Sant'Agostino, dopo la sua conversione e la morte della madre, santa Monica, decise di tornare in Africa per potersi dedicare come monaco alla vita di preghiera insieme con altri amici e discepoli. Come racconta Possidio, il suo biografo, «là giunto, dopo essersi liberato dei suoi beni, vi dimorò circa tre anni, e viveva per Dio insieme a chi si era unito a lui, nel digiuno, nella preghiera, nelle opere buone, nelle meditazioni, di notte e di giorno, della legge del Signore». La sua esperienza di vita e di preghiera fu così affascinante che, alla sua morte, avvenuta nel 430, continua il biografo, «Agostino lasciò alla Chiesa monasteri maschili e femminili, pieni di servi e serve di Dio, con i loro superiori, insieme a biblioteche ben fornite di libri». Tutta questa ricchezza umana e spirituale venne devastata dalle successive ondate di Vandali, prima, ed Arabi in seguito. I monaci Liberato, abate, Bonifacio, diacono, Servio e Rustico, suddiaconi, Rogato e Settimo e il giovane Massimo, di quindici anni, furono discepoli di sant'Agostino nel monastero di Gafsa (odierna Tunisia) che subirono il martirio nel 483, durante il regno del vandalo ariano Unnerico (477-484). La loro passio è ricordata dal vescovo Vittore di Vita (430-484) nella Historia persecutionis Africanae provinciae, temporibus Geiserici et Hunirici regum Wandalorum. Gli ariani, con la forza, s'impossessarono di tutte le chiese e i monasteri cattolici. Coloro che non aderivano all'eresia erano torturati ed uccisi. Anche i nostri, non venendo meno alla loro fede, furono incarcerati e sarebbero lì morti di stenti se non fosse stato per il soccorso e conforto dai cattolici di Cartagine, che arrivarono a corrompere i carcerieri. Venuto a sapere di questa circostanza, per evitare qualsiasi aiuto da parte della popolazione, il re Unnerico fece trasferire i sette monaci su una barca perchéé fosse incendiata in mare aperto. Durante il tragitto dalla prigione al mare le strade erano affollate di popolo che pregava per loro e li incoraggiava ad affrontare il martirio. I carnefici, commossi dalla tenera età di Massimo, il più giovane dei sette e quasi un bambino, cercarono inutilmente di persuaderlo a prendere le distanze dai compagni ed abiurare la fede cattolica. Caricati dunque sulla barca e legati mani e piedi a fascine o addirittura inchiodati ai tronchi, furono spinti al largo per essere poi bruciati. Nonostante tutti gli sforzi per dare fuoco alla barca carica di legna, questa non si incendiò. I martiri furono finiti a colpi di remo. Era il 2 luglio del 483. Per disprezzo aggiuntivo i loro corpi furono gettati in mare ma, inaspettatamente, le onde li riportarono sulla spiaggia lo stesso giorno. I cattolici allora furono in grado di rendere i dovuti onori alle salme che, scortate e sostenute dai diaconi Solutore e Maurizio, furono trasportate nel monastero di Bigne nei pressi della chiesa di S. Celestina. All'invasione degli arabi le loro reliquie furono traslate altrove. La loro celebrazione fu concessa all'Ordine Agostiniano il 6 giugno 1671 e la memoria liturgica ricorre il 2 luglio. (ldn)