quali fin dagli inizi avevano opposto ai miti e ai culti
misterici concetti più rispettosi della trascendenza divina.
Uno degli sforzi maggiori che i filosofi del pensiero
classico operarono, infatti, fu quello di purificare la concezione che gli
uomini avevano di Dio da forme mitologiche. Come sappiamo, anche la
religione greca, non diversamente da gran parte delle religioni cosmiche,
era politeista, giungendo fino a divinizzare cose e fenomeni della natura.
I tentativi dell'uomo di comprendere l'origine degli dei e, in loro,
dell'universo trovarono la loro prima espressione nella poesia. Le
teogonie rimangono, fino ad oggi, la prima testimonianza di questa ricerca
dell'uomo. Fu compito dei padri della filosofia far emergere il legame tra
la ragione e la religione. Allargando lo sguardo verso i principi
universali, essi non si accontentarono più dei miti antichi, ma vollero
giungere a dare fondamento razionale alla loro credenza nella divinità. Si
intraprese, così, una strada che, uscendo dalle tradizioni antiche
particolari, si immetteva in uno sviluppo che corrispondeva alle esigenze
della ragione universale. Il fine verso cui tale sviluppo tendeva era la
consapevolezza critica di ciò in cui si credeva. La prima a trarre
vantaggio da simile cammino fu la concezione della divinità. Le
superstizioni vennero riconosciute come tali e la religione fu, almeno in
parte, purificata mediante l'analisi razionale. Fu su questa base che i
Padri della Chiesa avviarono un dialogo fecondo con i filosofi antichi,
aprendo la strada all'annuncio e alla comprensione del Dio di Gesù Cristo.
37. Nell'accennare a questo movimento di avvicinamento dei
cristiani alla filosofia, è doveroso ricordare anche l'atteggiamento di
cautela che in essi suscitavano altri elementi del mondo culturale pagano,
quali ad esempio la gnosi. La filosofia, come saggezza pratica e scuola di
vita, poteva facilmente essere confusa con una conoscenza di tipo
superiore, esoterico, riservato a pochi perfetti. E senza dubbio a questo
genere di speculazioni esoteriche che san Paolo pensa, quando mette in
guardia i Colossesi: « Badate che nessuno vi inganni con la sua filosofia
e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi
del mondo e non secondo Cristo » (2, 8). Quanto mai attuali si presentano
le parole dell'Apostolo, se le riferiamo alle diverse forme di esoterismo
che dilagano oggi anche presso alcuni credenti, privi del dovuto senso
critico. Sulle orme di san Paolo, altri scrittori dei primi secoli, in
particolare sant'Ireneo e Tertulliano, sollevano a loro volta riserve nei
confronti di un'impostazione culturale che pretendeva di subordinare la
verità della Rivelazione all'interpretazione dei filosofi.
8. L'incontro del cristianesimo con la filosofia, dunque,
non fu immediato né facile. La pratica di essa e la frequentazione delle
scuole apparve ai primi cristiani più come un disturbo che come
un'opportunità. Per loro, primo e urgente dovere era l'annuncio di Cristo
risorto da proporre in un incontro personale capace di condurre
l'interlocutore alla conversione del cuore e alla richiesta del Battesimo.
Ciò non significa, comunque, che essi ignorassero il compito di
approfondire l'intelligenza della fede e delle sue motivazioni. Tutt'altro.
Ingiusta e pretestuosa, pertanto, risulta la critica di Celso, che accusa
i cristiani di essere gente « illetterata e rozza ».(31) La spiegazione di
questo loro iniziale disinteresse va ricercata altrove. In realtà,
l'incontro con il Vangelo offriva una risposta così appagante alla
questione, fino a quel momento ancora non risolta, circa il senso della
vita, che la frequentazione dei filosofi appariva loro come una cosa
lontana e, per alcuni versi, superata.
Ciò appare oggi ancora più chiaro, se si pensa a
quell'apporto del cristianesimo che consiste nell'affermazione
dell'universale diritto d'accesso alla verità. Abbattute le barriere
razziali, sociali e sessuali, il cristianesimo aveva annunciato fin dai
suoi inizi l'uguaglianza di tutti gli uomini dinanzi a Dio. La prima
conseguenza di questa concezione si applicava al tema della verità. Veniva
decisamente superato il carattere elitario che la sua ricerca aveva presso
gli antichi: poiché l'accesso alla verità è un bene che permette di
giungere a Dio, tutti devono essere nella condizione di poter percorrere
questa strada. Le vie per raggiungere la verità rimangono molteplici;
tuttavia, poiché la verità cristiana ha un valore salvifico, ciascuna di
queste vie può essere percorsa, purché conduca alla meta finale, ossia
alla rivelazione di Gesù Cristo.
Quale pioniere di un incontro positivo col pensiero
filosofico, anche se nel segno di un cauto discernimento, va ricordato san
Giustino: questi, pur conservando anche dopo la conversione grande stima
per la filosofia greca, asseriva con forza e chiarezza di aver trovato nel
cristianesimo « l'unica sicura e proficua filosofia ».(32) Similmente,
Clemente Alessandrino chiamava il Vangelo « la vera filosofia »,(33) e
interpretava la filosofia in analogia alla legge mosaica come una
istruzione propedeutica alla fede cristiana (34) e una preparazione al
Vangelo.(35) Poiché « la filosofia brama quella sapienza che consiste
nella rettitudine dell'anima e della parola e nella purezza della vita,
essa è ben disposta verso la sapienza e fa tutto il possibile per
raggiungerla. Presso di noi si dicono filosofi coloro che amano la
sapienza che è creatrice e maestra di ogni cosa, cioè la conoscenza del
Figlio di Dio ».(36) La filosofia greca, per l'Alessandrino, non ha come
primo scopo quello di completare o rafforzare la verità cristiana; suo
compito è, piuttosto, la difesa della fede: « La dottrina del Salvatore è
perfetta in se stessa e non ha bisogno di appoggio, perché essa è la forza
e la sapienza di Dio. La filosofia greca, col suo apporto, non rende più
forte la verità, ma siccome rende impotente l'attacco della sofistica e
disarma gli attacchi proditori contro la verità, la si è chiamata a
ragione siepe e muro di cinta della vigna ».(37)
39. Nella storia di questo sviluppo è possibile, comunque,
verificare l'assunzione critica del pensiero filosofico da parte dei
pensatori cristiani. Tra i primi esempi che si possono incontrare, quello
di Origene è certamente significativo. Contro gli attacchi che venivano
mossi dal filosofo Celso, Origene assume la filosofia platonica per
argomentare e rispondergli. Riferendosi a non pochi elementi del pensiero
platonico, egli inizia a elaborare una prima forma di teologia cristiana.
Il nome stesso, infatti, insieme con l'idea di teologia come discorso
razionale su Dio, fino a quel momento era ancora legato alla sua origine
greca. Nella filosofia aristotelica, ad esempio, il nome designava la
parte più nobile e il vero apogeo del discorso filosofico. Alla luce della
Rivelazione cristiana, invece, ciò che in precedenza indicava una generica
dottrina sulle divinità venne ad assumere un significato del tutto nuovo,
in quanto definiva la riflessione che il credente compiva per esprimere
la vera dottrina su Dio. Questo nuovo pensiero cristiano che si andava
sviluppando si avvaleva della filosofia, ma nello stesso tempo tendeva a
distinguersi nettamente da essa. La storia mostra come lo stesso pensiero
platonico assunto in teologia abbia subito profonde trasformazioni, in
particolare per quanto riguarda concetti quali l'immortalità dell'anima,
la divinizzazione dell'uomo e l'origine del male.
40. In quest'opera di cristianizzazione del pensiero
platonico e neoplatonico, meritano particolare menzione i Padri Cappadoci,
Dionigi detto l'Areopagita e soprattutto sant'Agostino. Il grande Dottore
occidentale era venuto a contatto con diverse scuole filosofiche, ma tutte
lo avevano deluso. Quando davanti a lui si affacciò la verità della fede
cristiana, allora ebbe la forza di compiere quella radicale conversione a
cui i filosofi precedentemente frequentati non erano riusciti ad indurlo.
Il motivo lo racconta lui stesso: « Dal quel momento però cominciai a
rendermi conto che una preferenza per l'insegnamento cattolico mi avrebbe
imposto di credere a cose non dimostrate (sia che una dimostrazione ci
fosse ma non apparisse convincente, sia che non ci fosse del tutto) in
misura minore e con rischio d'errore trascurabile in confronto
all'insegnamento manicheo. Il quale prima si prendeva gioco della
credulità con temerarie promesse di conoscenza, e poi imponeva di credere
a tante fantasie favolose ed assurde, dato che non poteva dimostrarle
».(38) Agli stessi platonici, a cui si faceva riferimento in modo
privilegiato, Agostino rimproverava che, pur avendo conosciuto il fine
verso cui tendere, avevano ignorato però la via che vi conduce: il Verbo
incarnato.(39) Il Vescovo di Ippona riuscì a produrre la prima grande
sintesi del pensiero filosofico e teologico nella quale confluivano
correnti del pensiero greco e latino. Anche in lui, la grande unità del
sapere, che trovava il suo fondamento nel pensiero biblico, venne ad
essere confermata e sostenuta dalla profondità del pensiero speculativo.
La sintesi compiuta da sant'Agostino rimarrà per secoli come la forma più
alta della speculazione filosofica e teologica che l'Occidente abbia
conosciuto. Forte della sua storia personale e aiutato da una mirabile
santità di vita, egli fu anche in grado di introdurre nelle sue opere
molteplici dati che, facendo riferimento all'esperienza, preludevano a
futuri sviluppi di alcune correnti filosofiche.
41. Diverse, dunque, sono state le forme con cui i Padri
d'Oriente e d'Occidente sono entrati in rapporto con le scuole
filosofiche. Ciò non significa che essi abbiano identificato il contenuto
del loro messaggio con i sistemi a cui facevano riferimento. La domanda di
Tertulliano: « Che cosa hanno in comune Atene e Gerusalemme? Che cosa
l'Accademia e la Chiesa? »,(40) è chiaro sintomo della coscienza critica
con cui i pensatori cristiani, fin dalle origini, affrontarono il problema
del rapporto tra la fede e la filosofia, vedendolo globalmente nei suoi
aspetti positivi e nei suoi limiti. Non erano pensatori ingenui. Proprio
perché vivevano intensamente il contenuto della fede, essi sapevano
raggiungere le forme più profonde della speculazione. E pertanto ingiusto
e riduttivo limitare la loro opera alla sola trasposizione delle verità di
fede in categorie filosofiche. Fecero molto di più. Riuscirono, infatti, a
far emergere in pienezza quanto risultava ancora implicito e propedeutico
nel pensiero dei grandi filosofi antichi.(41) Costoro, come ho detto,
avevano avuto il compito di mostrare in quale modo la ragione, liberata
dai vincoli esterni, potesse uscire dal vicolo cieco dei miti, per aprirsi
in modo più adeguato alla trascendenza. Una ragione purificata e retta,
quindi, era in grado di elevarsi ai livelli più alti della riflessione,
dando fondamento solido alla percezione dell'essere, del trascendente e
dell'assoluto.
Proprio qui si inserisce la novità operata dai Padri. Essi
accolsero in pieno la ragione aperta all'assoluto e in essa innestarono la
ricchezza proveniente dalla Rivelazione. L'incontro non fu solo a livello
di culture, delle quali l'una succube forse del fascino dell'altra; esso
avvenne nell'intimo degli animi e fu incontro tra la creatura e il suo
Creatore. Oltrepassando il fine stesso verso cui inconsapevolmente tendeva
in forza della sua natura, la ragione poté raggiungere il sommo bene e la
somma verità nella persona del Verbo incarnato. Dinanzi alle filosofie, i
Padri non ebbero tuttavia timore di riconoscere tanto gli elementi comuni
quanto le diversità che esse presentavano rispetto alla Rivelazione. La
coscienza delle convergenze non offuscava in loro il riconoscimento delle
differenze.
42. Nella teologia scolastica il ruolo della ragione
filosoficamente educata diventa ancora più cospicuo sotto la spinta
dell'interpretazione anselmiana dell'intellectus fidei. Per il
santo Arcivescovo di Canterbury la priorità della fede non è competitiva
con la ricerca propria della ragione. Questa, infatti, non è chiamata a
esprimere un giudizio sui contenuti della fede; ne sarebbe incapace,
perché a ciò non idonea. Suo compito, piuttosto, è quello di saper trovare
un senso, di scoprire delle ragioni che permettano a tutti di raggiungere
una qualche intelligenza dei contenuti di fede. Sant'Anselmo sottolinea il
fatto che l'intelletto deve porsi in ricerca di ciò che ama: più ama, più
desidera conoscere. Chi vive per la verità è proteso verso una forma di
conoscenza che si infiamma sempre più di amore per ciò che conosce, pur
dovendo ammettere di non aver ancora fatto tutto ciò che sarebbe nel suo
desiderio: « Ad te videndum factus sum; et nondum feci propter quod
factus sum ».(42) Il desiderio di verità spinge, dunque, la ragione ad
andare sempre oltre; essa, anzi, viene come sopraffatta dalla costatazione
della sua capacità sempre più grande di ciò che raggiunge. A questo punto,
però, la ragione è in grado di scoprire ove stia il compimento del suo
cammino: « Penso infatti che chi investiga una cosa incomprensibile debba
accontentarsi di giungere con il ragionamento a riconoscerne con somma
certezza la realtà, anche se non è in grado di penetrare con l'intelletto
il suo modo di essere [...]. Che cosa c'è peraltro di tanto
incomprensibile ed inesprimibile quanto ciò che è al di sopra di ogni
cosa? Se dunque ciò di cui finora si è disputato intorno alla somma
essenza è stato stabilito su ragioni necessarie, quantunque non possa
essere penetrato con l'intelletto in modo da potersi chiarire anche
verbalmente, non per questo vacilla minimamente il fondamento della sua
certezza. Se, infatti, una precedente riflessione ha compreso in modo
razionale che è incomprensibile (rationabiliter comprehendit
incomprehensibile esse) il modo in cui la sapienza superna sa ciò che
ha fatto [...], chi spiegherà come essa stessa si conosce e si dice, essa
di cui l'uomo nulla o pressoché nulla può sapere? ».(43)
L'armonia fondamentale della conoscenza filosofica e della
conoscenza di fede è ancora una volta confermata: la fede chiede che il
suo oggetto venga compreso con l'aiuto della ragione; la ragione, al
culmine della sua ricerca, ammette come necessario ciò che la fede
presenta.
La novità perenne del pensiero di san Tommaso
d'Aquino
43. Un posto tutto particolare in questo lungo cammino
spetta a san Tommaso, non solo per il contenuto della sua dottrina, ma
anche per il rapporto dialogico che egli seppe instaurare con il pensiero
arabo ed ebreo del suo tempo. In un'epoca in cui i pensatori cristiani
riscoprivano i tesori della filosofia antica, e più direttamente
aristotelica, egli ebbe il grande merito di porre in primo piano l'armonia
che intercorre tra la ragione e la fede. La luce della ragione e quella
della fede provengono entrambe da Dio, egli argomentava; perciò non
possono contraddirsi tra loro.(44)
Più radicalmente, Tommaso riconosce che la natura, oggetto
proprio della filosofia, può contribuire alla comprensione della
rivelazione divina. La fede, dunque, non teme la ragione, ma la ricerca e
in essa confida. Come la grazia suppone la natura e la porta a
compimento,(45) così la fede suppone e perfeziona la ragione.
Quest'ultima, illuminata dalla fede, viene liberata dalle fragilità e dai
limiti derivanti dalla disobbedienza del peccato e trova la forza
necessaria per elevarsi alla conoscenza del mistero di Dio Uno e Trino.
Pur sottolineando con forza il carattere soprannaturale della fede, il
Dottore Angelico non ha dimenticato il valore della sua ragionevolezza; ha
saputo, anzi, scendere in profondità e precisare il senso di tale
ragionevolezza. La fede, infatti, è in qualche modo « esercizio del
pensiero »; la ragione dell'uomo non si annulla né si avvilisce dando
l'assenso ai contenuti di fede; questi sono in ogni caso raggiunti con
scelta libera e consapevole.(46)
E per questo motivo che, giustamente, san Tommaso è sempre
stato proposto dalla Chiesa come maestro di pensiero e modello del retto
modo di fare teologia. Mi piace ricordare, in questo contesto, quanto ha
scritto il mio Predecessore, il Servo di Dio Paolo VI, in occasione del
settimo centenario della morte del Dottore Angelico: « Senza dubbio,
Tommaso possedette al massimo grado il coraggio della verità, la libertà
di spirito nell'affrontare i nuovi problemi, l'onestà intellettuale di chi
non ammette la contaminazione del cristianesimo con la filosofia profana,
ma nemmeno il rifiuto aprioristico di questa. Perciò, egli passò alla
storia del pensiero cristiano come un pioniere sul nuovo cammino della
filosofia e della cultura universale. Il punto centrale e quasi il
nocciolo della soluzione che egli diede al problema del nuovo confronto
tra la ragione e la fede con la genialità del suo intuito profetico, è
stato quello della conciliazione tra la secolarità del mondo e la
radicalità del Vangelo, sfuggendo così alla innaturale tendenza negatrice
del mondo e dei suoi valori, senza peraltro venire meno alle supreme e
inflessibili esigenze dell'ordine soprannaturale ».(47)
44. Tra le grandi intuizioni di san Tommaso vi è anche
quella relativa al ruolo che lo Spirito Santo svolge nel far maturare in
sapienza la scienza umana. Fin dalle prime pagine della sua Summa
Theologiae (48) l'Aquinate volle mostrare il primato di quella
sapienza che è dono dello Spirito Santo ed introduce alla conoscenza delle
realtà divine. La sua teologia permette di comprendere la peculiarità
della sapienza nel suo stretto legame con la fede e la conoscenza divina.
Essa conosce per connaturalità, presuppone la fede e arriva a formulare il
suo retto giudizio a partire dalla verità della fede stessa: « La sapienza
elencata tra i doni dello Spirito Santo è distinta da quella che è posta
tra le virtù intellettuali. Infatti quest'ultima si acquista con lo
studio: quella invece “viene dall'alto”, come si esprime san Giacomo. Così
pure è distinta dalla fede. Poiché la fede accetta la verità divina così
com'è, invece è proprio del dono di sapienza giudicare secondo la verità
divina ».(49)
La priorità riconosciuta a questa sapienza, tuttavia, non
fa dimenticare al Dottore Angelico la presenza di altre due complementari
forme di sapienza: quella filosofica, che si fonda sulla capacità
che l'intelletto ha, entro i limiti che gli sono connaturali, di indagare
la realtà; e quella teologica, che si fonda sulla Rivelazione ed
esamina i contenuti della fede, raggiungendo il mistero stesso di Dio.
Intimamente convinto che « omne verum a quocumque
dicatur a Spiritu Sancto est »,(50) san Tommaso amò in maniera
disinteressata la verità. Egli la cercò dovunque essa si potesse
manifestare, evidenziando al massimo la sua universalità. In lui, il
Magistero della Chiesa ha visto ed apprezzato la passione per la verità;
il suo pensiero, proprio perché si mantenne sempre nell'orizzonte della
verità universale, oggettiva e trascendente, raggiunse « vette che
l'intelligenza umana non avrebbe mai potuto pensare ».(51) Con ragione,
quindi, egli può essere definito « apostolo della verità ».(52) Proprio
perché alla verità mirava senza riserve, nel suo realismo egli seppe
riconoscerne l'oggettività. La sua è veramente la filosofia dell'essere e
non del semplice apparire.
Il dramma della separazione tra fede e ragione
45. Con il sorgere delle prime università, la teologia
veniva a confrontarsi più direttamente con altre forme della ricerca e del
sapere scientifico. Sant'Alberto Magno e san Tommaso, pur mantenendo un
legame organico tra la teologia e la filosofia, furono i primi a
riconoscere la necessaria autonomia di cui la filosofia e le scienze
avevano bisogno, per applicarsi efficacemente ai rispettivi campi di
ricerca. A partire dal tardo Medio Evo, tuttavia, la legittima distinzione
tra i due saperi si trasformò progressivamente in una nefasta separazione.
A seguito di un eccessivo spirito razionalista, presente in alcuni
pensatori, si radicalizzarono le posizioni, giungendo di fatto a una
filosofia separata e assolutamente autonoma nei confronti dei contenuti
della fede. Tra le altre conseguenze di tale separazione vi fu anche
quella di una diffidenza sempre più forte nei confronti della stessa
ragione. Alcuni iniziarono a professare una sfiducia generale, scettica e
agnostica, o per riservare più spazio alla fede o per screditarne ogni
possibile riferimento razionale.
Insomma, ciò che il pensiero patristico e medievale aveva
concepito e attuato come unità profonda, generatrice di una conoscenza
capace di arrivare alle forme più alte della speculazione, venne di fatto
distrutto dai sistemi che sposarono la causa di una conoscenza razionale
separata dalla fede e alternativa ad essa.
46. Le radicalizzazioni più influenti sono note e ben
visibili, soprattutto nella storia dell'Occidente. Non è esagerato
affermare che buona parte del pensiero filosofico moderno si è sviluppato
allontanandosi progressivamente dalla Rivelazione cristiana, fino a
raggiungere contrapposizioni esplicite. Nel secolo scorso, questo
movimento ha toccato il suo apogeo. Alcuni rappresentanti dell'idealismo
hanno cercato in diversi modi di trasformare la fede e i suoi contenuti,
perfino il mistero della morte e risurrezione di Gesù Cristo, in strutture
dialettiche razionalmente concepibili. A questo pensiero si sono opposte
diverse forme di umanesimo ateo, elaborate filosoficamente, che hanno
prospettato la fede come dannosa e alienante per lo sviluppo della piena
razionalità. Non hanno avuto timore di presentarsi come nuove religioni
formando la base di progetti che, sul piano politico e sociale, sono
sfociati in sistemi totalitari traumatici per l'umanità.
Nell'ambito della ricerca scientifica si è venuta imponendo
una mentalità positivista che non soltanto si è allontanata da ogni
riferimento alla visione cristiana del mondo, ma ha anche, e soprattutto,
lasciato cadere ogni richiamo alla visione metafisica e morale. La
conseguenza di ciò è che certi scienziati, privi di ogni riferimento
etico, rischiano di non avere più al centro del loro interesse la persona
e la globalità della sua vita. Di più: alcuni di essi, consapevoli delle
potenzialità insite nel progresso tecnologico, sembrano cedere, oltre che
alla logica del mercato, alla tentazione di un potere demiurgico sulla
natura e sullo stesso essere umano.
Come conseguenza della crisi del razionalismo ha preso
corpo, infine, il nichilismo. Quale filosofia del nulla, esso
riesce ad esercitare un suo fascino sui nostri contemporanei. I suoi
seguaci teorizzano la ricerca come fine a se stessa, senza speranza né
possibilità alcuna di raggiungere la meta della verità.
Nell'interpretazione nichilista, l'esistenza è solo un'opportunità per
sensazioni ed esperienze in cui l'effimero ha il primato. Il nichilismo è
all'origine di quella diffusa mentalità secondo cui non si deve assumere
più nessun impegno definitivo, perché tutto è fugace e provvisorio.
47. Non è da dimenticare, d'altra parte, che nella cultura
moderna è venuto a cambiare il ruolo stesso della filosofia. Da saggezza e
sapere universale, essa si è ridotta progressivamente a una delle tante
province del sapere umano; per alcuni aspetti, anzi, è stata limitata a un
ruolo del tutto marginale. Altre forme di razionalità si sono nel
frattempo affermate con sempre maggior rilievo, ponendo in evidenza la
marginalità del sapere filosofico. Invece che verso la contemplazione
della verità e la ricerca del fine ultimo e del senso della vita, queste
forme di razionalità sono orientate — o almeno orientabili — come «
ragione strumentale » al servizio di fini utilitaristici, di fruizione o
di potere.
Quanto sia pericoloso assolutizzare questa strada l'ho
fatto osservare fin dalla mia prima Lettera enciclica quando scrivevo: «
L'uomo di oggi sembra essere sempre minacciato da ciò che produce, cioè
dal risultato del lavoro delle sue mani e, ancor più, del lavoro del suo
intelletto, delle tendenze della sua volontà. I frutti di questa
multiforme attività dell'uomo, troppo presto e in modo spesso
imprevedibile, sono non soltanto e non tanto oggetto di 'alienazione', nel
senso che vengono semplicemente tolti a colui che li ha prodotti; quanto,
almeno parzialmente, in una cerchia conseguente e indiretta dei loro
effetti, questi frutti si rivolgono contro l'uomo stesso. Essi sono,
infatti, diretti, o possono essere diretti contro di lui. In questo sembra
consistere l'atto principale del dramma dell'esistenza umana
contemporanea, nella sua più larga e universale dimensione. L'uomo,
pertanto, vive sempre più nella paura. Egli teme che i suoi prodotti,
naturalmente non tutti e non nella maggior parte, ma alcuni e proprio
quelli che contengono una speciale porzione della sua genialità e della
sua iniziativa, possano essere rivolti in modo radicale contro lui stesso
».(53)
Sulla scia di queste trasformazioni culturali, alcuni
filosofi, abbandonando la ricerca della verità per se stessa, hanno
assunto come loro unico scopo il raggiungimento della certezza soggettiva
o dell'utilità pratica. Conseguenza di ciò è stato l'offuscamento della
vera dignità della ragione, non più messa nella condizione di conoscere il
vero e di ricercare l'assoluto.
48. Ciò che emerge da questo ultimo scorcio di storia della
filosofia è, dunque, la constatazione di una progressiva separazione tra
la fede e la ragione filosofica. E ben vero che, ad una attenta
osservazione, anche nella riflessione filosofica di coloro che
contribuirono ad allargare la distanza tra fede e ragione si manifestano
talvolta germi preziosi di pensiero, che, se approfonditi e sviluppati con
rettitudine di mente e di cuore, possono far scoprire il cammino della
verità. Questi germi di pensiero si trovano, ad esempio, nelle
approfondite analisi sulla percezione e l'esperienza, sull'immaginario e
l'inconscio, sulla personalità e l'intersoggettività, sulla libertà ed i
valori, sul tempo e la storia. Anche il tema della morte può diventare
severo richiamo, per ogni pensatore, a ricercare dentro di sé il senso
autentico della propria esistenza. Questo tuttavia non toglie che
l'attuale rapporto tra fede e ragione richieda un attento sforzo di
discernimento, perché sia la ragione che la fede si sono impoverite e sono
divenute deboli l'una di fronte all'altra. La ragione, privata
dell'apporto della Rivelazione, ha percorso sentieri laterali che
rischiano di farle perdere di vista la sua meta finale. La fede, privata
della ragione, ha sottolineato il sentimento e l'esperienza, correndo il
rischio di non essere più una proposta universale. E illusorio pensare che
la fede, dinanzi a una ragione debole, abbia maggior incisività; essa, al
contrario, cade nel grave pericolo di essere ridotta a mito o
superstizione. Alla stessa stregua, una ragione che non abbia dinanzi una
fede adulta non è provocata a puntare lo sguardo sulla novità e radicalità
dell'essere.
Non sembri fuori luogo, pertanto, il mio richiamo forte e
incisivo, perché la fede e la filosofia recuperino l'unità profonda che le
rende capaci di essere coerenti con la loro natura nel rispetto della
reciproca autonomia. Alla parresia della fede deve corrispondere
l'audacia della ragione.
CAPITOLO V
GLI INTERVENTI DEL MAGISTERO
Il discernimento del Magistero come diaconia alla
verità
49. La Chiesa non propone una propria filosofia né
canonizza una qualsiasi filosofia particolare a scapito di altre.(54) La
ragione profonda di questa riservatezza sta nel fatto che la filosofia,
anche quando entra in rapporto con la teologia, deve procedere secondo i
suoi metodi e le sue regole; non vi sarebbe altrimenti garanzia che essa
rimanga orientata verso la verità e ad essa tenda con un processo
razionalmente controllabile. Di poco aiuto sarebbe una filosofia che non
procedesse alla luce della ragione secondo propri principi e specifiche
metodologie. In fondo, la radice della autonomia di cui gode la filosofia
è da individuare nel fatto che la ragione è per sua natura orientata alla
verità ed è inoltre in se stessa fornita dei mezzi necessari per
raggiungerla. Una filosofia consapevole di questo suo « statuto
costitutivo » non può non rispettare anche le esigenze e le evidenze
proprie della verità rivelata.
La storia, tuttavia, ha mostrato le deviazioni e gli errori
in cui non di rado il pensiero filosofico, soprattutto moderno, è incorso.
Non è compito né competenza del Magistero intervenire per colmare le
lacune di un discorso filosofico carente. E suo obbligo, invece, reagire
in maniera chiara e forte quando tesi filosofiche discutibili minacciano
la retta comprensione del dato rivelato e quando si diffondono teorie
false e di parte che seminano gravi errori, confondendo la semplicità e la
purezza della fede del popolo di Dio.
50. Il Magistero ecclesiastico, quindi, può e deve
esercitare autoritativamente, alla luce della fede, il proprio
discernimento critico nei confronti delle filosofie e delle affermazioni
che si scontrano con la dottrina cristiana.(55) Al Magistero spetta di
indicare, anzitutto, quali presupposti e conclusioni filosofiche sarebbero
incompatibili con la verità rivelata, formulando con ciò stesso le
esigenze che si impongono alla filosofia dal punto di vista della fede.
Nello sviluppo del sapere filosofico, inoltre, sono sorte diverse scuole
di pensiero. Anche questo pluralismo pone il Magistero di fronte alla
responsabilità di esprimere il suo giudizio circa la compatibilità o meno
delle concezioni di fondo, a cui queste scuole si attengono, con le
esigenze proprie della Parola di Dio e della riflessione teologica.
La Chiesa ha il dovere di indicare ciò che in un sistema
filosofico può risultare incompatibile con la sua fede. Molti contenuti
filosofici, infatti, quali i temi di Dio, dell'uomo, della sua libertà e
del suo agire etico, la chiamano in causa direttamente, perché toccano la
verità rivelata che essa custodisce. Quando esercitiamo questo
discernimento, noi Vescovi abbiamo il compito di essere « testimoni della
verità » nell'adempimento di una diaconia umile ma tenace, quale ogni
filosofo dovrebbe apprezzare, a vantaggio della recta ratio, ossia della
ragione che riflette correttamente sul vero.
51. Questo discernimento, comunque, non deve essere inteso
primariamente in forma negativa, come se intenzione del Magistero fosse di
eliminare o ridurre ogni possibile mediazione. Al contrario, i suoi
interventi sono tesi in primo luogo a provocare, promuovere e incoraggiare
il pensiero filosofico. I filosofi per primi, d'altronde, comprendono
l'esigenza dell'autocritica, della correzione di eventuali errori e la
necessità di oltrepassare i limiti troppo ristretti in cui la loro
riflessione è concepita. Si deve considerare, in modo particolare, che una
è la verità, benché le sue espressioni portino l'impronta della storia e,
per di più, siano opera di una ragione umana ferita e indebolita dal
peccato. Da ciò risulta che nessuna forma storica della filosofia può
legittimamente pretendere di abbracciare la totalità della verità, né di
essere la spiegazione piena dell'essere umano, del mondo e del rapporto
dell'uomo con Dio.
Oggi poi, col moltiplicarsi dei sistemi, dei metodi, dei
concetti e argomenti filosofici, spesso estremamente particolareggiati, un
discernimento critico alla luce della fede si impone con maggiore urgenza.
Discernimento non facile, perché se è già laborioso riconoscere le
capacità congenite e inalienabili della ragione, con i suoi limiti
costitutivi e storici, ancora più problematico qualche volta può risultare
il discernimento, nelle singole proposte filosofiche, di ciò che, dal
punto di vista della fede, esse offrono di valido e di fecondo rispetto a
ciò che, invece, presentano di erroneo o di pericoloso. La Chiesa,
comunque, sa che i « tesori della sapienza e della scienza » sono nascosti
in Cristo (Col 2, 3); per questo interviene stimolando la
riflessione filosofica, perché non si precluda la strada che conduce al
riconoscimento del mistero.
52. Non è solo di recente che il Magistero della Chiesa è
intervenuto per manifestare il suo pensiero nei confronti di determinate
dottrine filosofiche. A titolo esemplificativo basti ricordare, nel corso
dei secoli, i pronunciamenti circa le teorie che sostenevano la
preesistenza delle anime,(56) come pure circa le diverse forme di
idolatria e di esoterismo superstizioso, contenute in tesi astrologiche;
(57) per non dimenticare i testi più sistematici contro alcune tesi
dell'averroismo latino, incompatibili con la fede cristiana.(58)
Se la parola del Magistero si è fatta udire più spesso a
partire dalla metà del secolo scorso è perché in quel periodo non pochi
cattolici sentirono il dovere di opporre una loro filosofia alle varie
correnti del pensiero moderno. A questo punto, diventava obbligatorio per
il Magistero della Chiesa vegliare perché queste filosofie non deviassero,
a loro volta, in forme erronee e negative. Furono così censurati
simmetricamente: da una parte, il fideismo (59) e il
tradizionalismo radicale,(60) per la loro sfiducia nelle capacità
naturali della ragione; dall'altra parte, il razionalismo (61) e l'ontologismo,(62)
perché attribuivano alla ragione naturale ciò che è conoscibile solo alla
luce della fede. I contenuti positivi di questo dibattito furono
formalizzati nella Costituzione dogmatica Dei Filius, con la quale
per la prima volta un Concilio ecumenico, il Vaticano I, interveniva in
maniera solenne sui rapporti tra ragione e fede. L'insegnamento contenuto
in quel testo caratterizzò fortemente e in maniera positiva la ricerca
filosofica di molti credenti e costituisce ancora oggi un punto di
riferimento normativo per una corretta e coerente riflessione cristiana in
questo particolare ambito.
53. Più che di singole tesi filosofiche, i pronunciamenti
del Magistero si sono occupati della necessità della conoscenza razionale
e, dunque, ultimamente filosofica per l'intelligenza della fede. Il
Concilio Vaticano I, sintetizzando e riaffermando in modo solenne gli
insegnamenti che in maniera ordinaria e costante il Magistero pontificio
aveva proposto per i fedeli, mise in evidenza quanto fossero inseparabili
e insieme irriducibili la conoscenza naturale di Dio e la Rivelazione, la
ragione e la fede. Il Concilio partiva dall'esigenza fondamentale,
presupposta dalla Rivelazione stessa, della conoscibilità naturale
dell'esistenza di Dio, principio e fine di ogni cosa,(63) e concludeva con
l'asserzione solenne già citata: « esistono due ordini di conoscenza,
distinti non solo per il loro principio, ma anche per il loro oggetto
».(64) Bisognava affermare, dunque, contro ogni forma di razionalismo, la
distinzione dei misteri della fede dai ritrovati filosofici e la
trascendenza e precedenza di quelli rispetto a questi; d'altra parte,
contro le tentazioni fideistiche, era necessario che si ribadisse l'unità
della verità e, quindi, anche l'apporto positivo che la conoscenza
razionale può e deve dare alla conoscenza di fede: « Ma anche se la fede è
sopra la ragione, non vi potrà mai essere una vera divergenza tra fede e
ragione: poiché lo stesso Dio, che rivela i misteri e comunica la fede, ha
anche deposto nello spirito umano il lume della ragione, questo Dio non
potrebbe negare se stesso, né il vero contraddire il vero ».(65)
54. Anche nel nostro secolo, il Magistero è ritornato più
volte sull'argomento mettendo in guardia contro la tentazione
razionalistica. E su questo scenario che si devono collocare gli
interventi del Papa san Pio X, il quale rilevava come alla base del
modernismo vi fossero asserti filosofici di indirizzo fenomenista,
agnostico e immanentista.(66) Non si può neppure dimenticare l'importanza
che ebbe il rifiuto cattolico della filosofia marxista e del comunismo
ateo.(67)
Successivamente, il Papa Pio XII fece sentire la sua voce
quando, nella Lettera enciclica Humani generis, mise in guardia
contro interpretazioni erronee, collegate con le tesi dell'evoluzionismo,
dell'esistenzialismo e dello storicismo. Egli precisava che queste tesi
erano state elaborate e venivano proposte non da teologi, avendo la loro
origine « fuori dall'ovile di Cristo »; (68) aggiungeva, comunque, che
tali deviazioni non erano semplicemente da rigettare, ma da esaminare
criticamente: « Ora queste tendenze, che più o meno deviano dalla retta
strada, non possono essere ignorate o trascurate dai filosofi o dai
teologi cattolici, che hanno il grave compito di difendere la verità
divina ed umana e di farla penetrare nelle menti degli uomini. Anzi, essi
devono conoscere bene queste opinioni, sia perché le malattie non si
possono curare se prima non sono ben conosciute, sia perché qualche volta
nelle stesse false affermazioni si nasconde un po' di verità, sia, infine,
perché gli stessi errori spingono la mente nostra a investigare e a
scrutare con più diligenza alcune verità sia filosofiche sia teologiche
».(69)
Da ultimo, anche la Congregazione per la Dottrina della
Fede, in adempimento del suo specifico compito a servizio del magistero
universale del Romano Pontefice,(70) ha dovuto intervenire per ribadire il
pericolo che comporta l'assunzione acritica, da parte di alcuni teologi
della liberazione, di tesi e metodologie derivanti dal marxismo.(71)
Nel passato il Magistero ha dunque esercitato ripetutamente
e sotto diverse modalità il discernimento in materia filosofica. Quanto i
miei Venerati Predecessori hanno apportato costituisce un prezioso
contributo che non può essere dimenticato.
55. Se guardiamo alla nostra condizione odierna, vediamo
che i problemi di un tempo ritornano, ma con peculiarità nuove. Non si
tratta più solamente di questioni che interessano singole persone o
gruppi, ma di convinzioni diffuse nell'ambiente al punto da divenire in
qualche misura mentalità comune. Tale è, ad esempio, la radicale sfiducia
nella ragione che rivelano i più recenti sviluppi di molti studi
filosofici. Da più parti si è sentito parlare, a questo riguardo, di «
fine della metafisica »: si vuole che la filosofia si accontenti di
compiti più modesti, quali la sola interpretazione del fattuale o la sola
indagine su campi determinati del sapere umano o sulle sue strutture.
Nella stessa teologia tornano ad affacciarsi le tentazioni
di un tempo. In alcune teologie contemporanee, ad esempio, si fa
nuovamente strada un certo razionalismo, soprattutto quando asserti
ritenuti filosoficamente fondati sono assunti come normativi per la
ricerca teologica. Ciò accade soprattutto quando il teologo, per mancanza
di competenza filosofica, si lascia condizionare in modo acritico da
affermazioni entrate ormai nel linguaggio e nella cultura corrente, ma
prive di sufficiente base razionale.(72)
Non mancano neppure pericolosi ripiegamenti sul fideismo,
che non riconosce l'importanza della conoscenza razionale e del discorso
filosofico per l'intelligenza della fede, anzi per la stessa possibilità
di credere in Dio. Un'espressione oggi diffusa di tale tendenza fideistica
è il « biblicismo », che tende a fare della lettura della Sacra Scrittura
o della sua esegesi l'unico punto di riferimento veritativo. Accade così
che si identifichi la parola di Dio con la sola Sacra Scrittura,
vanificando in tal modo la dottrina della Chiesa che il Concilio Ecumenico
Vaticano II ha ribadito espressamente. La Costituzione Dei Verbum,
dopo aver ricordato che la parola di Dio è presente sia nei testi sacri
che nella Tradizione,(73) afferma con forza: « La Sacra Tradizione e la
Sacra Scrittura costituiscono un solo sacro deposito della parola di Dio
affidato alla Chiesa. Aderendo ad esso tutto il popolo santo, unito ai
suoi Pastori, persevera costantemente nell'insegnamento degli Apostoli
».(74) La Sacra Scrittura, pertanto, non è il solo riferimento per la
Chiesa. La « regola suprema della propria fede »,(75) infatti, le proviene
dall'unità che lo Spirito ha posto tra la Sacra Tradizione, la Sacra
Scrittura e il Magistero della Chiesa in una reciprocità tale per cui i
tre non possono sussistere in maniera indipendente.(76)
Non è da sottovalutare, inoltre, il pericolo insito nel
voler derivare la verità della Sacra Scrittura dall'applicazione di una
sola metodologia, dimenticando la necessità di una esegesi più ampia che
consenta di accedere, insieme con tutta la Chiesa, al senso pieno dei
testi. Quanti si dedicano allo studio delle Sacre Scritture devono sempre
tener presente che le diverse metodologie ermeneutiche hanno anch'esse
alla base una concezione filosofica: occorre vagliarla con discernimento
prima di applicarla ai testi sacri.
Altre forme di latente fideismo sono riconoscibili nella
poca considerazione che viene riservata alla teologia speculativa, come
pure nel disprezzo per la filosofia classica, alle cui nozioni sia
l'intelligenza della fede sia le stesse formulazioni dogmatiche hanno
attinto i loro termini. Il Papa Pio XII, di venerata memoria, ha messo in
guardia contro tale oblio della tradizione filosofica e contro l'abbandono
delle terminologie tradizionali.(77)
56. Si nota, insomma, una diffusa diffidenza verso gli
asserti globali e assoluti, soprattutto da parte di chi ritiene che la
verità sia il risultato del consenso e non dell'adeguamento
dell'intelletto alla realtà oggettiva. E certo comprensibile che, in un
mondo suddiviso in molti campi specialistici, diventi difficile
riconoscere quel senso totale e ultimo della vita che la filosofia
tradizionalmente ha cercato. Nondimeno alla luce della fede che riconosce
in Gesù Cristo tale senso ultimo, non posso non incoraggiare i filosofi,
cristiani o meno, ad avere fiducia nelle capacità della ragione umana e a
non prefiggersi mete troppo modeste nel loro filosofare. La lezione della
storia di questo millennio, che stiamo per concludere, testimonia che
questa è la strada da seguire: bisogna non perdere la passione per la
verità ultima e l'ansia per la ricerca, unite all'audacia di scoprire
nuovi percorsi. E la fede che provoca la ragione a uscire da ogni
isolamento e a rischiare volentieri per tutto ciò che è bello, buono e
vero. La fede si fa così avvocato convinto e convincente della ragione.
L'interesse della Chiesa per la filosofia
57. Il Magistero, comunque, non si è limitato solo a
rilevare gli errori e le deviazioni delle dottrine filosofiche. Con
altrettanta attenzione ha voluto ribadire i principi fondamentali per un
genuino rinnovamento del pensiero filosofico, indicando anche concreti
percorsi da seguire. In questo senso, il Papa Leone XIII con la sua
Lettera enciclica Æterni Patris compì un passo di autentica portata
storica per la vita della Chiesa. Quel testo è stato, fino ad oggi,
l'unico documento pontificio di quel livello dedicato interamente alla
filosofia. Il grande Pontefice riprese e sviluppò l'insegnamento del
Concilio Vaticano I sul rapporto tra fede e ragione, mostrando come il
pensare filosofico sia un contributo fondamentale per la fede e la scienza
teologica.(78) A più di un secolo di distanza, molte indicazioni contenute
in quel testo non hanno perduto nulla del loro interesse dal punto di
vista sia pratico che pedagogico; primo fra tutti, quello relativo
all'incomparabile valore della filosofia di san Tommaso. La riproposizione
del pensiero del Dottore Angelico appariva a Papa Leone XIII come la
strada migliore per ricuperare un uso della filosofia conforme alle
esigenze della fede. San Tommaso, egli scriveva, « nel momento stesso in
cui, come conviene, distingue perfettamente la fede dalla ragione, le
unisce ambedue con legami di amicizia reciproca: conserva ad ognuna i
propri diritti e ne salvaguarda la dignità ».(79)
58. Si sa quante felici conseguenze abbia avuto
quell'invito pontificio. Gli studi sul pensiero di san Tommaso e di altri
autori scolastici ricevettero nuovo slancio. Fu dato vigoroso impulso agli
studi storici, con la conseguente riscoperta delle ricchezze del pensiero
medievale, fino a quel momento largamente sconosciute, e si costituirono
nuove scuole tomistiche. Con l'applicazione della metodologia storica, la
conoscenza dell'opera di san Tommaso fece grandi progressi e numerosi
furono gli studiosi che con coraggio introdussero la tradizione tomista
nelle discussioni sui problemi filosofici e teologici di quel momento. I
teologi cattolici più influenti di questo secolo, alla cui riflessione e
ricerca molto deve il Concilio Vaticano II, sono figli di tale
rinnovamento della filosofia tomista. La Chiesa ha potuto così disporre,
nel corso del XX secolo, di una vigorosa schiera di pensatori formati alla
scuola dell'Angelico Dottore.
59. Il rinnovamento tomista e neotomista, comunque, non è
stato l'unico segno di ripresa del pensiero filosofico nella cultura di
ispirazione cristiana. Già prima, e in parallelo con l'invito leoniano,
erano emersi non pochi filosofi cattolici che, ricollegandosi a correnti
di pensiero più recenti, secondo una propria metodologia, avevano prodotto
opere filosofiche di grande influsso e di valore durevole. Ci fu chi
organizzò sintesi di così alto profilo che nulla hanno da invidiare ai
grandi sistemi dell'idealismo; chi, inoltre, pose le basi epistemologiche
per una nuova trattazione della fede alla luce di una rinnovata
comprensione della coscienza morale; chi, ancora, produsse una filosofia
che, partendo dall'analisi dell'immanenza, apriva il cammino verso il
trascendente; e chi, infine, tentò di coniugare le esigenze della fede
nell'orizzonte della metodologia fenomenologica. Da diverse prospettive,
insomma, si è continuato a produrre forme di speculazione filosofica che
hanno inteso mantenere viva la grande tradizione del pensiero cristiano
nell'unità di fede e ragione.
60. Il Concilio Ecumenico Vaticano II, per parte sua,
presenta un insegnamento molto ricco e fecondo nei confronti della
filosofia. Non posso dimenticare, soprattutto nel contesto di questa
Lettera enciclica, che un intero capitolo della Costituzione Gaudium et
spes costituisce quasi un compendio di antropologia biblica, fonte di
ispirazione anche per la filosofia. In quelle pagine si tratta del valore
della persona umana creata a immagine di Dio, si motiva la sua dignità e
superiorità sul resto del creato e si mostra la capacità trascendente
della sua ragione.(80) Anche il problema dell'ateismo viene considerato
nella Gaudium et spes e ben si motivano gli errori di quella
visione filosofica, soprattutto nei confronti dell'inalienabile dignità
della persona e della sua libertà.(81) Certamente possiede anche un
profondo significato filosofico l'espressione culminante di quelle pagine,
che ho ripreso nella mia prima Lettera enciclica Redemptor hominis
e che costituisce uno dei punti di riferimento costante del mio
insegnamento: « In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova
vera luce il mistero dell'uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, era figura
di quello futuro e cioè di Cristo Signore. Cristo, che è il nuovo Adamo,
proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche
pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione ».(82)
Il Concilio si è occupato anche dello studio della
filosofia, a cui devono dedicarsi i candidati al sacerdozio; sono
raccomandazioni estensibili più in generale all'insegnamento cristiano nel
suo insieme. Afferma il Concilio: « Le discipline filosofiche si insegnino
in maniera che gli alunni siano anzitutto guidati all'acquisto di una
solida e armonica conoscenza dell'uomo, del mondo e di Dio, basandosi sul
patrimonio filosofico perennemente valido, tenuto conto anche delle
correnti filosofiche moderne ».(83)
Queste direttive sono state a più riprese ribadite e
specificate in altri documenti magisteriali con lo scopo di garantire una
solida formazione filosofica, soprattutto per coloro che si preparano agli
studi teologici. Da parte mia, più volte ho sottolineato l'importanza di
questa formazione filosofica per quanti dovranno un giorno, nella vita
pastorale, confrontarsi con le istanze del mondo contemporaneo e cogliere
le cause di alcuni comportamenti per darvi pronta risposta.(84)
61. Se in diverse circostanze è stato necessario
intervenire su questo tema, ribadendo anche il valore delle intuizioni del
Dottore Angelico e insistendo per l'acquisizione del suo pensiero, ciò è
dipeso dal fatto che le direttive del Magistero non sono state sempre
osservate con la desiderabile disponibilità. In molte scuole cattoliche,
negli anni che seguirono il Concilio Vaticano II, si è potuto osservare,
in materia, un certo decadimento dovuto ad una minore stima, non solo
della filosofia scolastica, ma più in generale dello stesso studio della
filosofia. Con meraviglia e dispiacere devo costatare che non pochi
teologi condividono questo disinteresse per lo studio della filosofia.
Diverse sono le ragioni che stanno alla base di questa
disaffezione. In primo luogo, è da registrare la sfiducia nella ragione
che gran parte della filosofia contemporanea manifesta, abbandonando
largamente la ricerca metafisica sulle domande ultime dell'uomo, per
concentrare la propria attenzione su problemi particolari e regionali,
talvolta anche puramente formali. Si deve aggiungere, inoltre, il
fraintendimento che si è creato soprattutto in rapporto alle « scienze
umane ». Il Concilio Vaticano II ha più volte ribadito il valore positivo
della ricerca scientifica in ordine a una conoscenza più profonda del
mistero dell'uomo.(85) L'invito fatto ai teologi perché conoscano queste
scienze e, all'occorrenza, le applichino correttamente nella loro indagine
non deve, tuttavia, essere interpretato come un'implicita autorizzazione
ad emarginare la filosofia o a sostituirla nella formazione pastorale e
nella praeparatio fidei. Non si può dimenticare, infine, il
ritrovato interesse per l'inculturazione della fede. In modo particolare
la vita delle giovani Chiese ha permesso di scoprire, accanto ad elevate
forme di pensiero, la presenza di molteplici espressioni di saggezza
popolare. Ciò costituisce un reale patrimonio di cultura e di tradizioni.
Lo studio, tuttavia, delle usanze tradizionali deve andare di pari passo
con la ricerca filosofica. Sarà questa a permettere di far emergere i
tratti positivi della saggezza popolare, creando il necessario
collegamento con l'annuncio del Vangelo.(86)
62. Desidero ribadire con vigore che lo studio della
filosofia riveste un carattere fondamentale e ineliminabile nella
struttura degli studi teologici e nella formazione dei candidati al
sacerdozio. Non è un caso che il curriculum di studi teologici sia
preceduto da un periodo di tempo nel quale è previsto uno speciale impegno
nello studio della filosofia. Questa scelta, confermata dal Concilio
Lateranense V,(87) affonda le sue radici nell'esperienza maturata durante
il Medio Evo, quando è stata posta in evidenza l'importanza di una
costruttiva armonia tra il sapere filosofico e quello teologico. Questo
ordinamento degli studi ha influenzato, facilitato e promosso, anche se in
maniera indiretta, una buona parte dello sviluppo della filosofia moderna.
Un esempio significativo è dato dall'influsso esercitato dalle
Disputationes metaphysicae di Francesco Suárez, le quali trovavano
spazio perfino nelle università luterane tedesche. Il venire meno di
questa metodologia, invece, fu causa di gravi carenze sia nella formazione
sacerdotale che nella ricerca teologica. Si consideri, ad esempio, la
disattenzione nei confronti del pensiero e della cultura moderna, che ha
portato alla chiusura ad ogni forma di dialogo o alla indiscriminata
accoglienza di ogni filosofia.
Confido vivamente che queste difficoltà siano superate da
un'intelligente formazione filosofica e teologica, che non deve mai venire
meno nella Chiesa.
63. In forza delle ragioni espresse, mi è sembrato urgente
ribadire, con questa Lettera enciclica, il forte interesse che la Chiesa
dedica alla filosofia; anzi, il legame intimo che unisce il lavoro
teologico alla ricerca filosofica della verità. Di qui deriva il dovere
che il Magistero ha di discernere e stimolare un pensiero filosofico che
non sia in dissonanza con la fede. Mio compito è di proporre alcuni
principi e punti di riferimento che ritengo necessari per poter instaurare
una relazione armoniosa ed efficace tra la teologia e la filosofia. Alla
loro luce sarà possibile discernere con maggior chiarezza se e quale
rapporto la teologia debba intraprendere con i diversi sistemi o asserti
filosofici, che il mondo attuale presenta.
CAPITOLO VI
INTERAZIONE
La scienza della fede e le esigenze della ragione
filosofica
64. La parola di Dio si indirizza a ogni uomo, in ogni
tempo e in ogni parte della terra; e l'uomo è naturalmente filosofo. La
teologia, da parte sua, in quanto elaborazione riflessa e scientifica
dell'intelligenza di questa parola alla luce della fede, sia per alcuni
suoi procedimenti come anche per adempiere a specifici compiti, non può
fare a meno di entrare in rapporto con le filosofie di fatto elaborate nel
corso della storia. Senza voler indicare ai teologi particolari
metodologie, cosa che non compete al Magistero, desidero piuttosto
richiamare alla mente alcuni compiti propri della teologia, nei quali il
ricorso al pensiero filosofico si impone in forza della natura stessa
della Parola rivelata.
65. La teologia si organizza come scienza della fede alla
luce di un duplice principio metodologico: l'auditus fidei e l'intellectus
fidei. Con il primo, essa entra in possesso dei contenuti della
Rivelazione così come sono stati esplicitati progressivamente nella Sacra
Tradizione, nella Sacra Scrittura e nel Magistero vivo della Chiesa.(88)
Con il secondo, la teologia vuole rispondere alle esigenze proprie del
pensiero mediante la riflessione speculativa.
Per quanto concerne la preparazione ad un corretto
auditus fidei, la filosofia reca alla teologia il suo peculiare
contributo nel momento in cui considera la struttura della conoscenza e
della comunicazione personale e, in particolare, le varie forme e funzioni
del linguaggio. Ugualmente importante è l'apporto della filosofia per una
più coerente comprensione della Tradizione ecclesiale, dei pronunciamenti
del Magistero e delle sentenze dei grandi maestri della teologia: questi
infatti si esprimono spesso in concetti e forme di pensiero mutuati da una
determinata tradizione filosofica. In questo caso, è richiesto al teologo
non solo di esporre concetti e termini con i quali la Chiesa riflette ed
elabora il suo insegnamento, ma anche di conoscere a fondo i sistemi
filosofici che hanno eventualmente influito sia sulle nozioni che sulla
terminologia, per giungere a interpretazioni corrette e coerenti.
66. Per quanto riguarda l'intellectus fidei, si deve
considerare, anzitutto, che la Verità divina, « a noi proposta nelle Sacre
Scritture, interpretate rettamente dalla dottrina della Chiesa »,(89) gode
di una propria intelligibilità così logicamente coerente da proporsi come
un autentico sapere. L'intellectus fidei esplicita questa verità,
non solo cogliendo le strutture logiche e concettuali delle proposizioni
nelle quali si articola l'insegnamento della Chiesa, ma anche, e
primariamente, nel far emergere il significato di salvezza che tali
proposizioni contengono per il singolo e per l'umanità. E dall'insieme di
queste proposizioni che il credente arriva a conoscere la storia della
salvezza, la quale culmina nella persona di Gesù Cristo e nel suo mistero
pasquale. A questo mistero egli partecipa con il suo assenso di fede.
La teologia dogmatica, per parte sua, deve essere in
grado di articolare il senso universale del mistero del Dio Uno e Trino e
dell'economia della salvezza sia in maniera narrativa sia, soprattutto, in
forma argomentativa. Lo deve fare, cioè, mediante espressioni concettuali,
formulate in modo critico e universalmente comunicabile. Senza l'apporto
della filosofia, infatti, non si potrebbero illustrare contenuti teologici
quali, ad esempio, il linguaggio su Dio, le relazioni personali
all'interno della Trinità, l'azione creatrice di Dio nel mondo, il
rapporto tra Dio e l'uomo, l'identità di Cristo che è vero Dio e vero
uomo. Le stesse considerazioni valgono per diversi temi della teologia
morale, dove è immediato il ricorso a concetti quali: legge morale,
coscienza, libertà, responsabilità personale, colpa ecc., che ricevono una
loro definizione a livello di etica filosofica.
E necessario, dunque, che la ragione del credente abbia una
conoscenza naturale, vera e coerente delle cose create, del mondo e
dell'uomo, che sono anche oggetto della rivelazione divina; ancora di più,
essa deve essere in grado di articolare tale conoscenza in modo
concettuale e argomentativo. La teologia dogmatica speculativa, pertanto,
presuppone ed implica una filosofia dell'uomo, del mondo e, più
radicalmente, dell'essere, fondata sulla verità oggettiva.
67. La teologia fondamentale, per il suo carattere
proprio di disciplina che ha il compito di rendere ragione della fede (cfr
1 Pt 3, 15), dovrà farsi carico di giustificare ed esplicitare la
relazione tra la fede e la riflessione filosofica. Già il Concilio
Vaticano I, recuperando l'insegnamento paolino (cfr Rm 1, 19-20),
aveva richiamato l'attenzione sul fatto che esistono verità conoscibili
naturalmente, e quindi filosoficamente. La loro conoscenza costituisce un
presupposto necessario per accogliere la rivelazione di Dio. Nello
studiare la Rivelazione e la sua credibilità insieme con il corrispondente
atto di fede, la teologia fondamentale dovrà mostrare come, alla luce
della conoscenza per fede, emergano alcune verità che la ragione già
coglie nel suo autonomo cammino di ricerca. A queste la Rivelazione
conferisce pienezza di senso, orientandole verso la ricchezza del mistero
rivelato, nel quale trovano il loro ultimo fine. Si pensi, ad esempio,
alla conoscenza naturale di Dio, alla possibilità di discernere la
rivelazione divina da altri fenomeni o al riconoscimento della sua
credibilità, all'attitudine del linguaggio umano a parlare in modo
significativo e vero anche di ciò che eccede ogni esperienza umana. Da
tutte queste verità, la mente è condotta a riconoscere l'esistenza di una
via realmente propedeutica alla fede, che può sfociare nell'accoglienza
della rivelazione, senza in nulla venire meno ai propri principi e alla
propria autonomia.(90)
Alla stessa stregua, la teologia fondamentale dovrà
mostrare l'intima compatibilità tra la fede e la sua esigenza essenziale
di esplicitarsi mediante una ragione in grado di dare in piena libertà il
proprio assenso. La fede saprà così « mostrare in pienezza il cammino ad
una ragione in ricerca sincera della verità. In tal modo la fede, dono di
Dio, pur non fondandosi sulla ragione, non può certamente fare a meno di
essa; al tempo stesso, appare la necessità per la ragione di farsi forte
della fede, per scoprire gli orizzonti ai quali da sola non potrebbe
giungere ».(91)
68. La teologia morale ha forse un bisogno ancor maggiore
dell'apporto filosofico. Nella Nuova Alleanza, infatti, la vita umana è
molto meno regolamentata da prescrizioni che nell'Antica. La vita nello
Spirito conduce i credenti ad una libertà e responsabilità che vanno oltre
la Legge stessa. Il Vangelo e gli scritti apostolici, comunque, propongono
sia principi generali di condotta cristiana sia insegnamenti e precetti
puntuali. Per applicarli alle circostanze particolari della vita
individuale e sociale, il cristiano deve essere in grado di impegnare a
fondo la sua coscienza e la forza del suo ragionamento. In altre parole,
ciò significa che la teologia morale deve ricorrere ad una visione
filosofica corretta sia della natura umana e della società che dei
principi generali di una decisione etica. 69. Si può forse obiettare che nella situazione attuale il teologo, piuttosto che alla filosofia, dovrebbe ricorrere all'aiuto di altre forme del sapere umano, quali la storia e soprattutto le scienze, di cui tutti ammirano i recenti straordinari sviluppi. Altri poi, a seguito di una cresciuta sensibilità nei confronti della relazione tra fede e culture, sostengono che la teologia dovrebbe rivolgersi, di preferenza, alle saggezze tradizionali, piuttosto che a una filosofia di origine greca ed eurocentrica. Altri ancora, a partire da una concezione errata del pluralismo delle culture, negano semplicemente il valore universale del patrimonio filosofico accolto dalla Chiesa.
Queste sottolineature, tra l'altro già presenti
nell'insegnamento conciliare,(92) contengono una parte di verità. Il
riferimento alle scienze, utile in molti casi perché permette una
conoscenza più completa dell'oggetto di studio, non deve tuttavia far
dimenticare la necessaria mediazione di una riflessione tipicamente
filosofica, critica e tesa all'universale, richiesta peraltro da uno
scambio fecondo tra le culture. Ciò che mi preme sottolineare è il dovere
di non fermarsi al solo caso singolo e concreto, tralasciando il compito
primario che è quello di manifestare il carattere universale del contenuto
di fede. Non si deve, inoltre, dimenticare che l'apporto peculiare del
pensiero filosofico permette di discernere, sia nelle diverse concezioni
di vita che nelle culture, « non che cosa gli uomini pensino, ma quale sia
la verità oggettiva ».(93) Non le varie opinioni umane, ma solamente la
verità può essere di aiuto alla teologia. 70. Il tema, poi, del rapporto con le culture merita una riflessione specifica, anche se necessariamente non esaustiva, per le implicanze che ne derivano sia sul versante filosofico che su quello teologico. Il processo di incontro e confronto con le culture è un'esperienza che la Chiesa ha vissuto fin dagli inizi della predicazione del Vangelo. Il comando di Cristo ai discepoli di andare in ogni luogo, « fino agli estremi confini della terra » (At 1, 8), per trasmettere la verità da Lui rivelata, ha posto la comunità cristiana nella condizione di verificare ben presto l'universalità dell'annuncio e gli ostacoli derivanti dalla diversità delle culture. Un brano della lettera di san Paolo ai cristiani di Efeso offre un valido aiuto per comprendere come la comunità primitiva abbia affrontato questo problema. Scrive l'Apostolo: « Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani siete diventati i vicini grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo » (2, 13-14).
Alla luce di questo testo la nostra riflessione s'allarga
alla trasformazione che si è venuta a creare nei Gentili una volta
arrivati alla fede. Davanti alla ricchezza della salvezza operata da
Cristo, cadono le barriere che separano le diverse culture. La promessa di
Dio in Cristo diventa, adesso, un'offerta universale: non più limitata
alla particolarità di un popolo, della sua lingua e dei suoi costumi, ma
estesa a tutti come patrimonio a cui ciascuno può attingere liberamente.
Da diversi luoghi e tradizioni tutti sono chiamati in Cristo a partecipare
all'unità della famiglia dei figli di Dio. E Cristo che permette ai due
popoli di diventare « uno ». Coloro che erano « i lontani » diventano « i
vicini » grazie alla novità operata dal mistero pasquale. Gesù abbatte i
muri di divisione e realizza l'unificazione in modo originale e supremo
mediante la partecipazione al suo mistero. Questa unità è talmente
profonda che la Chiesa può dire con san Paolo: « Non siete più stranieri
né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio » (Ef
2, 19).
In una così semplice annotazione è descritta una grande
verità: l'incontro della fede con le diverse culture ha dato vita di fatto
a una realtà nuova. Le culture, quando sono profondamente radicate
nell'umano, portano in sé la testimonianza dell'apertura tipica dell'uomo
all'universale e alla trascendenza. Esse presentano, pertanto, approcci
diversi alla verità, che si rivelano di indubbia utilità per l'uomo, a cui
prospettano valori capaci di rendere sempre più umana la sua
esistenza.(94) In quanto poi le culture si richiamano ai valori delle
tradizioni antiche, portano con sé — anche se in maniera implicita, ma non
per questo meno reale — il riferimento al manifestarsi di Dio nella
natura, come si è visto precedentemente parlando dei testi sapienziali e
dell'insegnamento di san Paolo.
71. Essendo in stretto rapporto con gli uomini e con la
loro storia, le culture condividono le stesse dinamiche secondo cui il
tempo umano si esprime. Si registrano di conseguenza trasformazioni e
progressi dovuti agli incontri che gli uomini sviluppano e alle
comunicazioni che reciprocamente si fanno dei loro modelli di vita. Le
culture traggono alimento dalla comunicazione di valori, e la loro
vitalità e sussistenza è data dalla capacità di rimanere aperte
all'accoglienza del nuovo. Qual è la spiegazione di queste dinamiche? Ogni
uomo è inserito in una cultura, da essa dipende, su di essa influisce.
Egli è insieme figlio e padre della cultura in cui è immerso. In ogni
espressione della sua vita, egli porta con sé qualcosa che lo
contraddistingue in mezzo al creato: la sua apertura costante al mistero
ed il suo inesauribile desiderio di conoscenza. Ogni cultura, di
conseguenza, porta impressa in sé e lascia trasparire la tensione verso un
compimento. Si può dire, quindi, che la cultura ha in sé la possibilità di
accogliere la rivelazione divina.
Il modo in cui i cristiani vivono la fede è anch'esso
permeato dalla cultura dell'ambiente circostante e contribuisce, a sua
volta, a modellarne progressivamente le caratteristiche. Ad ogni cultura i
cristiani recano la verità immutabile di Dio, da Lui rivelata nella storia
e nella cultura di un popolo. Nel corso dei secoli continua così a
riprodursi l'evento di cui furono testimoni i pellegrini presenti a
Gerusalemme nel giorno di Pentecoste. Ascoltando gli Apostoli, si
domandavano: « Costoro che parlano non sono forse tutti Galilei? E com'è
che li sentiamo ciascuno parlare la nostra lingua nativa? Siamo Parti,
Medi, Elamiti e abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della Cappadocia,
del Ponto e dell'Asia, della Frigia e della Panfilia, dell'Egitto e delle
parti della Libia vicino a Cirene, stranieri di Roma, Ebrei e proseliti,
Cretesi e Arabi e li udiamo annunziare nelle nostre lingue le grandi opere
di Dio » (At 2, 7-11). L'annuncio del Vangelo nelle diverse
culture, mentre esige dai singoli destinatari l'adesione della fede, non
impedisce loro di conservare una propria identità culturale. Ciò non crea
divisione alcuna, perché il popolo dei battezzati si distingue per una
universalità che sa accogliere ogni cultura, favorendo il progresso di ciò
che in essa vi è di implicito verso la sua piena esplicazione nella
verità.
Conseguenza di ciò è che una cultura non può mai diventare
criterio di giudizio ed ancor meno criterio ultimo di verità nei confronti
della rivelazione di Dio. Il Vangelo non è contrario a questa od a quella
cultura come se, incontrandosi con essa, volesse privarla di ciò che le
appartiene e la obbligasse ad assumere forme estrinseche che non le sono
conformi. Al contrario, l'annuncio che il credente porta nel mondo e nelle
culture è forma reale di liberazione da ogni disordine introdotto dal
peccato e, nello stesso tempo, è chiamata alla verità piena. In questo
incontro, le culture non solo non vengono private di nulla, ma sono anzi
stimolate ad aprirsi al nuovo della verità evangelica per trarne incentivo
verso ulteriori sviluppi.
72. Il fatto che la missione evangelizzatrice abbia
incontrato sulla sua strada per prima la filosofia greca, non costituisce
indicazione in alcun modo preclusiva per altri approcci. Oggi, via via che
il Vangelo entra in contatto con aree culturali rimaste finora al di fuori
dell'ambito di irradiazione del cristianesimo, nuovi compiti si aprono
all'inculturazione. Problemi analoghi a quelli che la Chiesa dovette
affrontare nei primi secoli si pongono alla nostra generazione.
Il mio pensiero va spontaneamente alle terre d'Oriente,
così ricche di tradizioni religiose e filosofiche molto antiche. Tra esse,
l'India occupa un posto particolare. Un grande slancio spirituale porta il
pensiero indiano alla ricerca di un'esperienza che, liberando lo spirito
dai condizionamenti del tempo e dello spazio, abbia valore di assoluto.
Nel dinamismo di questa ricerca di liberazione si situano grandi sistemi
metafisici.
Spetta ai cristiani di oggi, innanzitutto a quelli
dell'India, il compito di estrarre da questo ricco patrimonio gli elementi
compatibili con la loro fede così che ne derivi un arricchimento del
pensiero cristiano. Per questa opera di discernimento, che trova la sua
ispirazione nella Dichiarazione conciliare Nostra aetate, essi
terranno conto di un certo numero di criteri. Il primo è quello
dell'universalità dello spirito umano, le cui esigenze fondamentali si
ritrovano identiche nelle culture più diverse. Il secondo, derivante dal
primo, consiste in questo: quando la Chiesa entra in contatto con grandi
culture precedentemente non ancora raggiunte, non può lasciarsi alle
spalle ciò che ha acquisito dall'inculturazione nel pensiero greco-latino.
Rifiutare una simile eredità sarebbe andare contro il disegno
provvidenziale di Dio, che conduce la sua Chiesa lungo le strade del tempo
e della storia. Questo criterio, del resto, vale per la Chiesa di ogni
epoca, anche per quella di domani, che si sentirà arricchita dalle
acquisizioni realizzate nell'odierno approccio con le culture orientali e
troverà in questa eredità nuove indicazioni per entrare fruttuosamente in
dialogo con quelle culture che l'umanità saprà far fiorire nel suo cammino
incontro al futuro. In terzo luogo, ci si guarderà dal confondere la
legittima rivendicazione della specificità e dell'originalità del pensiero
indiano con l'idea che una tradizione culturale debba rinchiudersi nella
sua differenza ed affermarsi nella sua opposizione alle altre tradizioni,
ciò che sarebbe contrario alla natura stessa dello spirito umano.
Quanto è qui detto per l'India vale anche per l'eredità
delle grandi culture della Cina, del Giappone e degli altri Paesi
dell'Asia, come pure delle ricchezze delle culture tradizionali
dell'Africa, trasmesse soprattutto per via orale.
73. Alla luce di queste considerazioni, il rapporto che
deve opportunamente instaurarsi tra la teologia e la filosofia sarà
all'insegna della circolarità. Per la teologia, punto di partenza e fonte
originaria dovrà essere sempre la parola di Dio rivelata nella storia,
mentre obiettivo finale non potrà che essere l'intelligenza di essa via
via approfondita nel susseguirsi delle generazioni. Poiché, d'altra parte,
la parola di Dio è Verità (cfr Gv 17, 17), alla sua migliore
comprensione non può non giovare la ricerca umana della verità, ossia il
filosofare, sviluppato nel rispetto delle leggi che gli sono proprie. Non
si tratta semplicemente di utilizzare, nel discorso teologico, l'uno o
l'altro concetto o frammento di un impianto filosofico; decisivo è che la
ragione del credente eserciti le sue capacità di riflessione nella ricerca
del vero all'interno di un movimento che, partendo dalla parola di Dio, si
sforza di raggiungere una migliore comprensione di essa. E chiaro,
peraltro, che, muovendosi entro questi due poli — parola di Dio e migliore
sua conoscenza —, la ragione è come avvertita, e in qualche modo guidata,
ad evitare sentieri che la porterebbero fuori della Verità rivelata e, in
definitiva, fuori della verità pura e semplice; essa viene anzi stimolata
ad esplorare vie che da sola non avrebbe nemmeno sospettato di poter
percorrere. Da questo rapporto di circolarità con la parola di Dio la
filosofia esce arricchita, perché la ragione scopre nuovi e insospettati
orizzonti.
74. La conferma della fecondità di un simile rapporto è
offerta dalla vicenda personale di grandi teologi cristiani che si
segnalarono anche come grandi filosofi, lasciando scritti di così alto
valore speculativo, da giustificarne l'affiancamento ai maestri della
filosofia antica. Ciò vale sia per i Padri della Chiesa, tra i quali
bisogna citare almeno i nomi di san Gregorio Nazianzeno e sant'Agostino,
sia per i Dottori medievali, tra i quali emerge la grande triade di
sant'Anselmo, san Bonaventura e san Tommaso d'Aquino. Il fecondo rapporto
tra filosofia e parola di Dio si manifesta anche nella ricerca coraggiosa
condotta da pensatori più recenti, tra i quali mi piace menzionare, per
l'ambito occidentale, personalità come John Henry Newman, Antonio Rosmini,
Jacques Maritain, Étienne Gilson, Edith Stein e, per quello orientale,
studiosi della statura di Vladimir S. Solov'ev, Pavel A. Florenskij, Petr
J. Caadaev, Vladimir N. Lossky. Ovviamente, nel fare riferimento a questi
autori, accanto ai quali altri nomi potrebbero essere citati, non intendo
avallare ogni aspetto del loro pensiero, ma solo proporre esempi
significativi di un cammino di ricerca filosofica che ha tratto
considerevoli vantaggi dal confronto con i dati della fede. Una cosa è
certa: l'attenzione all'itinerario spirituale di questi maestri non potrà
che giovare al progresso nella ricerca della verità e nell'utilizzo a
servizio dell'uomo dei risultati conseguiti. C'è da sperare che questa
grande tradizione filosofico-teologica trovi oggi e nel futuro i suoi
continuatori e i suoi cultori per il bene della Chiesa e dell'umanità.
Differenti stati della filosofia
75. Come risulta dalla storia dei rapporti tra fede e
filosofia, sopra brevemente accennata, si possono distinguere diversi
stati della filosofia rispetto alla fede cristiana. Un primo è quello
della filosofia totalmente indipendente dalla Rivelazione evangelica:
è lo stato della filosofia quale si è storicamente concretizzata nelle
epoche che hanno preceduto la nascita del Redentore e, dopo di essa, nelle
regioni non ancora raggiunte dal Vangelo. In questa situazione, la
filosofia manifesta la legittima aspirazione ad essere un'impresa
autonoma, che procede cioè secondo le leggi sue proprie, avvalendosi
delle sole forze della ragione. Pur nella consapevolezza dei gravi limiti
dovuti alla congenita debolezza dell'umana ragione, questa aspirazione va
sostenuta e rafforzata. L'impegno filosofico, infatti, quale ricerca della
verità nell'ambito naturale, rimane almeno implicitamente aperto al
soprannaturale.
Di più: anche quando è lo stesso discorso teologico ad
avvalersi di concetti e argomenti filosofici, l'esigenza di corretta
autonomia del pensiero va rispettata. L'argomentazione sviluppata secondo
rigorosi criteri razionali, infatti, è garanzia del raggiungimento di
risultati universalmente validi. Si verifica anche qui il principio
secondo cui la grazia non distrugge, ma perfeziona la natura: l'assenso di
fede, che impegna l'intelletto e la volontà, non distrugge ma perfeziona
il libero arbitrio di ogni credente che accoglie in sé il dato rivelato.
Da questa corretta istanza si allontana in modo netto la
teoria della cosiddetta filosofia « separata », perseguita da parecchi
filosofi moderni. Più che l'affermazione della giusta autonomia del
filosofare, essa costituisce la rivendicazione di una autosufficienza del
pensiero che si rivela chiaramente illegittima: rifiutare gli apporti di
verità derivanti dalla rivelazione divina significa infatti precludersi
l'accesso a una più profonda conoscenza della verità, a danno della stessa
filosofia.
76. Un secondo stato della filosofia è quello che molti
designano con l'espressione filosofia cristiana. La denominazione è
di per sé legittima, ma non deve essere equivocata: non si intende con
essa alludere ad una filosofia ufficiale della Chiesa, giacché la fede non
è come tale una filosofia. Con questo appellativo si vuole piuttosto
indicare un filosofare cristiano, una speculazione filosofica concepita in
unione vitale con la fede. Non ci si riferisce quindi semplicemente ad una
filosofia elaborata da filosofi cristiani, i quali nella loro ricerca non
hanno voluto contraddire la fede. Parlando di filosofia cristiana si
intendono abbracciare tutti quegli importanti sviluppi del pensiero
filosofico che non si sarebbero realizzati senza l'apporto, diretto o
indiretto, della fede cristiana.
Due sono, pertanto, gli aspetti della filosofia cristiana:
uno soggettivo, che consiste nella purificazione della ragione da parte
della fede. Come virtù teologale, essa libera la ragione dalla
presunzione, tipica tentazione a cui i filosofi sono facilmente soggetti.
Già san Paolo e i Padri della Chiesa e, più vicino a noi, filosofi come
Pascal e Kierkegaard l'hanno stigmatizzata. Con l'umiltà, il filosofo
acquista anche il coraggio di affrontare alcune questioni che
difficilmente potrebbe risolvere senza prendere in considerazione i dati
ricevuti dalla Rivelazione. Si pensi, ad esempio, ai problemi del male e
della sofferenza, all'identità personale di Dio e alla domanda sul senso
della vita o, più direttamente, alla domanda metafisica radicale: « Perché
vi è qualcosa? ».
Vi è poi l'aspetto oggettivo, riguardante i contenuti: la
Rivelazione propone chiaramente alcune verità che, pur non essendo
naturalmente inaccessibili alla ragione, forse non sarebbero mai state da
essa scoperte, se fosse stata abbandonata a sé stessa. In questo orizzonte
si situano questioni come il concetto di un Dio personale, libero e
creatore, che tanto rilievo ha avuto per lo sviluppo del pensiero
filosofico e, in particolare, per la filosofia dell'essere. A quest'ambito
appartiene pure la realtà del peccato, così com'essa appare alla luce
della fede, la quale aiuta a impostare filosoficamente in modo adeguato il
problema del male. Anche la concezione della persona come essere
spirituale è una peculiare originalità della fede: l'annuncio cristiano
della dignità, dell'uguaglianza e della libertà degli uomini ha certamente
influito sulla riflessione filosofica che i moderni hanno condotto. Più
vicino a noi, si può menzionare la scoperta dell'importanza che ha anche
per la filosofia l'evento storico, centro della Rivelazione cristiana. Non
a caso, esso è diventato perno di una filosofia della storia, che si
presenta come un nuovo capitolo della ricerca umana della verità.
Tra gli elementi oggettivi della filosofia cristiana
rientra anche la necessità di esplorare la razionalità di alcune verità
espresse dalla Sacra Scrittura, come la possibilità di una vocazione
soprannaturale dell'uomo ed anche lo stesso peccato originale. Sono
compiti che provocano la ragione a riconoscere che vi è del vero e del
razionale ben oltre gli stretti confini entro i quali essa sarebbe portata
a rinchiudersi. Queste tematiche allargano di fatto l'ambito del
razionale.
Speculando su questi contenuti, i filosofi non sono
diventati teologi, in quanto non hanno cercato di comprendere e di
illustrare le verità della fede a partire dalla Rivelazione. Hanno
continuato a lavorare sul loro proprio terreno e con la propria
metodologia puramente razionale, ma allargando la loro indagine a nuovi
ambiti del vero. Si può dire che, senza questo influsso stimolante della
parola di Dio, buona parte della filosofia moderna e contemporanea non
esisterebbe. Il dato conserva tutta la sua rilevanza, pur di fronte alla
deludente costatazione dell'abbandono dell'ortodossia cristiana da parte
di non pochi pensatori di questi ultimi secoli.
77. Un altro stato significativo della filosofia si ha
quando è la stessa teologia a chiamare in causa la filosofia. In
realtà, la teologia ha sempre avuto e continua ad avere bisogno
dell'apporto filosofico. Essendo opera della ragione critica alla luce
della fede, il lavoro teologico presuppone ed esige in tutto il suo
indagare una ragione concettualmente e argomentativamente educata e
formata. La teologia, inoltre, ha bisogno della filosofia come
interlocutrice per verificare l'intelligibilità e la verità universale dei
suoi asserti. Non a caso furono filosofie non cristiane ad essere assunte
dai Padri della Chiesa e dai teologi medievali a tale funzione
esplicativa. Questo fatto storico indica il valore dell'autonomia
che la filosofia conserva anche in questo suo terzo stato, ma insieme
mostra le trasformazioni necessarie e profonde che essa deve subire.
E proprio nel senso di un apporto indispensabile e nobile
che la filosofia fu chiamata fin dall'età patristica ancilla theologiae.
Il titolo non fu applicato per indicare una servile sottomissione o un
ruolo puramente funzionale della filosofia nei confronti della teologia.
Fu utilizzato piuttosto nel senso in cui Aristotele parlava delle scienze
esperienziali quali « ancelle » della « filosofia prima ». L'espressione,
oggi difficilmente utilizzabile in forza dei principi di autonomia a cui
si è fatto cenno, è servita nel corso della storia per indicare la
necessità del rapporto tra le due scienze e l'impossibilità di una loro
separazione.
Se il teologo si rifiutasse di avvalersi della filosofia,
rischierebbe di far filosofia a sua insaputa e di rinchiudersi in
strutture di pensiero poco adatte all'intelligenza della fede. Il
filosofo, da parte sua, se escludesse ogni contatto con la teologia, si
sentirebbe in dovere di impadronirsi per conto proprio dei contenuti della
fede cristiana, come è avvenuto con alcuni filosofi moderni. In un caso
come nell'altro, si profilerebbe il pericolo della distruzione dei
principi basilari di autonomia che ogni scienza giustamente vuole
garantiti.
Lo stato della filosofia qui considerato, per le implicanze
che comporta nell'intelligenza della Rivelazione, si colloca insieme alla
teologia più direttamente sotto l'autorità del Magistero e del suo
discernimento, come ho precedentemente esposto. Dalle verità di fede,
infatti, derivano determinate esigenze che la filosofia deve rispettare
nel momento in cui entra in rapporto con la teologia.
78. Alla luce di queste riflessioni, ben si comprende
perché il Magistero abbia ripetutamente lodato i meriti del pensiero di
san Tommaso e lo abbia posto come guida e modello degli studi teologici.
Ciò che interessava non era prendere posizione su questioni propriamente
filosofiche, né imporre l'adesione a tesi particolari. L'intento del
Magistero era, e continua ad essere, quello di mostrare come san Tommaso
sia un autentico modello per quanti ricercano la verità. Nella sua
riflessione, infatti, l'esigenza della ragione e la forza della fede hanno
trovato la sintesi più alta che il pensiero abbia mai raggiunto, in quanto
egli ha saputo difendere la radicale novità portata dalla Rivelazione
senza mai umiliare il cammino proprio della ragione.
79. Esplicitando ulteriormente i contenuti del Magistero
precedente, intendo in questa ultima parte indicare alcune esigenze che la
teologia — anzi, prima ancora la parola di Dio — pone oggi al pensiero
filosofico e alle filosofie odierne. Come già ho rilevato, il filosofo
deve procedere secondo le proprie regole e fondarsi sui propri principi;
la verità, tuttavia, non può essere che una sola. La Rivelazione, con i
suoi contenuti, non potrà mai umiliare la ragione nelle sue scoperte e
nella sua legittima autonomia; per parte sua, però, la ragione non dovrà
mai perdere la sua capacità d'interrogarsi e di interrogare, nella
consapevolezza di non potersi ergere a valore assoluto ed esclusivo. La
verità rivelata, offrendo pienezza di luce sull'essere a partire dallo
splendore che proviene dallo stesso Essere sussistente, illuminerà il
cammino della riflessione filosofica. La Rivelazione cristiana, insomma,
diventa il vero punto di aggancio e di confronto tra il pensare filosofico
e quello teologico nel loro reciproco rapportarsi. E auspicabile, quindi,
che teologi e filosofi si lascino guidare dall'unica autorità della verità
così che venga elaborata una filosofia in consonanza con la parola di Dio.
Questa filosofia sarà il terreno d'incontro tra le culture e la fede
cristiana, il luogo d'intesa tra credenti e non credenti. Sarà di aiuto
perché i credenti si convincano più da vicino che la profondità e
genuinità della fede è favorita quando è unita al pensiero e ad esso non
rinuncia. Ancora una volta, è la lezione dei Padri che ci guida in questa
convinzione: « Lo stesso credere null'altro è che pensare assentendo
[...]. Chiunque crede pensa, e credendo pensa e pensando crede [...]. La
fede se non è pensata è nulla ».(95) Ed ancora: « Se si toglie l'assenso,
si toglie la fede, perché senza assenso non si crede affatto ».(96)
CAPITOLO VII
ESIGENZE E COMPITI ATTUALI
Le esigenze irrinunciabili della parola di Dio
80. La Sacra Scrittura contiene, in maniera sia esplicita
che implicita, una serie di elementi che consentono di raggiungere una
visione dell'uomo e del mondo di notevole spessore filosofico. I cristiani
hanno preso progressivamente coscienza della ricchezza racchiusa in quelle
pagine sacre. Da esse risulta che la realtà di cui facciamo esperienza non
è l'assoluto: non è increata, né si è autogenerata. Dio soltanto è
l'Assoluto. Dalle pagine della Bibbia emerge inoltre una visione dell'uomo
come imago Dei, che contiene precise indicazioni circa il suo
essere, la sua libertà e l'immortalità del suo spirito. Non essendo il
mondo creato autosufficiente, ogni illusione di autonomia, che ignori la
essenziale dipendenza da Dio di ogni creatura — uomo compreso — porta a
drammi che distruggono la ricerca razionale dell'armonia e del senso
dell'esistenza umana.
Anche il problema del male morale — la forma di male più
tragica — è affrontato nella Bibbia, la quale ci dice che esso non è
riconducibile ad una qualche deficienza dovuta alla materia, ma è una
ferita che proviene dall'esprimersi disordinato della libertà umana. La
parola di Dio, infine, prospetta il problema del senso dell'esistenza e
rivela la sua risposta indirizzando l'uomo a Gesù Cristo, il Verbo di Dio
incarnato, che realizza in pienezza l'esistenza umana. Altri aspetti si
potrebbero esplicitare dalla lettura del testo sacro; ciò che emerge,
comunque, è il rifiuto di ogni forma di relativismo, di materialismo, di
panteismo.
La convinzione fondamentale di questa « filosofia »
racchiusa nella Bibbia è che la vita umana e il mondo hanno un senso e
sono diretti verso il loro compimento, che si attua in Gesù Cristo. Il
mistero dell'Incarnazione resterà sempre il centro a cui riferirsi per
poter comprendere l'enigma dell'esistenza umana, del mondo creato e di Dio
stesso. In questo mistero le sfide per la filosofia si fanno estreme,
perché la ragione è chiamata a far sua una logica che abbatte le barriere
in cui essa stessa rischia di rinchiudersi. Solo qui, però, il senso
dell'esistenza raggiunge il suo culmine. Si rende intelligibile, infatti,
l'intima essenza di Dio e dell'uomo: nel mistero del Verbo incarnato,
natura divina e natura umana, con la rispettiva autonomia, vengono
salvaguardate e insieme si manifesta il vincolo unico che le pone in
reciproco rapporto senza confusione
81. E da osservare che uno dei dati più rilevanti della
nostra condizione attuale consiste nella « crisi del senso ». I punti di
vista, spesso di carattere scientifico, sulla vita e sul mondo si sono
talmente moltiplicati che, di fatto, assistiamo all'affermarsi del
fenomeno della frammentarietà del sapere. Proprio questo rende difficile e
spesso vana la ricerca di un senso. Anzi — cosa anche più drammatica — in
questo groviglio di dati e di fatti tra cui si vive e che sembrano
costituire la trama stessa dell'esistenza, non pochi si chiedono se abbia
ancora senso porsi una domanda sul senso. La pluralità delle teorie che si
contendono la risposta, o i diversi modi di vedere e di interpretare il
mondo e la vita dell'uomo, non fanno che acuire questo dubbio radicale,
che facilmente sfocia in uno stato di scetticismo e di indifferenza o
nelle diverse espressioni del nichilismo.
La conseguenza di ciò è che spesso lo spirito umano è
occupato da una forma di pensiero ambiguo, che lo porta a rinchiudersi
ancora di più in se stesso, entro i limiti della propria immanenza, senza
alcun riferimento al trascendente. Una filosofia priva della domanda sul
senso dell'esistenza incorrerebbe nel grave pericolo di degradare la
ragione a funzioni soltanto strumentali, senza alcuna autentica passione
per la ricerca della verità.
Per essere in consonanza con la parola di Dio è necessario,
anzitutto, che la filosofia ritrovi la sua dimensione sapienziale
di ricerca del senso ultimo e globale della vita. Questa prima esigenza, a
ben guardare, costituisce per la filosofia uno stimolo utilissimo ad
adeguarsi alla sua stessa natura. Ciò facendo, infatti, essa non sarà
soltanto l'istanza critica decisiva, che indica alle varie parti del
sapere scientifico la loro fondatezza e il loro limite, ma si porrà anche
come istanza ultima di unificazione del sapere e dell'agire umano,
inducendoli a convergere verso uno scopo ed un senso definitivi. Questa
dimensione sapienziale è oggi tanto più indispensabile in quanto l'immensa
crescita del potere tecnico dell'umanità richiede una rinnovata e acuta
coscienza dei valori ultimi. Se questi mezzi tecnici dovessero mancare
dell'ordinamento ad un fine non meramente utilitaristico, potrebbero
presto rivelarsi disumani, ed anzi trasformarsi in potenziali distruttori
del genere umano.(98)
La parola di Dio rivela il fine ultimo dell'uomo e dà un
senso globale al suo agire nel mondo. E per questo che essa invita la
filosofia ad impegnarsi nella ricerca del fondamento naturale di questo
senso, che è la religiosità costitutiva di ogni persona. Una filosofia che
volesse negare la possibilità di un senso ultimo e globale sarebbe non
soltanto inadeguata, ma erronea.
82. Questo ruolo sapienziale non potrebbe, peraltro, essere
svolto da una filosofia che non fosse essa stessa un sapere autentico e
vero, cioè rivolto non soltanto ad aspetti particolari e relativi — siano
essi funzionali, formali o utili — del reale, ma alla sua verità totale e
definitiva, ossia all'essere stesso dell'oggetto di conoscenza. Ecco,
dunque, una seconda esigenza: appurare la capacità dell'uomo di giungere
alla conoscenza della verità; una conoscenza, peraltro, che attinga
la verità oggettiva, mediante quella adaequatio rei et intellectus
a cui si riferiscono i Dottori della Scolastica.(99) Questa esigenza,
propria della fede, è stata esplicitamente riaffermata dal Concilio
Vaticano II: « L'intelligenza, infatti, non si restringe all'ambito dei
fenomeni soltanto, ma può conquistare la realtà intelligibile con vera
certezza, anche se, per conseguenza del peccato, si trova in parte
oscurata e debilitata ». (100)
Una filosofia radicalmente fenomenista o relativista
risulterebbe inadeguata a recare questo aiuto nell'approfondimento della
ricchezza contenuta nella parola di Dio. La Sacra Scrittura, infatti,
presuppone sempre che l'uomo, anche se colpevole di doppiezza e di
menzogna, sia capace di conoscere e di afferrare la verità limpida e
semplice. Nei Libri Sacri, e in particolare nel Nuovo Testamento, si
trovano testi e affermazioni di portata propriamente ontologica. Gli
autori ispirati, infatti, hanno inteso formulare affermazioni vere, tali
cioè da esprimere la realtà oggettiva. Non si può dire che la tradizione
cattolica abbia commesso un errore quando ha compreso alcuni testi di san
Giovanni e di san Paolo come affermazioni sull'essere stesso di Cristo. La
teologia, quando si applica a comprendere e spiegare queste affermazioni,
ha bisogno pertanto dell'apporto di una filosofia che non rinneghi la
possibilità di una conoscenza oggettivamente vera, per quanto sempre
perfezionabile. Quanto detto vale anche per i giudizi della coscienza
morale, che la Sacra Scrittura suppone poter essere oggettivamente veri.
(101)
83. Le due suddette esigenze ne comportano una terza: è
necessaria una filosofia di portata autenticamente metafisica,
capace cioè di trascendere i dati empirici per giungere, nella sua ricerca
della verità, a qualcosa di assoluto, di ultimo, di fondante. E
un'esigenza, questa, implicita sia nella conoscenza a carattere
sapienziale che in quella a carattere analitico; in particolare, è
un'esigenza propria della conoscenza del bene morale, il cui fondamento
ultimo è il Bene sommo, Dio stesso. Non intendo qui parlare della
metafisica come di una scuola specifica o di una particolare corrente
storica. Desidero solo affermare che la realtà e la verità trascendono il
fattuale e l'empirico, e voglio rivendicare la capacità che l'uomo
possiede di conoscere questa dimensione trascendente e metafisica in modo
vero e certo, benché imperfetto ed analogico. In questo senso, la
metafisica non va vista in alternativa all'antropologia, giacché è proprio
la metafisica che consente di dare fondamento al concetto di dignità della
persona in forza della sua condizione spirituale. La persona, in
particolare, costituisce un ambito privilegiato per l'incontro con
l'essere e, dunque, con la riflessione metafisica.
Ovunque l'uomo scopre la presenza di un richiamo
all'assoluto e al trascendente, lì gli si apre uno spiraglio verso la
dimensione metafisica del reale: nella verità, nella bellezza, nei valori
morali, nella persona altrui, nell'essere stesso, in Dio. Una grande sfida
che ci aspetta al termine di questo millennio è quella di saper compiere
il passaggio, tanto necessario quanto urgente, dal fenomeno al
fondamento. Non è possibile fermarsi alla sola esperienza; anche
quando questa esprime e rende manifesta l'interiorità dell'uomo e la sua
spiritualità, è necessario che la riflessione speculativa raggiunga la
sostanza spirituale e il fondamento che la sorregge. Un pensiero
filosofico che rifiutasse ogni apertura metafisica, pertanto, sarebbe
radicalmente inadeguato a svolgere una funzione mediatrice nella
comprensione della Rivelazione.
La parola di Dio fa continui riferimenti a ciò che
oltrepassa l'esperienza e persino il pensiero dell'uomo; ma questo «
mistero » non potrebbe essere rivelato, né la teologia potrebbe renderlo
in qualche modo intelligibile, (102) se la conoscenza umana fosse
rigorosamente limitata al mondo dell'esperienza sensibile. La metafisica,
pertanto, si pone come mediazione privilegiata nella ricerca teologica.
Una teologia priva dell'orizzonte metafisico non riuscirebbe ad approdare
oltre l'analisi dell'esperienza religiosa e non permetterebbe all'intellectus
fidei di esprimere con coerenza il valore universale e trascendente
della verità rivelata.
Se tanto insisto sulla componente metafisica, è perché sono
convinto che questa è la strada obbligata per superare la situazione di
crisi che pervade oggi grandi settori della filosofia e per correggere
così alcuni comportamenti erronei diffusi nella nostra società.
84. L'importanza dell'istanza metafisica diventa ancora più
evidente se si considera lo sviluppo che oggi hanno le scienze
ermeneutiche e le diverse analisi del linguaggio. I risultati a cui questi
studi giungono possono essere molto utili per l'intelligenza della fede,
in quanto rendono manifesti la struttura del nostro pensare e parlare e il
senso racchiuso nel linguaggio. Vi sono cultori di tali scienze, però, che
nelle loro indagini tendono ad arrestarsi al come si comprende e come si
dice la realtà, prescindendo dal verificare le possibilità della ragione
di scoprirne l'essenza. Come non vedere in tale atteggiamento una conferma
della crisi di fiducia, che il nostro tempo sta attraversando, circa le
capacità della ragione? Quando poi, in forza di assunti aprioristici,
queste tesi tendono ad offuscare i contenuti della fede o a negarne la
validità universale, allora non solo umiliano la ragione, ma si pongono da
se stesse fuori gioco. La fede, infatti, presuppone con chiarezza che il
linguaggio umano sia capace di esprimere in modo universale — anche se in
termini analogici, ma non per questo meno significativi — la realtà divina
e trascendente. (103) Se non fosse così, la parola di Dio, che è sempre
parola divina in linguaggio umano, non sarebbe capace di esprimere nulla
su Dio. L'interpretazione di questa Parola non può rimandarci soltanto da
interpretazione a interpretazione, senza mai portarci ad attingere
un'affermazione semplicemente vera; altrimenti non vi sarebbe rivelazione
di Dio, ma soltanto l'espressione di concezioni umane su di Lui e su ciò
che presumibilmente Egli pensa di noi.
85. So bene che queste esigenze, poste alla filosofia dalla
parola di Dio, possono sembrare ardue a molti che vivono l'odierna
situazione della ricerca filosofica. Proprio per questo, facendo mio ciò
che i Sommi Pontefici da qualche generazione non cessano di insegnare e
che lo stesso Concilio Vaticano II ha ribadito, voglio esprimere con forza
la convinzione che l'uomo è capace di giungere a una visione unitaria e
organica del sapere. Questo è uno dei compiti di cui il pensiero cristiano
dovrà farsi carico nel corso del prossimo millennio dell'era cristiana. La
settorialità del sapere, in quanto comporta un approccio parziale alla
verità con la conseguente frammentazione del senso, impedisce l'unità
interiore dell'uomo contemporaneo. Come potrebbe la Chiesa non
preoccuparsene? Questo compito sapienziale deriva ai suoi Pastori
direttamente dal Vangelo ed essi non possono sottrarsi al dovere di
perseguirlo.
Ritengo che quanti oggi intendono rispondere come filosofi
alle esigenze che la parola di Dio pone al pensiero umano dovrebbero
elaborare il loro discorso sulla base di questi postulati e in coerente
continuità con quella grande tradizione che, iniziando con gli antichi,
passa per i Padri della Chiesa e i maestri della scolastica, per giungere
fino a comprendere le acquisizioni fondamentali del pensiero moderno e
contemporaneo. Se saprà attingere a questa tradizione ed ispirarsi ad
essa, il filosofo non mancherà di mostrarsi fedele all'esigenza di
autonomia del pensare filosofico.
In questo senso, è quanto mai significativo che, nel
contesto attuale, alcuni filosofi si facciano promotori della riscoperta
del ruolo determinante della tradizione per una corretta forma di
conoscenza. Il richiamo alla tradizione, infatti, non è un mero ricordo
del passato; esso costituisce piuttosto il riconoscimento di un patrimonio
culturale che appartiene a tutta l'umanità. Si potrebbe, anzi, dire che
siamo noi ad appartenere alla tradizione e non possiamo disporre di essa
come vogliamo. Proprio questo affondare le radici nella tradizione è ciò
che permette a noi, oggi, di poter esprimere un pensiero originale, nuovo
e progettuale per il futuro. Questo stesso richiamo vale anche
maggiormente per la teologia. Non solo perché essa possiede la Tradizione
viva della Chiesa come fonte originaria, (104) ma anche perché, in forza
di questo, deve essere capace di recuperare sia la profonda tradizione
teologica che ha segnato le epoche precedenti, sia la tradizione perenne
di quella filosofia che ha saputo superare per la sua reale saggezza i
confini dello spazio e del tempo.
86. L'insistenza sulla necessità di uno stretto rapporto di
continuità della riflessione filosofica contemporanea con quella elaborata
nella tradizione cristiana intende prevenire il pericolo che si nasconde
in alcune linee di pensiero, oggi particolarmente diffuse. Anche se
brevemente, ritengo opportuno soffermarmi su di esse per rilevarne gli
errori ed i conseguenti rischi per l'attività filosofica.
La prima è quella che va sotto il nome di eclettismo,
termine col quale si designa l'atteggiamento di chi, nella ricerca,
nell'insegnamento e nell'argomentazione, anche teologica, è solito
assumere singole idee derivate da differenti filosofie, senza badare né
alla loro coerenza e connessione sistematica né al loro inserimento
storico. In questo modo, egli si pone in condizione di non poter
discernere la parte di verità di un pensiero da quello che vi può essere
di erroneo o di inadeguato. Una forma estrema di eclettismo è ravvisabile
anche nell'abuso retorico dei termini filosofici a cui a volte qualche
teologo s'abbandona. Una simile strumentalizzazione non serve alla ricerca
della verità e non educa la ragione — sia teologica che filosofica — ad
argomentare in maniera seria e scientifica. Lo studio rigoroso e
approfondito delle dottrine filosofiche, del linguaggio loro peculiare e
del contesto in cui sono sorte aiuta a superare i rischi dell'eclettismo e
permette una loro adeguata integrazione nell'argomentazione teologica.
87. L'eclettismo è un errore di metodo, ma potrebbe anche
nascondere in sé le tesi proprie dello storicismo. Per comprendere
in maniera corretta una dottrina del passato, è necessario che questa sia
inserita nel suo contesto storico e culturale. La tesi fondamentale dello
storicismo, invece, consiste nello stabilire la verità di una filosofia
sulla base della sua adeguatezza ad un determinato periodo e ad un
determinato compito storico. In questo modo, almeno implicitamente, si
nega la validità perenne del vero. Ciò che era vero in un'epoca, sostiene
lo storicista, può non esserlo più in un'altra. La storia del pensiero,
insomma, diventa per lui poco più di un reperto archeologico a cui
attingere per evidenziare posizioni del passato ormai in gran parte
superate e prive di significato per il presente. Si deve considerare, al
contrario, che anche se la formulazione è in certo modo legata al tempo e
alla cultura, la verità o l'errore in esse espressi si possono in ogni
caso, nonostante la distanza spazio-temporale, riconoscere e come tali
valutare.
Nella riflessione teologica, lo storicismo tende a
presentarsi per lo più sotto una forma di « modernismo ». Con la giusta
preoccupazione di rendere il discorso teologico attuale e assimilabile per
il contemporaneo, ci si avvale soltanto degli asserti e del gergo
filosofico più recenti, trascurando le istanze critiche che, alla luce
della tradizione, si dovrebbero eventualmente sollevare. Questa forma di
modernismo, per il fatto di scambiare l'attualità per la verità, si rivela
incapace di soddisfare le esigenze di verità a cui la teologia è chiamata
a dare risposta.
88. Un altro pericolo da considerare è lo scientismo.
Questa concezione filosofica si rifiuta di ammettere come valide forme di
conoscenza diverse da quelle che sono proprie delle scienze positive,
relegando nei confini della mera immaginazione sia la conoscenza religiosa
e teologica, sia il sapere etico ed estetico. Nel passato, la stessa idea
si esprimeva nel positivismo e nel neopositivismo, che ritenevano prive di
senso le affermazioni di carattere metafisico. La critica epistemologica
ha screditato questa posizione, ed ecco che essa rinasce sotto le nuove
vesti dello scientismo. In questa prospettiva, i valori sono relegati a
semplici prodotti dell'emotività e la nozione di essere è accantonata per
fare spazio alla pura e semplice fattualità. La scienza, quindi, si
prepara a dominare tutti gli aspetti dell'esistenza umana attraverso il
progresso tecnologico. Gli innegabili successi della ricerca scientifica e
della tecnologia contemporanea hanno contribuito a diffondere la mentalità
scientista, che sembra non avere più confini, visto come è penetrata nelle
diverse culture e quali cambiamenti radicali vi ha apportato.
Si deve costatare, purtroppo, che quanto attiene alla
domanda circa il senso della vita viene dallo scientismo considerato come
appartenente al dominio dell'irrazionale o dell'immaginario. Non meno
deludente è l'approccio di questa corrente di pensiero agli altri grandi
problemi della filosofia, che, quando non vengono ignorati, sono
affrontati con analisi poggianti su analogie superficiali, prive di
fondamento razionale. Ciò porta all'impoverimento della riflessione umana,
alla quale vengono sottratti quei problemi di fondo che l'animal
rationale, fin dagli inizi della sua esistenza sulla terra,
costantemente si è posto. Accantonata, in questa prospettiva, la critica
proveniente dalla valutazione etica, la mentalità scientista è riuscita a
fare accettare da molti l'idea secondo cui ciò che è tecnicamente
fattibile diventa per ciò stesso anche moralmente ammissibile.
89. Foriero di non minori pericoli è il pragmatismo,
atteggiamento mentale che è proprio di chi, nel fare le sue scelte,
esclude il ricorso a riflessioni teoretiche o a valutazioni fondate su
principi etici. Notevoli sono le conseguenze pratiche derivanti da questa
linea di pensiero. In particolare, vi si è venuta affermando una
concezione della democrazia che non contempla il riferimento a fondamenti
di ordine assiologico e perciò immutabili: la ammissibilità o meno di un
determinato comportamento si decide sulla base del voto della maggioranza
parlamentare. (105) E chiara la conseguenza di una simile impostazione: le
grandi decisioni morali dell'uomo vengono di fatto subordinate alle
deliberazioni via via assunte dagli organi istituzionali. Di più: è la
stessa antropologia ad essere fortemente condizionata, mediante la
proposta di una visione unidimensionale dell'essere umano, dalla quale
esulano i grandi dilemmi etici, le analisi esistenziali sul senso della
sofferenza e del sacrificio, della vita e della morte.
90. Le tesi fin qui esaminate conducono, a loro volta, a
una più generale concezione, che sembra oggi costituire l'orizzonte comune
a molte filosofie che hanno preso congedo dal senso dell'essere. Intendo
riferirmi alla lettura nichilista, che è insieme il rifiuto di ogni
fondamento e la negazione di ogni verità oggettiva. Il nichilismo,
prima ancora di essere in contrasto con le esigenze e i contenuti propri
della parola di Dio, è negazione dell'umanità dell'uomo e della sua stessa
identità. Non si può dimenticare, infatti, che l'oblio dell'essere
comporta inevitabilmente la perdita di contatto con la verità oggettiva e,
conseguentemente, col fondamento su cui poggia la dignità dell'uomo. Si fa
così spazio alla possibilità di cancellare dal volto dell'uomo i tratti
che ne rivelano la somiglianza con Dio, per condurlo progressivamente o a
una distruttiva volontà di potenza o alla disperazione della solitudine.
Una volta che si è tolta la verità all'uomo, è pura illusione pretendere
di renderlo libero. Verità e libertà, infatti, o si coniugano insieme o
insieme miseramente periscono. (106)
91. Nel commentare le linee di pensiero appena ricordate
non è stata mia intenzione presentare un quadro completo della situazione
attuale della filosofia: essa, del resto, sarebbe difficilmente
riconducibile ad una visione unitaria. Mi preme sottolineare che l'eredità
del sapere e della sapienza si è, di fatto, arricchita in diversi campi.
Basti citare la logica, la filosofia del linguaggio, l'epistemologia, la
filosofia della natura, l'antropologia, l'analisi approfondita delle vie
affettive della conoscenza, l'approccio esistenziale all'analisi della
libertà. D'altro canto, l'affermazione del principio d'immanenza, che sta
al centro della pretesa razionalista, ha suscitato, a partire dal secolo
scorso, reazioni che hanno portato ad una radicale rimessa in questione di
postulati ritenuti indiscutibili. Sono nate così correnti irrazionaliste,
mentre la critica metteva in evidenza l'inanità dell'esigenza di
autofondazione assoluta della ragione.
La nostra epoca è stata qualificata da certi pensatori come
l'epoca della « post-modernità ». Questo termine, utilizzato non di rado
in contesti tra loro molto distanti, designa l'emergere di un insieme di
fattori nuovi, che quanto ad estensione ed efficacia si sono rivelati
capaci di determinare cambiamenti significativi e durevoli. Così il
termine è stato dapprima impiegato a proposito di fenomeni d'ordine
estetico, sociale, tecnologico. Successivamente è stato trasferito in
ambito filosofico, restando però segnato da una certa ambiguità, sia
perché il giudizio su ciò che è qualificato come « post-moderno » è a
volte positivo ed a volte negativo, sia perché non vi è consenso sul
delicato problema della delimitazione delle varie epoche storiche. Una
cosa tuttavia è fuori dubbio: le correnti di pensiero che si richiamano
alla post-modernità meritano un'adeguata attenzione. Secondo alcune di
esse, infatti, il tempo delle certezze sarebbe irrimediabilmente passato,
l'uomo dovrebbe ormai imparare a vivere in un orizzonte di totale assenza
di senso, all'insegna del provvisorio e del fuggevole. Parecchi autori,
nella loro critica demolitrice di ogni certezza, ignorando le necessarie
distinzioni, contestano anche le certezze della fede.
Questo nichilismo trova in qualche modo una conferma nella
terribile esperienza del male che ha segnato la nostra epoca. Dinanzi alla
drammaticità di questa esperienza, l'ottimismo razionalista che vedeva
nella storia l'avanzata vittoriosa della ragione, fonte di felicità e di
libertà, non ha resistito, al punto che una delle maggiori minacce, in
questa fine di secolo, è la tentazione della disperazione.
Resta tuttavia vero che una certa mentalità positivista
continua ad accreditare l'illusione che, grazie alle conquiste
scientifiche e tecniche, l'uomo, quale demiurgo, possa giungere da solo ad
assicurarsi il pieno dominio del suo destino.
Compiti attuali per la teologia
92. In quanto intelligenza della Rivelazione, la teologia
nelle diverse epoche storiche si è sempre trovata a dover recepire le
istanze delle varie culture per poi mediare in esse, con una
concettualizzazione coerente, il contenuto della fede. Anche oggi un
duplice compito le spetta. Da una parte, infatti, essa deve sviluppare
l'impegno che il Concilio Vaticano II, a suo tempo, le ha affidato:
rinnovare le proprie metodologie in vista di un servizio più efficace
all'evangelizzazione. Come non pensare, in questa prospettiva, alle parole
pronunciate dal Sommo Pontefice Giovanni XXIII in apertura del Concilio?
Egli disse allora: « E necessario che, aderendo alla viva attesa di quanti
amano sinceramente la religione cristiana, cattolica, apostolica, questa
dottrina sia più largamente e più profondamente conosciuta, e che gli
spiriti ne siano più pienamente istruiti e formati; è necessario che
questa dottrina certa ed immutabile, che deve essere fedelmente
rispettata, sia approfondita e presentata in modo che corrisponda alle
esigenze del nostro tempo ». (107)
Dall'altra parte, la teologia deve puntare gli occhi sulla
verità ultima che le viene consegnata con la Rivelazione, senza
accontentarsi di fermarsi a stadi intermedi. E bene per il teologo
ricordare che il suo lavoro corrisponde « al dinamismo insito nella fede
stessa » e che oggetto proprio della sua ricerca è « la Verità, il Dio
vivo e il suo disegno di salvezza rivelato in Gesù Cristo ». (108) Questo
compito, che tocca in prima istanza la teologia, provoca nello stesso
tempo la filosofia. La mole dei problemi che oggi si impongono, infatti,
richiede un lavoro comune, anche se condotto con metodologie differenti,
perché la verità sia di nuovo conosciuta ed espressa. La Verità, che è
Cristo, si impone come autorità universale che regge, stimola e fa
crescere (cfr Ef 4, 15) sia la teologia che la filosofia.
Credere nella possibilità di conoscere una verità
universalmente valida non è minimamente fonte di intolleranza; al
contrario, è condizione necessaria per un sincero e autentico dialogo tra
le persone. Solamente a questa condizione è possibile superare le
divisioni e percorrere insieme il cammino verso la verità tutta intera,
seguendo quei sentieri che solo lo Spirito del Signore risorto conosce.
(109) Come l'esigenza di unità si configuri concretamente oggi, in vista
dei compiti attuali della teologia, è quanto desidero ora indicare.
93. Lo scopo fondamentale a cui mira la teologia consiste
nel presentare l'intelligenza della Rivelazione ed il contenuto della
fede. Il vero centro della sua riflessione sarà, pertanto, la
contemplazione del mistero stesso del Dio Uno e Trino. A questi si accede
riflettendo sul mistero dell'incarnazione del Figlio di Dio: sul suo farsi
uomo e sul conseguente suo andare incontro alla passione e alla morte,
mistero che sfocerà nella sua gloriosa risurrezione e ascensione alla
destra del Padre, da dove invierà lo Spirito di verità a costituire e ad
animare la sua Chiesa. Impegno primario della teologia, in questo
orizzonte, diventa l'intelligenza della kenosi di Dio, vero grande
mistero per la mente umana, alla quale appare insostenibile che la
sofferenza e la morte possano esprimere l'amore che si dona senza nulla
chiedere in cambio. In questa prospettiva si impone come esigenza di fondo
ed urgente una attenta analisi dei testi: in primo luogo, dei testi
scritturistici, poi di quelli in cui si esprime la viva Tradizione della
Chiesa. A questo riguardo si propongono oggi alcuni problemi, solo
parzialmente nuovi, la cui coerente soluzione non potrà essere trovata
prescindendo dall'apporto della filosofia.
94. Un primo aspetto problematico riguarda il rapporto tra
il significato e la verità. Come ogni altro testo, così anche le fonti che
il teologo interpreta trasmettono innanzitutto un significato, che va
rilevato ed esposto. Ora, questo significato si presenta come la verità su
Dio, che da Dio stesso viene comunicata mediante il testo sacro. Nel
linguaggio umano, quindi, prende corpo il linguaggio di Dio, che comunica
la propria verità con la mirabile « condiscendenza » che rispecchia la
logica dell'Incarnazione. (110) Nell'interpretare le fonti della
Rivelazione, pertanto, è necessario che il teologo si domandi quale sia la
verità profonda e genuina che i testi vogliono comunicare, pur nei limiti
del linguaggio.
Quanto ai testi biblici, e in particolare ai Vangeli, la
loro verità non si riduce certo alla narrazione di semplici avvenimenti
storici o alla rilevazione di fatti neutrali, come vorrebbe il positivismo
storicista. (111) Questi testi, al contrario, espongono eventi la cui
verità sta oltre il semplice accadere storico: sta nel loro significato
nella e per la storia della salvezza. Questa verità trova piena
esplicitazione nella lettura perenne che la Chiesa compie di tali testi
nel corso dei secoli, mantenendone immutato il significato originario. E
urgente, pertanto, che anche filosoficamente ci si interroghi sul rapporto
che intercorre tra il fatto e il suo significato; rapporto che costituisce
il senso specifico della storia.
95. La parola di Dio non si indirizza ad un solo popolo o a
una sola epoca. Ugualmente, gli enunciati dogmatici, pur risentendo a
volte della cultura del periodo in cui vengono definiti, formulano una
verità stabile e definitiva. Sorge quindi la domanda di come si possa
conciliare l'assolutezza e l'universalità della verità con l'inevitabile
condizionamento storico e culturale delle formule che la esprimono. Come
ho detto precedentemente, le tesi dello storicismo non sono difendibili.
L'applicazione di un'ermeneutica aperta all'istanza metafisica, invece, è
in grado di mostrare come, dalle circostanze storiche e contingenti in cui
i testi sono maturati, si compia il passaggio alla verità da essi
espressa, che va oltre questi condizionamenti.
Con il suo linguaggio storico e circoscritto l'uomo può
esprimere verità che trascendono l'evento linguistico. La verità, infatti,
non può mai essere limitata al tempo e alla cultura; si conosce nella
storia, ma supera la storia stessa.
96. Questa considerazione permette di intravedere la
soluzione di un altro problema: quello della perenne validità del
linguaggio concettuale usato nelle definizioni conciliari. Già il mio
venerato Predecessore Pio XII nella sua Lettera enciclica Humani
generis affrontava la questione. (112)
Riflettere su questo argomento
non è facile, perché si deve tenere seriamente conto del senso che le
parole acquistano nelle diverse culture e in epoche differenti. La storia
del pensiero, comunque, mostra che attraverso l'evoluzione e la varietà
delle culture certi concetti di base mantengono il loro valore conoscitivo
universale e perciò la verità delle proposizioni che li esprimono. (113)
Se così non fosse, la filosofia e le scienze non potrebbero comunicare tra
loro né potrebbero essere recepite da culture diverse da quelle in cui
sono state pensate ed elaborate. Il problema ermeneutico, dunque, esiste,
ma è risolvibile. Il valore realistico di molti concetti, d'altronde, non
esclude che spesso il loro significato sia imperfetto. La speculazione
filosofica molto potrebbe aiutare in questo campo. E auspicabile,
pertanto, un suo particolare impegno nell'approfondimento del rapporto tra
linguaggio concettuale e verità, e nella proposta di vie adeguate per una
sua corretta comprensione.
97. Se compito importante
della teologia è l'interpretazione delle fonti, impegno ulteriore e anche
più delicato ed esigente è la comprensione della verità rivelata, o
l'elaborazione dell'intellectus fidei. Come già ho accennato, l'intellectus
fidei richiede l'apporto di una filosofia dell'essere, che consenta
innanzitutto alla teologia dogmatica di svolgere in modo adeguato
le sue funzioni. Il pragmatismo dogmatico degli inizi di questo secolo,
secondo cui le verità di fede non sarebbero altro che regole di
comportamento, è già stato rifiutato e rigettato; (114) ciò nonostante,
rimane sempre la tentazione di comprendere queste verità in maniera
puramente funzionale. In questo caso, si cadrebbe in uno schema
inadeguato, riduttivo, e sprovvisto dell'incisività speculativa
necessaria. Una cristologia, ad esempio, che procedesse unilateralmente «
dal basso », come oggi si suole dire, o una ecclesiologia, elaborata
unicamente sul modello delle società civili, difficilmente potrebbero
evitare il pericolo di tale riduzionismo.
Se l'intellectus fidei
vuole integrare tutta la ricchezza della tradizione teologica, deve
ricorrere alla filosofia dell'essere. Questa dovrà essere in grado di
riproporre il problema dell'essere secondo le esigenze e gli apporti di
tutta la tradizione filosofica, anche quella più recente, evitando di
cadere in sterili ripetizioni di schemi antiquati. La filosofia
dell'essere, nel quadro della tradizione metafisica cristiana, è una
filosofia dinamica che vede la realtà nelle sue strutture ontologiche,
causali e comunicative. Essa trova la sua forza e perennità nel fatto di
fondarsi sull'atto stesso dell'essere, che permette l'apertura piena e
globale verso tutta la realtà, oltrepassando ogni limite fino a
raggiungere Colui che a tutto dona compimento. (115) Nella teologia, che
riceve i suoi principi dalla Rivelazione quale nuova fonte di conoscenza,
questa prospettiva trova conferma secondo l'intimo rapporto tra fede e
razionalità metafisica.
98. Considerazioni analoghe si
possono fare anche in riferimento alla teologia morale. Il recupero
della filosofia è urgente anche nell'ordine della comprensione della fede
che riguarda l'agire dei credenti. Di fronte alle sfide contemporanee nel
campo sociale, economico, politico e scientifico la coscienza etica
dell'uomo è disorientata. Nella Lettera enciclica Veritatis splendor
ho rilevato che molti problemi presenti nel mondo contemporaneo
derivano da una « crisi intorno alla verità. Persa l'idea di una verità
universale sul bene, conoscibile dalla ragione umana, è inevitabilmente
cambiata anche la concezione della coscienza: questa non è più considerata
nella sua realtà originaria, ossia un atto dell'intelligenza della
persona, cui spetta di applicare la conoscenza universale del bene in una
determinata situazione e di esprimere così un giudizio sulla condotta
giusta da scegliere qui e ora; ci si è orientati a concedere alla
coscienza dell'individuo il privilegio di fissare, in modo autonomo, i
criteri del bene e del male e agire di conseguenza. Tale visione fa tutt'uno
con un'etica individualistica, per la quale ciascuno si trova confrontato
con la sua verità, differente dalla verità degli altri ». (116)
Nell'intera Enciclica ho
sottolineato chiaramente il fondamentale ruolo spettante alla verità nel
campo della morale. Questa verità, riguardo alla maggior parte dei
problemi etici più urgenti, richiede, da parte della teologia morale,
un'attenta riflessione che sappia mettere in evidenza le sue radici nella
parola di Dio. Per poter adempiere a questa sua missione, la teologia
morale deve far ricorso a un'etica filosofica rivolta alla verità del
bene; a un'etica, dunque, né soggettivista né utilitarista. L'etica
richiesta implica e presuppone un'antropologia filosofica e una metafisica
del bene. Avvalendosi di questa visione unitaria, che è necessariamente
collegata alla santità cristiana e all'esercizio delle virtù umane e
soprannaturali, la teologia morale sarà capace di affrontare i vari
problemi di sua competenza — quali la pace, la giustizia sociale, la
famiglia, la difesa della vita e dell'ambiente naturale — in maniera più
adeguata ed efficace.
99. Il lavoro teologico nella
Chiesa è in primo luogo al servizio dell'annuncio della fede e della
catechesi. (117) L'annuncio o il kerigma chiama alla conversione,
proponendo la verità di Cristo che culmina nel suo Mistero pasquale: solo
in Cristo, infatti, è possibile conoscere la pienezza della verità che
salva (cfr At 4, 12; 1 Tm 2, 4-6).
In questo contesto, si capisce
bene perché, oltre alla teologia, assuma notevole rilievo anche il
riferimento alla catechesi: questa possiede, infatti, delle
implicazioni filosofiche che vanno approfondite alla luce della fede.
L'insegnamento impartito nella catechesi ha un effetto formativo per la
persona. La catechesi, che è anche comunicazione linguistica, deve
presentare la dottrina della Chiesa nella sua integrità, (118) mostrandone
l'aggancio con la vita dei credenti. (119) Si realizza così una singolare
unione tra insegnamento e vita che è impossibile raggiungere altrimenti.
Ciò che si comunica nella catechesi, infatti, non è un corpo di verità
concettuali, ma il mistero del Dio vivente. (120) La riflessione filosofica molto può contribuire nel chiarificare il rapporto tra verità e vita, tra evento e verità dottrinale e, soprattutto, la relazione tra verità trascendente e linguaggio umanamente intelligibile. (121) La reciprocità che si crea tra le discipline teologiche e i risultati raggiunti dalle differenti correnti filosofiche può esprimere, dunque, una reale fecondità in vista della comunicazione della fede e di una sua più profonda comprensione.
CONCLUSIONE 101. Se il nostro sguardo si volge alla storia del pensiero, soprattutto nell'Occidente, è facile vedere la ricchezza che è scaturita per il progresso dell'umanità dall'incontro tra filosofia e teologia e dallo scambio delle loro rispettive conquiste. La teologia, che ha ricevuto in dono un'apertura e una originalità che le permettono di esistere come scienza della fede, ha certamente provocato la ragione a rimanere aperta davanti alla novità radicale che la rivelazione di Dio porta con sé. E questo è stato un indubbio vantaggio per la filosofia, che ha visto così schiudersi nuovi orizzonti su ulteriori significati che la ragione è chiamata ad approfondire.
E proprio alla luce di questa
costatazione che, come ho ribadito il dovere della teologia di recuperare
il suo genuino rapporto con la filosofia, così mi sento in dovere di
sottolineare l'opportunità che anche la filosofia, per il bene e il
progresso del pensiero, recuperi la sua relazione con la teologia. Troverà
in essa non la riflessione del singolo individuo che, anche se profonda e
ricca, porta pur sempre con sé i limiti prospettici propri del pensiero di
uno solo, ma la ricchezza di una riflessione comune. La teologia, infatti,
nell'indagine sulla verità è sostenuta, per sua stessa natura, dalla nota
dell'ecclesialità (123) e dalla tradizione del Popolo di Dio con la
sua multiformità di saperi e culture nell'unità della fede.
102. Insistendo in tal modo
sull'importanza e sulle vere dimensioni del pensiero filosofico, la Chiesa
promuove insieme sia la difesa della dignità dell'uomo sia l'annuncio del
messaggio evangelico. Per tali compiti non vi è oggi, infatti,
preparazione più urgente di questa: portare gli uomini alla scoperta della
loro capacità di conoscere il vero (124) e del loro anelito verso un senso
ultimo e definitivo dell'esistenza. Nella prospettiva di queste esigenze
profonde, iscritte da Dio nella natura umana, appare anche più chiaro il
significato umano e umanizzante della parola di Dio. Grazie alla
mediazione di una filosofia divenuta anche vera saggezza, l'uomo
contemporaneo giungerà così a riconoscere che egli sarà tanto più uomo
quanto più, affidandosi al Vangelo, aprirà se stesso a Cristo.
103. La filosofia, inoltre, è
come lo specchio in cui si riflette la cultura dei popoli. Una filosofia,
che, sotto la provocazione delle esigenze teologiche, si sviluppa in
consonanza con la fede, fa parte di quella « evangelizzazione della
cultura » che Paolo VI ha proposto come uno degli scopi fondamentali
dell'evangelizzazione. (125) Mentre non mi stanco di richiamare l'urgenza
di una nuova evangelizzazione, mi appello ai filosofi perché
sappiano approfondire le dimensioni del vero, del buono e del bello, a cui
la parola di Dio dà accesso. Ciò diventa tanto più urgente, se si
considerano le sfide che il nuovo millennio sembra portare con sé: esse
investono in modo particolare le regioni e le culture di antica tradizione
cristiana. Anche questa attenzione deve considerarsi come un apporto
fondamentale e originale sulla strada della nuova evangelizzazione.
104. Il pensiero filosofico è
spesso l'unico terreno d'intesa e di dialogo con chi non condivide la
nostra fede. Il movimento filosofico contemporaneo esige l'impegno attento
e competente di filosofi credenti capaci di recepire le aspettative, le
aperture e le problematiche di questo momento storico. Argomentando alla
luce della ragione e secondo le sue regole, il filosofo cristiano, pur
sempre guidato dall'intelligenza ulteriore che gli dà la parola di Dio,
può sviluppare una riflessione che sarà comprensibile e sensata anche per
chi non afferra ancora la verità piena che la Rivelazione divina
manifesta. Tale terreno d'intesa e di dialogo è oggi tanto più importante
in quanto i problemi che si pongono con più urgenza all'umanità — si pensi
al problema ecologico, al problema della pace o della convivenza delle
razze e delle culture — trovano una possibile soluzione alla luce di una
chiara e onesta collaborazione dei cristiani con i fedeli di altre
religioni e con quanti, pur non condividendo una credenza religiosa, hanno
a cuore il rinnovamento dell'umanità. Lo ha affermato il Concilio Vaticano
II: « Per quanto ci riguarda, il desiderio di stabilire un dialogo che sia
ispirato dal solo amore della verità e condotto con la opportuna prudenza,
non esclude nessuno: né coloro che hanno il culto di alti valori umani,
benché non ne riconoscano ancora la Sorgente, né coloro che si oppongono
alla Chiesa e la perseguitano in diverse maniere ». (126) Una filosofia,
nella quale risplenda anche qualcosa della verità di Cristo, unica
risposta definitiva ai problemi dell'uomo, (127) sarà un sostegno efficace
per quell'etica vera e insieme planetaria di cui oggi l'umanità ha
bisogno.
105. Mi preme concludere
questa Lettera enciclica rivolgendo un ultimo pensiero anzitutto ai
teologi, affinché prestino particolare attenzione alle implicazioni
filosofiche della parola di Dio e compiano una riflessione da cui emerga
lo spessore speculativo e pratico della scienza teologica. Desidero
ringraziarli per il loro servizio ecclesiale. Il legame intimo tra la
sapienza teologica e il sapere filosofico è una delle ricchezze più
originali della tradizione cristiana nell'approfondimento della verità
rivelata. Per questo, li esorto a recuperare ed evidenziare al meglio la
dimensione metafisica della verità per entrare così in un dialogo critico
ed esigente tanto con il pensiero filosofico contemporaneo quanto con
tutta la tradizione filosofica, sia questa in sintonia o invece in
contrapposizione con la parola di Dio. Tengano sempre presente
l'indicazione di un grande maestro del pensiero e della spiritualità, san
Bonaventura, il quale introducendo il lettore al suo Itinerarium mentis
in Deum lo invitava a rendersi conto che « non è sufficiente la
lettura senza la compunzione, la conoscenza senza la devozione, la ricerca
senza lo slancio della meraviglia, la prudenza senza la capacità di
abbandonarsi alla gioia, l'attività disgiunta dalla religiosità, il sapere
separato dalla carità, l'intelligenza senza l'umiltà, lo studio non
sorretto dalla grazia divina, la riflessione senza la sapienza ispirata da
Dio ». (128)
Il mio pensiero è rivolto pure
a quanti hanno la responsabilità della formazione sacerdotale, sia
accademica che pastorale, perché curino con particolare attenzione la
preparazione filosofica di chi dovrà annunciare il Vangelo all'uomo di
oggi e, più ancora, di chi dovrà dedicarsi alla ricerca e all'insegnamento
della teologia. Si sforzino di condurre il loro lavoro alla luce delle
prescrizioni del Concilio Vaticano II (129) e delle disposizioni
successive, dalle quali emerge l'inderogabile e urgente compito, a cui
tutti siamo chiamati, di contribuire a una genuina e profonda
comunicazione delle verità di fede. Non si dimentichi la grave
responsabilità di una previa e adeguata preparazione del corpo docente
destinato all'insegnamento della filosofia sia nei Seminari che nelle
Facoltà ecclesiastiche. (130) E necessario che questa docenza comporti la
conveniente preparazione scientifica, si presenti in maniera sistematica
proponendo il grande patrimonio della tradizione cristiana e si compia con
il dovuto discernimento dinanzi alle esigenze attuali della Chiesa e del
mondo.
106. Il mio appello, inoltre,
va ai filosofi e a quanti insegnano la filosofia, perché
abbiano il coraggio di ricuperare, sulla scia di una tradizione filosofica
perennemente valida, le dimensioni di autentica saggezza e di verità,
anche metafisica, del pensiero filosofico. Si lascino interpellare dalle
esigenze che scaturiscono dalla parola di Dio ed abbiano la forza di
condurre il loro discorso razionale ed argomentativo in risposta a tale
interpellanza. Siano sempre protesi verso la verità e attenti al bene che
il vero contiene. Potranno in questo modo formulare quell'etica genuina di
cui l'umanità ha urgente bisogno, particolarmente in questi anni. La
Chiesa segue con attenzione e simpatia le loro ricerche; siano pertanto
sicuri del rispetto che essa conserva per la giusta autonomia della loro
scienza. Vorrei incoraggiare, in particolare, i credenti che operano nel
campo della filosofia, perché illuminino i diversi ambiti dell'attività
umana con l'esercizio di una ragione che si fa più sicura e acuta per il
sostegno che riceve dalla fede.
Non posso non rivolgere,
infine, una parola anche agli scienziati, che con le loro ricerche
ci forniscono una crescente conoscenza dell'universo nel suo insieme e
della varietà incredibilmente ricca delle sue componenti, animate ed
inanimate, con le loro complesse strutture atomiche e molecolari. Il
cammino da essi compiuto ha raggiunto, specialmente in questo secolo,
traguardi che continuano a stupirci. Nell'esprimere la mia ammirazione ed
il mio incoraggiamento a questi valorosi pionieri della ricerca
scientifica, ai quali l'umanità tanto deve del suo presente sviluppo,
sento il dovere di esortarli a proseguire nei loro sforzi restando sempre
in quell'orizzonte sapienziale, in cui alle acquisizioni
scientifiche e tecnologiche s'affiancano i valori filosofici ed etici, che
sono manifestazione caratteristica ed imprescindibile della persona umana.
Lo scienziato è ben consapevole che « la ricerca della verità, anche
quando riguarda una realtà limitata del mondo o dell'uomo, non termina
mai; rinvia sempre verso qualcosa che è al di sopra dell'immediato oggetto
degli studi, verso gli interrogativi che aprono l'accesso al Mistero ».
(131)
107. A tutti chiedo di
guardare in profondità all'uomo, che Cristo ha salvato nel mistero del suo
amore, e alla sua costante ricerca di verità e di senso. Diversi sistemi
filosofici, illudendolo, lo hanno convinto che egli è assoluto padrone di
sé, che può decidere autonomamente del proprio destino e del proprio
futuro confidando solo in se stesso e sulle proprie forze. La grandezza
dell'uomo non potrà mai essere questa. Determinante per la sua
realizzazione sarà soltanto la scelta di inserirsi nella verità,
costruendo la propria abitazione all'ombra della Sapienza e abitando in
essa. Solo in questo orizzonte veritativo comprenderà il pieno
esplicitarsi della sua libertà e la sua chiamata all'amore e alla
conoscenza di Dio come attuazione suprema di sé.
108. Il mio ultimo pensiero è
rivolto a Colei che la preghiera della Chiesa invoca come Sede della
Sapienza. La sua stessa vita è una vera parabola capace di irradiare
luce sulla riflessione che ho svolto. Si può intravedere, infatti, una
profonda consonanza tra la vocazione della Beata Vergine e quella della
genuina filosofia. Come la Vergine fu chiamata ad offrire tutta la sua
umanità e femminilità affinché il Verbo di Dio potesse prendere carne e
farsi uno di noi, così la filosofia è chiamata a prestare la sua opera,
razionale e critica, affinché la teologia come comprensione della fede sia
feconda ed efficace. E come Maria, nell'assenso dato all'annuncio di
Gabriele, nulla perse della sua vera umanità e libertà, così il pensiero
filosofico, nell'accogliere l'interpellanza che gli viene dalla verità del
Vangelo, nulla perde della sua autonomia, ma vede sospinta ogni sua
ricerca alla più alta realizzazione. Questa verità l'avevano ben compresa
i santi monaci dell'antichità cristiana, quando chiamavano Maria « la
mensa intellettuale della fede ». (132) In lei vedevano l'immagine
coerente della vera filosofia ed erano convinti di dover philosophari
in Maria.
Possa, la Sede della Sapienza,
essere il porto sicuro per quanti fanno della loro vita la ricerca della
saggezza. Il cammino verso la sapienza, ultimo e autentico fine di ogni
vero sapere, possa essere liberato da ogni ostacolo per l'intercessione di
Colei che, generando la Verità e conservandola nel suo cuore, l'ha
partecipata all'umanità intera per sempre.
Dato a Roma, presso San
Pietro, il 14 settembre, festa della Esaltazione della Santa Croce,
dell'anno 1998, ventesimo del mio Pontificato. GIOVANNI PAOLO II
NOTE
(2) Cfr Conc. Ecum. Vat. II,
Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes,
16.
(3) Cost. dogm. sulla Chiesa
Lumen gentium, 25.
(4) N. 4:
AAS 85 (1993), 1136.
(5) Conc. Ecum.
Vat. II, Cost. dogm. sulla divina Rivelazione
Dei Verbum, 2.
(6) Cfr Cost. dogm. sulla fede
cattolica Dei Filius, III: DS 3008.
(7) Ibid., IV: DS
3015; citato anche in Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa
nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 59.
(8) Cost. dogm. sulla divina
Rivelazione Dei Verbum, 2.
(9) Lett. ap. Tertio
millennio adveniente (10 novembre 1994), 10: AAS 87 (1995), 11.
(10) N. 4.
(11) N. 8.
(12) N. 22.
(13) Cfr Conc.
Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla divina
Rivelazione Dei Verbum, 4.
(14) Ibid., 5.
(15) Il Concilio Vaticano I, a
cui fa riferimento la sentenza sopra richiamata, insegna che l'obbedienza
della fede esige l'impegno dell'intelletto e della volontà: « Poiché
l'uomo dipende totalmente da Dio come suo creatore e signore e la ragione
creata è sottomessa completamente alla verità increata, noi siamo tenuti,
quando Dio si rivela, a prestargli, con la fede, la piena sottomissione
della nostra intelligenza e della nostra volontà » (Cost. dogm. sulla fede
cattolica Dei Filius, III; DS 3008).
(16) Sequenza nella
solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo.
(17)
Pensées, 789 (ed. L. Brunschvicg).
(18) Conc.
Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel
mondo contemporaneo Gaudium et spes, 22.
(19) Cfr Conc. Ecum. Vat. II,
Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum, 2.
(20) Proemio e nn. 1. 15:
PL 158, 223-224.226; 235.
(21) De vera religione,
XXXIX, 72: CCL 32, 234.
(22) « Ut te semper
desiderando quaererent et inveniendo quiescerent »: Missale Romanum.
(23) Aristotele, Metafisica,
I, 1.
(24) Confessiones, X,
23, 33: CCL 27, 173.
(25) N. 34: AAS 85
(1993), 1161.
(26) Cfr Giovanni Paolo II,
Lett. ap. Salvifici doloris (11 febbraio 1984), 9: AAS 76
(1984), 209-210. (27) Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Dich. sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane Nostra aetate, 2.
(28) E questa
un'argomentazione che perseguo da molto tempo e che ho espresso in diverse
occasioni. « Che è l'uomo e a che può servire? Qual è il suo bene e qual è
il suo male? (Sir 18, 7) [...]. Queste domande sono nel cuore di
ogni uomo, come ben dimostra il genio poetico di ogni tempo e di ogni
popolo, che, quasi profezia dell'umanità, ripropone continuamente la
domanda seria che rende l'uomo veramente tale. Esse esprimono
l'urgenza di trovare un perché all'esistenza, ad ogni suo istante, alle
sue tappe salienti e decisive così come ai suoi momenti più comuni. In
tali questioni è testimoniata la ragionevolezza profonda dell'esistere
umano, poiché l'intelligenza e la volontà dell'uomo vi sono sollecitate a
cercare liberamente la soluzione capace di offrire un senso pieno alla
vita. Questi interrogativi, pertanto, costituiscono l'espressione più alta
della natura dell'uomo: di conseguenza la risposta ad esse misura la
profondità del suo impegno con la propria esistenza. In particolare,
quando il perché delle cose viene indagato con integralità alla
ricerca della risposta ultima e più esauriente, allora la ragione umana
tocca il suo vertice e si apre alla religiosità. In effetti, la
religiosità rappresenta l'espressione più elevata della persona umana,
perché è il culmine della sua natura razionale. Essa sgorga
dall'aspirazione profonda dell'uomo alla verità ed è alla base della
ricerca libera e personale che egli compie del divino »: Udienza generale
del 19 ottobre 1983, 1-2: Insegnamenti VI, 2 (1983), 814-815.
(29) « [Galileo] ha dichiarato
esplicitamente che le due verità, di fede e di scienza, non possono mai
contrariarsi « procedendo di pari dal Verbo divino la Scrittura sacra e la
natura, quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa come
osservantissima esecutrice degli ordini di Dio » come scrive nella lettera
al Padre Benedetto Castelli il 21 dicembre 1613. Non diversamente, anzi
con parole simili, insegna il Concilio Vaticano II: « La ricerca metodica
di ogni disciplina, se procede [...] secondo le norme morali, non sarà mai
in reale contrasto con la fede, perché le realtà profane e le realtà della
fede hanno origine dal medesimo Dio » (Gaudium et spes, 36).
Galileo sente nella sua ricerca scientifica la presenza del Creatore che
lo stimola, che previene e aiuta le sue intuizioni, operando nel profondo
del suo spirito ». Giovanni Paolo II, Discorso alla Pontificia Accademia
delle Scienze, 10 novembre 1979: Insegnamenti, II, 2 (1979),
1111-1112.
(30) Cfr Conc. Ecum. Vat. II,
Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum, 4.
(31) Origene, Contro Celso,
3, 55: SC 136, 130.
(32) Dialogo con Trifone,
8,1: PG 6, 492.
(33) Stromati I, 18,
90, 1: SC 30, 115.
(34) Cfr ibid., I, 16,
80, 5: SC 30, 108.
(35) Cfr ibid., I, 5,
28, 1: SC 30, 65.
(36) Ibid., VI, 7, 55,
1-2: PG 9, 277.
(37) Ibid., I, 20, 100,
1: SC 30, 124.
(38) S. Agostino,
Confessiones VI, 5, 7: CCL 27, 77-78.
(39) Cfr ibid., VII, 9,
13-14: CCL 27, 101-102.
(40) De praescriptione
haereticorum, VII, 9: SC 46, 98. « Quid ergo Athenis et
Hierosolymis? Quid academiae et ecclesiae? ».
(41) Cfr Congregazione per
l'Educazione Cattolica, Istr. sullo studio dei Padri della Chiesa nella
formazione sacerdotale (10 novembre 1989), 25: AAS 82 (1990),
617-618.
(42) S. Anselmo, Proslogion,
1: PL 158, 226.
(43) Id., Monologion,
64: PL 158, 210.
(44) Cfr Summa contra
Gentiles, I, VII.
(45) Cfr Summa Theologiae,
I, 1, 8 ad 2: « cum enim gratia non tollat naturam sed perficiat ».
(46) Cfr Giovanni Paolo II,
Discorso ai partecipanti al IX Congresso Tomistico Internazionale (29
settembre 1990): Insegnamenti, XIII, 2 (1990), 770-771.
(47) Lett. ap. Lumen
Ecclesiae (20 novembre 1974), 8: AAS 66 (1974), 680.
(48) Cfr I, 1, 6: « Praeterea,
haec doctrina per studium acquiritur. Sapientia autem per infusionem
habetur, unde inter septem dona Spiritus Sancti connumeratur ».
(49) Ibid., II, II, 45,
1 ad 2; cfr pure II, II, 45, 2.
(50) Ibid., I, II, 109,
1 ad 1 che riprende la nota frase dell'Ambrosiaster, In prima Cor
12,3: PL 17, 258.
(51) Leone XIII, Lett. enc.
Æterni Patris (4 agosto 1879): ASS 11 (1878-1879), 109.
(52) Paolo VI, Lett. ap.
Lumen Ecclesiae (20 novembre 1974), 8: AAS 66 (1974), 683.
(53) Lett. enc. Redemptor
hominis (4 marzo 1979), 15: AAS 71 (1979), 286.
(54) Cfr Pio XII, Lett. enc.
Humani generis (12 agosto 1950): AAS 42 (1950), 566.
(55) Cfr Conc. Ecum. Vat. I,
Cost. dogm. prima sulla Chiesa di Cristo Pastor Aeternus: DS
3070; Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium,
25 c.
(56) Cfr Sinodo di
Costantinopoli, DS 403.
(57) Cfr Concilio di Toledo I,
DS 205; Concilio di Braga I, DS 459-460; Sisto V, Bolla
Coeli et terrae Creator (5 gennaio 1586): Bullarium Romanum 44,
Romae 1747, 176-179; Urbano VIII, Inscrutabilis iudiciorum (1o
aprile 1631): Bullarium Romanum 61, Romae 1758, 268-270.
(58) Cfr Conc.
Ecum. Viennense, Decr.
Fidei catholicae,
DS 902; Conc. Ecum. Lateranense V, Bolla Apostolici regiminis,
DS 1440.
(59) Cfr
Theses a Ludovico Eugenio Bautain iussu sui Episcopi subscriptae (8
settembre 1840), DS 2751-2756; Theses a Ludovico Eugenio Bautain ex
mandato S. Cong. Episcoporum et Religiosorum subscriptae (26 aprile
1844), DS 2765-2769.
(60) Cfr S.
Congr. Indicis, Decr. Theses contra traditionalismum Augustini Bonnetty
(11 giugno 1855), DS 2811-2814.
(61) Cfr Pio IX, Breve
Eximiam tuam (15 giugno 1857), DS 2828-2831; Breve
Gravissimas inter (11 dicembre 1862), DS 2850-2861.
(62) Cfr S. Congr. del S.
Officio, Decr. Errores ontologistarum (18 settembre 1861), DS
2841-2847.
(63) Cfr Conc. Ecum. Vat. I,
Cost. dogm. sulla fede cattolica Dei Filius, II: DS 3004; e
can. 2, 1: DS 3026.
(64) Ibid., IV: DS
3015, citato in Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel
mondo contemporaneo Gaudium et spes, 59.
(65) Conc. Ecum. Vat. I, Cost.
dogm. sulla fede cattolica Dei Filius, IV: DS 3017.
(66) Cfr Lett. enc.
Pascendi dominici gregis (8
settembre 1907): ASS 40 (1907), 596-597.
(67) Cfr Pio XI, Lett. enc.
Divini Redemptoris (19 marzo 1937): AAS 29 (1937), 65-106.
(68) Lett. enc. Humani
generis (12 agosto 1950): AAS 42 (1950), 562-563.
(69) Ibid., l.c.,
563-564.
(70) Cfr Giovanni Paolo II,
Cost. ap. Pastor Bonus (28 giugno 1988), artt. 48-49: AAS 80
(1988), 873; Congr. per la Dottrina della Fede, Istr. sulla vocazione
ecclesiale del teologo Donum veritatis (24 maggio 1990), 18: AAS
82 (1990), 1558.
(71) Cfr Istr. su alcuni
aspetti della « teologia della liberazione » Libertatis nuntius (6
agosto 1984), VII-X: AAS 76 (1984), 890-903.
(72) Il Concilio Vaticano I,
con parole tanto chiare quanto autoritative, aveva già condannato questo
errore, affermando da una parte che « quanto a questa fede [...], la
Chiesa cattolica professa che essa è una virtù soprannaturale, per la
quale sotto l'ispirazione divina e con l'aiuto della grazia, noi crediamo
vere le cose da lui rivelate, non a causa dell'intrinseca verità delle
cose percepite dalla luce naturale della ragione, ma a causa dell'autorità
di Dio stesso, che le rivela, il quale non può ingannarsi né ingannare »:
Cost. dogm. Dei Filius III: DS 3008, e can.3. 2: DS
3032. Dall'altra parte, il Concilio dichiarava che la ragione mai « è resa
capace di penetrare [tali misteri] come le verità che formano il suo
oggetto proprio »: ibid., IV: DS 3016. Da qui traeva la
conclusione pratica: « I fedeli cristiani non solo non hanno il diritto di
difendere come legittime conclusioni della scienza le opinioni
riconosciute contrarie alla dottrina della fede, specie se condannate
dalla Chiesa, ma sono strettamente tenuti a considerarle piuttosto come
errori, che hanno solo una ingannevole parvenza di verità »: ibid.,
IV: DS 3018.
(73) Cfr nn.
9-10.
(74)
Ibid., 10.
(75)
Ibid., 21.
(76) Cfr
ibid., 10.
(77) Cfr
Lett. enc. Humani
generis (12 agosto
1950): AAS 42 (1950), 565-567; 571-573.
(78) Cfr
Lett. enc. Æterni
Patris (4 agosto
1879): ASS 11 (1878-1879), 97-115.
(79)
Ibid., l.c., 109.
(80) Cfr nn.
14-15.
(81) Cfr ibid., 20-21.
(82) Ibid., 22; cfr
Giovanni Paolo II, Lett. enc. Redemptor hominis (4 marzo 1979), 8:
AAS 71 (1979), 271-272.
(83) Decr. sulla formazione
sacerdotale Optatam totius, 15.
(84) Cfr Giovanni Paolo II,
Cost. ap. Sapientia christiana (15 aprile 1979), art. 79-80: AAS
71 (1979), 495-496; Esort. ap. postsinodale Pastores dabo vobis
(25 marzo 1992), 52: AAS 84 (1992), 750-751. Cfr pure alcuni
commenti sulla filosofia di S. Tommaso: Discorso al Pontificio Ateneo
Internazionale Angelicum (17 novembre 1979): Insegnamenti II, 2
(1979), 1177-1189; Discorso ai partecipanti dell'VIII Congresso Tomistico
Internazionale (13 settembre 1980): Insegnamenti III, 2 (1980),
604-615; Discorso ai partecipanti al Congresso Internazionale della
Società « San Tommaso » sulla dottrina dell'anima in S. Tommaso (4 gennaio
1986): Insegnamenti IX, 1 (1986), 18-24. Inoltre, S. Congr. per
l'Educazione Cattolica, Ratio fundamentalis institutionis sacerdotalis
(6 gennaio 1970), 70-75: AAS 62 (1970), 366-368; Decr. Sacra
Theologia (20 gennaio 1972): AAS 64 (1972), 583-586.
(85) Cfr Cost. past. sulla
Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 57; 62.
(86) Cfr
ibid., 44.
(87) Cfr
Conc. Ecum. Lateranense V, Bolla
Apostolici regimini sollicitudo, Sessione VIII: Conc. Oecum.
Decreta, 1991, 605-606.
(88) Cfr Conc. Ecum. Vat. II,
Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum, 10.
(89) S. Tommaso d'Aquino,
Summa Theologiae, II-II, 5, 3 ad 2.
(90) « La ricerca delle
condizioni nelle quali l'uomo pone da sé le prime domande fondamentali sul
senso della vita, sul fine che ad essa vuole dare e su ciò che l'attende
dopo la morte, costituisce per la teologia fondamentale il necessario
preambolo, affinché, anche oggi, la fede abbia a mostrare in pienezza il
cammino ad una ragione in ricerca sincera della verità ». Giovanni Paolo
II, Lettera ai partecipanti al Congresso internazionale di Teologia
Fondamentale a 125 anni dalla « Dei Filius » (30 settembre 1995), 4:
L'Osservatore Romano, 3 ottobre 1995, p. 8.
(91)
Ibid.
(92) Cfr
Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa
nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 15; Decr. sull'attività
missionaria della Chiesa Ad gentes, 22.
(93) S. Tommaso d'Aquino,
De Caelo, 1, 22.
(94) Cfr Conc. Ecum. Vat. II,
Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes,
53-59.
(95) S.
Agostino, De praedestinatione sanctorum, 2,5: PL 44, 963.
(96) Id.,
De fide, spe et caritate, 7: CCL 64, 61.
(97) Cfr Conc. Ecum.
Calcedonense, Symbolum, Definitio: DS 302.
(98) Cfr Giovanni Paolo II,
Lett. enc. Redemptor hominis (4 marzo 1979), 15: AAS 71
(1979), 286-289.
(99) Cfr, ad esempio, S.
Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, I, 16,1; S. Bonaventura,
Coll. in Hex., 3, 8, 1.
(100) Cost. past. sulla Chiesa
nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 15.
(101) Cfr Giovanni Paolo II,
Lett. enc. Veritatis splendor
(6 agosto 1993),
57-61: AAS 85 (1993), 1179-1182.
(102) Cfr
Conc. Ecum. Vat. I, Cost. dogm. sulla fede
cattolica Dei Filius, IV: DS 3016.
(103) Cfr Conc. Ecum.
Lateranense IV, De errore abbatis Ioachim, II: DS 806. (104) Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum, 24; Decr. sulla formazione sacerdotale Optatam totius, 16. (105) Cfr Giovanni Paolo II, Lett. enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), 69: AAS 87 (1995), 481.
(106) Nello stesso senso
scrivevo nella mia prima Lettera enciclica a commento dell'espressione del
Vangelo di S. Giovanni: « Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi
» (8, 32): «Queste parole racchiudono una fondamentale esigenza ed insieme
un ammonimento: l'esigenza di un rapporto onesto nei riguardi della
verità, come condizione di un'autentica libertà; e l'ammonimento, altresì,
perché sia evitata qualsiasi libertà apparente, ogni libertà superficiale
e unilaterale, ogni libertà che non penetri tutta la verità sull'uomo e
sul mondo. Anche oggi, dopo duemila anni, il Cristo appare a noi come
Colui che porta all'uomo la libertà basata sulla verità, come Colui che
libera l'uomo da ciò che limita, menoma e quasi spezza alle radici stesse,
nell'anima dell'uomo, nel suo cuore, nella sua coscienza, questa libertà
»: Lett. enc. Redemptor hominis (4 marzo 1979), 12: AAS 71
(1979), 280-281.
(107) Discorso di apertura del
Concilio (11 ottobre 1962): AAS 54 (1962), 792.
(108) Congr. per la Dottrina
della Fede, Istr. sulla vocazione ecclesiale del teologo Donum
veritatis (24 maggio 1990), 7-8: AAS 82 (1990), 1552-1553.
(109) Ho scritto
nell'Enciclica Dominum et vivificantem, commentando Gv 16,
12-13: « Gesù presenta il Consolatore, lo Spirito di verità, come colui
che “insegnerà” e “ricorderà”, come colui che gli “renderà testimonianza”;
ora dice: “Egli vi guiderà alla verità tutta intera”. Questo “guidare alla
verità tutta intera”, in riferimento a ciò di cui gli Apostoli “per il
momento non sono capaci di portare il peso”, è in necessario collegamento
con lo spogliamento di Cristo per mezzo della passione e morte di
croce, che allora, quando pronunciava queste parole, era ormai imminente.
In seguito, tuttavia, diventa chiaro che quel “guidare alla verità tutta
intera” si ricollega, oltre che allo scandalum Crucis, anche a
tutto ciò che Cristo “fece ed insegnò” (At 1, 1). Infatti, il
mysterium Christi nella sua globalità esige la fede, poiché è questa
che introduce opportunamente l'uomo nella realtà del mistero rivelato. Il
“guidare alla verità tutta intera” si realizza, dunque, nella fede e
mediante la fede: il che è opera dello Spirito di verità ed è frutto della
sua azione nell'uomo. Lo Spirito Santo deve essere in questo la suprema
guida dell'uomo, la luce dello spirito umano »: n. 6: AAS 78
(1986), 815-816.
(110) Cfr Conc. Ecum. Vat. II,
Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum, 13.
(111) Cfr Pontificia
Commissione Biblica, Istr. sulla verità storica dei Vangeli (21 aprile
1964): AAS 56 (1964), 713.
(112) « E chiaro che la Chiesa
non può essere legata ad un qualunque sistema filosofico effimero; ma
quelle nozioni e quei termini, che con generale consenso furono composti
attraverso parecchi secoli dai dottori cattolici per arrivare a qualche
conoscenza e comprensione del dogma senza dubbio non poggiano su di un
fondamento così caduco. Si appoggiano invece a principi e nozioni dettate
da una vera conoscenza del creato; e nel dedurre queste conoscenze, la
verità rivelata, come una stella, ha illuminato, per mezzo della Chiesa,
la mente umana. Perciò non c'è da meravigliarsi se qualcuna di queste
nozioni non solo sia stata adoperata in Concili Ecumenici, ma vi abbia
ricevuto tale sanzione per cui non ci è lecito allontanarcene »: Lett. enc.
Humani generis (12 agosto 1950): AAS 42 (1950), 566-567; cfr
Commissione Teologica Internazionale, Doc. Interpretationis problema
(ottobre 1989): Ench. Vat. 11, nn. 2717-2811.
(113) « Quanto al significato
stesso delle formule dogmatiche, esso nella Chiesa rimane sempre vero e
coerente, anche quando è maggiormente chiarito e meglio compreso. Devono,
quindi, i fedeli rifuggire dall'opinione la quale ritiene che le formule
dogmatiche (o qualche categoria di esse) non possono manifestare la verità
determinatamente, ma solo delle sue approssimazioni cangianti che sono, in
certa maniera, deformazioni e alterazioni della medesima »: S. Congr. per
la Dottrina della Fede, Dich. sulla difesa della dottrina cattolica circa
la Chiesa, Mysterium Ecclesiae (24 giugno 1973), 5: AAS 65
(1973), 403.
(114) Cfr Congr. S. Officii,
Decr. Lamentabili (3 luglio 1907), 26: ASS 40 (1907), 473.
(115) Cfr Giovanni Paolo II,
Discorso al Pontificio Ateneo « Angelicum » (17 novembre 1979), 6:
Insegnamenti, II, 2 (1979), 1183-1185.
(116) N. 32: AAS 85
(1993), 1159-1160.
(117) Cfr Giovanni Paolo II,
Esort. ap. Catechesi tradendae (16 ottobre 1979), 30: AAS 71
(1979), 1302-1303; Congr. per la Dottrina della Fede, Istr. sulla
vocazione ecclesiale del teologo Donum veritatis (24 maggio 1990),
7: AAS 82 (1990), 1552-1553.
(118) Cfr Giovanni Paolo II,
Esort. ap. Catechesi tradendae (16 ottobre 1979), 30: AAS 71
(1979), 1302-1303.
(119) Cfr ibid., 22,
l. c., 1295-1296.
(120) Cfr
ibid., 7, l. c., 1282.
(121) Cfr
ibid., 59, l. c., 1325.
(122) Conc. Ecum. Vat. I,
Cost. dogm. sulla fede cattolica Dei Filius, IV: DS 3019.
(123) « Nessuno può fare della
teologia quasi che fosse una semplice raccolta dei propri concetti
personali; ma ognuno deve essere consapevole di rimanere in stretta unione
con quella missione di insegnare la verità, di cui è responsabile la
Chiesa »: Giovanni Paolo II, Lett. enc. Redemptor hominis (4 marzo
1979), 19: AAS 71 (1979), 308.
(124) Cfr Conc. Ecum. Vat. II,
Dich. sulla libertà religiosa Dignitatis humanae, 1-3.
(125) Cfr Esort. ap.
Evangelii nuntiandi (8 dicembre 1975), 20: AAS 68 (1976),
18-19.
(126) Cost. past sulla Chiesa
nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 92.
(127) Cfr ibid., 10.
(128) Prologus, 4:
Opera omnia, Firenze 1891, t. V, 296.
(129) Cfr Conc. Ecum. Vat. II,
Decr. sulla formazione sacerdotale Optatam totius, 15.
(130) Cfr Giovanni Paolo II,
Cost. ap. Sapientia christiana (15 aprile 1979), artt. 67-68:
AAS 71 (1979), 491-492.
(131) Giovanni Paolo II,
Discorso all'Università di Cracovia per il 600o anniversario dell'Alma
Mater Jagellonica (8 giugno 1997), 4: L'Osservatore Romano, 9-10
giugno 1997, p. 12.
(132) « 'e noerà tes písteos tràpeza
»: Omelia in lode di Santa Maria Madre di Dio, dello pseudo
Epifanio: PG 43, 493. |